Salve.
Già, sono io.
So che molte di voi saranno rimaste spiazzate, visto che non trovavano più il mio account ma...è stato cancellato da una persona che ritenevo importante, a mia insaputa.
Ora son tornata e che dire, spero di trovare ancora coloro che mi leggevano! :3
Un bacione!
#1
Rumori
sordi.
-Edward
Caos
calmo.
Ero
circondato da
questo, da rumori sordi che urlavano, bestemmiavano, impazzivano.
Serrai
gli occhi con
più forza.
Il
porto di Liverpool,
l’odore del mare al mattino.
I
gabbiani che volavano
in un cielo chiaro; subito dopo l’alba.
“Puttana,
ALZATI!”, il
rumore di uno schiaffo ricevuto e dato.
Uno
schiaffo che si
infrange sulla guancia di lei.
Una
lacrima che si
infrange con le altre sulle mie, di guance.
Mare
calmo, cielo
terso, aria fresca.
“ALZATI
TI HO DETTO!”
urla, un corpo che si ribella; un corpo che opprime.
L’immagine
del mare
calmo viene distorta da quella del mare frastagliato… di una
tempesta.
Ora,
i rumori sordi,
rappresentano grida di liberazione, di aiuto e di sofferenza.
Portai
i pugni alle
orecchie.
Basta,
basta!
Basta
rumori! Basta
sofferenza! Basta, per favore.
Un
corpo che si
dibatte, un corpo che opprime; lacrime, lacrime e ancora lacrime.
Il
porto Edward.
Il
porto.
Altri
rumori che
portano il marchio di una violenza inflitta e subita.
Non
sei al porto Edward.
Ti
trovi nella tua vita
di merda.
Ti
trovi nell’inferno
Edward.
“Per
favore, basta”
mormorò una voce dalla stanza affianco, stremata.
“Ti
accontento puttana,
solo perché ho una riunione!” Un altro schiaffo,
un corpo che cadde a terra.
Sentii
la porta della
mia cameretta aprirsi e attraverso uno spiraglio di luce vidi il
carnefice.
“Tesoro”
mi accarezzò il
capo con dolcezza.
Non
mi ritrassi, ero
fin troppo spaventato e disgustato per fare qualunque movimento.
“Vai
da mamma e curala,
per favore” mi lasciò un bacio sulla fronte e
sorrise quando annuii inerme.
“Bravo
bambino”.
Chiuse
la porta e urlai.
Non
potei far altro se
non urlare e piangere.
Presi
un orsetto di
peluche e una coperta.
Aprii
la porta con
timore e aspettativa; ormai sapevo in che condizioni si trovava la
mamma, non
era di certo la prima volta.
Andai
da lei, la coprì
e le diedi il peluche che strinse tra le braccia piene di lividi e
graffi.
Chiuse
gli occhi, poi sorrise
tristemente accarezzandomi il capo.
Le
sorrisi tra le
lacrime e portai il suo capo sulle mie gambe.
Canticchiai
un
motivetto a noi conosciuto.
Sorrise,
ricordando la
nostra ninna nanna.
“Sei
un bravo
bambino, Edward”.
Chiuse
gli occhi,
sorrise…e non gli riaprì più.
11
anni dopo.
Dicono
che la vita è
difficile e che, la morte invece, facile.
Beh,
è una cazzata.
La
vita è difficile,
una lotta continua dove le strade più semplici sono le
più tortuose, e le più
tortuose… sono un tunnel di dolore senza fine.
Ma
la morte, oh! La
morte è peggio o meglio, dipende dai punti di vista.
Per
chi se ne va dopo
aver vissuto una vita lunga e felice, è un bene.
Ha
già avuto tutto
dalla vita, l’ha vissuta davvero.
Per
chi, come mia
madre, se ne va dopo aver vissuto una vita di merda, è
ugualmente un bene.
Ha
smesso di soffrire lei.
Ha
smesso.
Ora
ovunque stia, sta
bene.
In
pace.
Da
sola.
Ma
questo concetto vale
per chi se ne va.
E
per chi resta?
Chi
resta, cosa prova?
Dolore.
Un
oceano infinito di
dolore e sofferenza.
Ed
è inutile
prendersela con Dio, con il destino o con chissà
cos’altro.
Tu
soffri.
Chi
resta soffre.
Ed
è una sofferenza che
ti si instaura dentro, che diventa parte di te, che ti distrugge e ti
sputtana
la vita.
Bene
per chi se ne va.
Male
per chi resta e
vorrebbe in realtà andarsene.
Ai
bambini piccoli che
hanno avuto un’infanzia si diceva, per rassicurarli:
“Va dagli angeli”, “va in
cielo”, “starà bene”.
E
io, io che un’infanzia
non l’ho mai vissuta e che mi è stata rubata,
penso:
“Per
quale cazzo di
ragione doveva andare proprio lei dagli angeli?”.
E’
la vita, dicono.
Una
vita di merda,
dico.
Ed
è la stessa cosa che
penso stando ora a questo tavolo, circondato da persone che mi hanno rovinato la
vita.
«Allora
figliolo, come
prosegue il tuo lavoro alla libreria?» mormorò
disgustato quel viscido.
«Molto
bene, uomo d’affari.»
Tono in risposta
altrettanto disgustato.
«Non
ti azzardare ad utilizzare
quel tono con me, signorino!» urlò battendo un
pugno sul tavolo.
Vidi
mia sorella
sobbalzare impaurita e pregarmi con lo sguardo di calmarmi.
Accanto
a me, mio
fratello continuava a mangiare senza curarsi, in apparenza, di
ciò che stava
accadendo.
