I’ll always follow the
quiet curve of your hip, on my way back home.
3. Un autodafé dei miei innamoramenti
Jasmine aveva messo le mani sulla sua
prima suite da poche ore: aveva fatto un bagno con i sali e la schiuma come aveva
visto solo nei film e si era messa il pigiama, pronta a farsi avvolgere da un
letto che aveva tutta l’aria di essere comodissimo. Vi si era lanciata sopra e
si era messa sotto le coperte: sentiva un gran casino nelle orecchie, come un
fischio continuo, dovuto probabilmente all’effetto degli amplificatori. Aveva
chiuso gli occhi e si era detta che si sarebbe riposata: era stanca morta ed
era stata una giornata di quelle che spaccavano. Avrebbe dormito davvero, se
alcuni rumori parecchio equivoci di testate del letto che sbatacchiavano contro
il muro o molle del letto che cigolavano, che si alternavano a gemiti sconnessi
e gridi di nomi, non fossero provenuti dalla stanza accanto.
Jasmine sperò che la scelta del
management di mettere la sua stanza accanto a quella di Steven e Tiffany non
fosse permanente. Stava cercando di tapparsi le orecchie con il cuscino extra
che il letto matrimoniale aveva in dotazione, quando qualcuno, bussando
violentemente alla porta, gridò:
«Donnaaaaaaaaa!»
Avrebbe riconosciuto quella voce tra
mille. La moretta si alzò dal letto e indossò la vestaglia che aveva trovato
piegata sul fondo del letto, poi si trascinò fino all’uscio. Aprì e trovò Axl intento a finire una conversazione che forse aveva
intrapreso da solo.
«… eja, di ghisa.»
«Di ghisa? Di cosa stai parlando, Axl? Hai bevuto?» chiese lei, preoccupata.
«Secondo te?»
Il cantante strinse la fibbia della
cintola, lanciando un’occhiata di sufficienza alla nuova corista, poi fece
irruzione nella stanza, trascinando con sé Stradlin.
«So che non hai ancora intervistato Izzy. Quindi mi sono offerto di portartelo qui, così puoi
fargli tutte le domande che vuoi. Naturalmente, non è detto che lui risponda,
ma devi provarci se vuoi avere un quadro completo del gruppo…»
«Finito di parlare come se non fossi
qui?» mormorò il chitarrista.
«Come non detto, Izzy
oggi è in vena di chiacchiere. Buon lavoro.»
Jaz tremò con la porta che veniva sbattuta
dopo l’uscita del rosso, quindi non ebbe il tempo di pensare al fatto che il
despota le avesse perfino augurato buon lavoro. La ragazza fece giusto in tempo
a voltarsi per vedere che Izzy si era accomodato su
una poltroncina stile impero, e questo le risparmiava l’incombenza e
l’imbarazzo di invitarlo ad accomodarsi, cosa che naturalmente avrebbe potuta
essere fraintesa. L’uomo stava tracannando il primo miniwhisky
che un tempo era alloggiato nel minibar: aveva tutta l’aria di uno che non ha
intenzione di far sopravvivere il contenuto di neanche una bottiglia.
«Insomma, com’è stata la tua prima volta?»
domandò quello, insolitamente loquace.
La ragazza arrossì violentemente: stava
ancora pensando ai messaggi subliminali di Axl, alla
ghisa, ai suoi vicini di camera e la bocca di Izzy
incollata alla bottiglietta non era affatto d’aiuto.
«C-che?»
«Ti sei divertita?»
Solo allora la ragazza capì che Stralin si stava sicuramente riferendo alla prima
esibizione, così si affrettò a rispondere: «Oh, sì, moltissimo!»
«Bene.»
«Già, bene.»
Il silenzio piombò nella suite e una
palla di erba secca rotolò con nonchalance tra i due, nonostante non spirasse
alcun alito di vento.
Jasmine però cercò disperatamente di non
precipitare nel buco nero del mutismo imbarazzante, e optò per il dire le prime
stronzate che le passavano per la mente in quel preciso istante.
«Posso… posso offrirti qualcosa?»