Guardai
nuovamente
Alice, e le chiesi scusa con gli occhi.
«Se
per questo io dovrei
dirti di non azzardarti a…»
«Signor
Masen, una
lettera da parte del Signor Swan.» Marie interruppe la
schermaglia tra me e
quell’essere.
«Oh,
ti ringrazio cara»
le accarezzo lascivamente il braccio.
Mi
alzai di scatto
dalla tavola e nonostante i richiami di Alice e Emmett continuai
imperterrito.
Accesi
l’auto e partii.
140,
150, 160, 180…
spingevo i piedi sul pedale sempre più a fondo, sempre con
più forza e rabbia.
Sterzai
bruscamente sul
ciglio della strada e vomitai l’anima, poco prima di
intraprendere la strada
che mi avrebbe portato dall’unica persona che abbia mai amato.
Mi
pulii le labbra con
un fazzoletto e andai verso di lei.
Ogni
passo e sentivo la
sofferenza aumentare.
Ogni
passo e sentivo i
ricordi affiorare.
Ogni
passo e odiavo
quel mostro di padre che mi
ritrovavo.
Ogni
passo…e finii per
raggiungere mia madre.
Mi
sedetti, non prima
di aver pulito con cura la sua lapide.
Appoggiai
il capo su di
essa e ascoltai il martellante rumore del silenzio.
Buon
compleanno Edward,
hai compiuto ventuno anni
il giorno
dell’anniversario della morte di tua madre.
Ma
ovviamente, attorno
a me, il vuoto.
-Mallory.
Bum, bum, bum, bum.
Il
ritmo della musica
House, pressante e martellante, è il degno accompagnatore di
tutti quei corpi
sudati e ammassati che a tempo di musica, o meglio dell'alcool e droghe
ingerite, si muovono freneticamente.
Bum,
bum, bum, bum.
Ho
caldo. Cerco di
farmi un varco tra la calca soffocante di persone.
Bum,
bum, bum, bum.
La
vista si appanna
sempre più e la testa mi gira vorticosamente.
Bum,
bum, bum, bum.
Esco
dalla folla e, con
passo barcollante, mi siedo su una delle tante panchine della
Metropolitana.
Bum,
bum, bum, bum.
L'eroina
sta facendo il
suo effetto nel mio sistema nervoso e nel sangue.
Bum,
bum, bum, bum.
Mi
sento bene. Libera
dai mille pensieri e dai mille problemi.
Bum,
bum, bum, bum.
«Vuoi
un goccio di
Vodka? Ti aiuterà a sentirti meglio».
Mi
volto verso la voce
ruvida e calda che ha pronunciato queste parole e vedo Stefan.
Oggi
sembra più bello
del solito, il mio migliore amico.
O
forse è la droga, a
farmi credere questo.
«Perché
no» gli prendo
la bottiglia di Vodka dalle mani e bevo avida, fregandomene delle gocce
che
sfuggono dalle mie labbra, che percorrono un percorso immaginario lungo
la mia
gola, per poi terminare
nell'incavo dei
seni.
Mi
volto e mi fissa con
sguardo dolce... triste.
Si
porta alle labbra la
canna per aspirarne il fumo con una boccata profonda.
È così... bello,
il mio migliore amico.
Scoppio
a ridere senza
motivo, con spensieratezza.
Mi
fissò con i suoi
occhi verdi intensi, le pupille che erano due spilli.
«
Mallory, sei un
disastro.», continuò a fissarmi intensamente, per
poi scrollare le spalle e
bere la sua Vodka.
Sentivo
la testa
vorticare senza controllo, mentre la vista si era appannata per
l’ennesima
volta, ma la sensazione di spossatezza, allo stesso tempo di
iperattività che
ti dava la cocaina, era fantastica.
Fantastica
per il semplice motivo che non riuscivo a pensare
alla merda che mi circodava.
«Mi
dai un goccio, per
favore?».
Mi
guardò nuovamente e,
sorridendomi di sbieco, mi allungò la bottiglia da cui bevvi
avidamente.
«Si
può sapere cosa ci
fa una bella donzella ricca sfondata, in questa merda?»
domandò, aspirando
dalla nuova canna appena rullata, dopo aver indicato con un ampio gesto
di mano
la metropolitana.
«La
stesso che stai
facendo tu, gentleman».
Ci
fissammo negli occhi
e scoppiamo a ridere a crepapelle per diversi minuti, senza fermarci.
Ero
felice nella finta
patina di felicità che la droga e l’alcol creavano.
Il
problema sarebbe
arrivato dopo, quando avrei ripreso
le piene facoltà mentali e fisiche.
Finii
la bottiglia di
Vodka.
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«Isabella,
dovrebbe
svegliarsi, sono le sette del mattino», la voce di una delle
mie inservienti
arrivò distante e
indecifrabile. La
testa continuava a pulsarmi vorticosamente. La sera precedente era un
pallido
ricordo nebuloso e l'unica cosa che rammentavo erano due occhi verdi
come uno
smeraldo.
Niente
di più, niente
di meno.
Aprii
gli occhi,
togliendo la visiera che li oscurava per la notte.
Lasciai
vagare lo
sguardo lungo la mia camera da letto e mi stupii di come ero riuscita, anche
stavolta, a tornare in casa.
Mi
alzai e andai di
fronte allo specchio orizzontale posizionato dietro alla porta
dell'enorme
bagno.
Guardai
i miei capelli
arruffati, le mie occhiaie profonde, il trucco sbavato e iniziai a
pettinarmi e
a sistemarmi... per l'ennesima giornata dedicata alla finzione.