Per tutta risposta il chitarrista le
mostrò il miniwhisky che teneva in mano (il quinto,
per la precisione, sottrattole con le abilità del Mago Silvan), un’espressione
impenetrabile dipinta sul volto.
«Oh, vedo che hai fatto da te… bene.»
Izzy giurò di aver visto la palla di erba
secca fare retromarcia e ballare spensierata un tip tap davanti ai loro occhi… ma forse era solo l’alcool che
cominciava a fare effetto.
«Non dovevi intervistarmi?»
Quelle parole riscossero la ragazza, che
si ritrovò a ringraziarlo mentalmente.
«Oh, sì, certo! Allora, cominciamo subito
con le domande facili che potrebbero sembrare pure sceme: quand’è che hai
deciso di voler far parte di una band?»
«… potrei rigirarti la domanda.»
«… c-come, scusa?» si affrettò a
balbettare lei, la salivazione improvvisamente scomparsa.
Izzy le si avvicinò, sempre restando seduto
sulla poltrona, spostando il suddetto oggetto d’arredamento con scarsa
delicatezza e grande frastuono.
«Ok, hai una bella voce, non lo metto in
dubbio, ma sappiamo benissimo entrambi che fare la corista non sia la tua
ambizione: allora perché sei venuta al matrimonio di Steven?»
«Ma che razza di domande sono!»
s’inalberò lei, cercando di essere il più convincente possibile «Mi ci ha
trascinato il mio capo, che è zio di Tiffany! Per caso la mia presenza ti ha
arrecato fastidio?»
«Oh, niente affatto…» le sorrise sornione
«E comunque ho capito, t’ha dato lo zuccherino dopo un milione di caffè
recapitatigli a domicilio, dico bene?»
La vena della tempia della ragazza
cominciò a pulsare vistosamente, rischiando di causarle un embolo, anche se in
quel momento era troppo impegnata a reprimere una vagonata d’insulti per
potersi preoccupare delle proprie condizioni di salute.
«Senti, io non so se lo stronzo che ti
ritrovi come cantante t’ha contagiato, fatto sta che non ti devi assolutamente
rivolgere così a me: voglio fare la corista? Farò la corista! Voglio imbucarmi
ad uno stracazzo di matrimonio? Sono libera di fare
anche quello, e non sarai di certo tu ad impedirmelo!» urlò, ormai in piedi
«Non ho capito perché devo rendere conto di ogni mia azione: non so come cazzo
ho fatto a diventare corista, non ne ho la più pallida idea… ma sai che ti
dico? Che, finché dura, me la godrò!»
A quelle parole il chitarrista sorrise
nuovamente e, dopo essersi alzato in piedi, la raggiunse, posizionandosi
esattamente di fronte a lei.
«Te lo dico io perché sei diventata
corista: perché è dal giorno del matrimonio che non mi stacchi gli occhi di
dosso, e questo non puoi negarlo…» le mise una ciocca di capelli dietro un
orecchio «Ma sei fortunata, sai? Perché è la stessa cosa che è successa a me.»
Per tutta risposta Jasmine deglutì
rumorosamente e si precipitò fuori dalla porta, il volto in fiamme e il cuore
in gola.
Aveva una sola salvezza, e quella era
Tiffany.
Tiffany sorrise e digitò il numero di
telefono di Richard, che ormai sapeva a memoria. L’apparecchio squillò a vuoto,
come sempre, fino ad innescare la segreteria, e il classico lasciare un messaggio dopo il segnale
acustico.
Lei non se lo fece ripetere due volte e
iniziò a parlare: «Hey Rich,
sono Tiffany. Quando hai parlato del chitarrista più figo degli Stati Uniti non
avevo realizzato che stessi parlando di te stesso! E comunque sono certa che la
mia collega avrebbe avuto da ridire… ahahahahah
scherzo, lo sai che ti adoro anche se non ti ho mai visto né sentito suonare.
Ho fiducia nelle tue doti di musicista! Sei stato fortunato a riavere indietro
la tua chitarra. Io troverò qualcuno che mi insegni al posto tuo. Sto cercando
di rimpiazzarti da anni, ormai. Sai, la prima tappa è stata una figata
pazzesca, avresti dovuto esserci. In realtà, avresti dovuto esserci molte volte… »
Dopo aver girovagato come una furia per
tutto l’hotel e per tutta la notte, alle prime luci dell’alba Jasmine si
ricordò finalmente che la stanza di Tiffany era quella attaccata alla sua:
quando fu davanti alla sua porta fece per bussare, ma la voce dell’amica la
persuase dal farlo.
Stava parlando a voce piuttosto bassa, ma
lei riusciva a sentirla distintamente perché doveva essere proprio nei pressi
dell’entrata della stanza.
Pur sapendo che non fosse eticamente
corretto, poggiò un orecchio sul legno della porta per poter ascoltare meglio.
«Serve una mano?»
La giovane si vide sventolare un
bicchiere di fronte al naso e, dopo aver alzato il capo, si accorse che chi le
aveva rivolto la parola era nientepopodimeno che mister McKagan.
A quel punto, resasi conto di essere
stata scoperta, si scostò immediatamente dalla porta, iniziando a balbettare
scuse campate per aria.
«I-io… non è come sembra, eh! Passavo di
qui per caso e…»
«Tranquilla, non me ne frega nulla se sei
una psicopatica o se hai disagi di qualsiasi tipo…» le sorrise lui «Dai, prendi
questo e prova a vedere se funziona: l’ho sempre visto fare nei polizieschi ma
non ho mai avuto modo di sperimentare questa tattica.»
La ragazza fissò titubante il bicchiere,
per poi afferrarlo e sorridergli a propria volta; dopodiché si mise all’opera,
cercando di carpire più parole possibili.
«Sai, avevo il bicchiere in mano perché
me ne stavo andando giù alla reception a protestare: ne ho chiesto di più
grandi e non me li hanno voluti dare, perché dicono che questi bastano… così
volevo andare a farglieli vedere di persona, magari capiscono che la situazione
è urgente e…»
«Duff, ti
spiacerebbe stare zitto per due secondi, almeno riesco a capire qualcosa?»
sbuffò quella per tutta risposta, schiacciandosi ancor di più contro il legno,
ma poi sorrise soddisfatta «Bingo!»
«Ah, sapevo che avrebbe funzionato!»
esclamò lui, appoggiandosi alla porta perché la curiosità aveva preso il
sopravvento. «Sai…» continuò poi, mentre lei era ancora concentrata ad
origliare «Mi chiedevo se ti andasse di venire con me a reclamare… cioè, non che
tu sia una grande fan degli alcolici, questo l’ho notato… però sicuramente con
le parole ci sai fare più di me, e sono sicuro che li convinceresti, quegli
stronzi… e poi potrei offrirti da bere o magari portarti fuori a cena, che ne
so»
«Duff, non mi
sembra il caso…» sussurrò quella piano, cercando di non farsi sentire.
«Perché no? Non ho un secondo fine, eh! È
solo una cena tra amici, niente di che…»
«Volevo dire “Duff,
non mi sembra il caso che”…» e, com’ebbe detto quello, la porta cigolò e cadde
per terra, facendoli ruzzolare nella stanza di Tiffany, che a quel frastuono
sobbalzò spaventata e riagganciò la cornetta immediatamente.
«… “non mi sembra il caso che tu ti appoggi troppo a quella porta”, ecco quel che volevo dire.» sbuffò Jasmine ancora frastornata, pronta a sorbirsi la ramanzina dell’amica.
Nda:
Dazed: Innanzitutto vi
devo ringraziare per la pazienza infinita che state portando, compresa la mia
socia u.u “Eja, di ghisa” è
un’espressione sarda che si usa per dire “certo, come no” (tradotta
letteralmente sarebbe “sì, certo, di ghisa”) e io e la Cath
la usiamo sempre… è diventata un tormentone e la Cath
l’ha affibbiata a mister Rose, che ci volete fare lol
Altro da dire? NO.
(grazie-grazie-grazie a chi si prenderà la briga di leggere :3)
Snafu: Grazie a tutti i lettori, a chi ha commentato e
a chi ha pazientemente aspettato! (non
ho altro da aggiungere, bye :D)
Disclaimers:
Il titolo del capitolo è tratto da un brano di Franco Battiato.