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Autore: Mary P_Stark    11/05/2013    4 recensioni
Brie e Duncan guidano il branco di Matlock, il Concilio di Anziani è stato destituito e un nuovo corso è iniziato. Assieme a questa nuova via, nuovi amici e vecchi nemici fanno il loro ingresso nella vita dei due licantropi e un'antica, mistica ombra sembra voler ghermire tra le sue spire Brie, che non sa, o non ricorda, chi possa volerla morta. SECONDO CAPITOLO DELLA TRILOGIA DELLA LUNA. (riferimenti alla storia presenti nel racconto precedente)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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16.

 
 
 
 
 
 
 

Mi misi istintivamente in posizione di attacco, piegandomi in avanti e arcuando le mani ad artiglio mentre Anthony, parandosi di fronte a me, ammise preoccupato: “Non ho mai sentito un odore più insolito di questo.”
“Gran brutto segno” brontolai, guardandomi intorno con aria guardinga. “Sono almeno sei. Di certo, non sono molto sportivi.”
“Credo se ne freghino della sportività” ringhiò Anthony.
Al pari mio, sgranò gli occhi non appena scorgemmo, nella penombra del bosco, alcune figure grottesche e che ricordavano tanto i miei incubi di bambina.
Quegli esseri erano alti non meno di due metri, ritti su gambe massicce e forti – anche se definirle solo massicce era un eufemismo.
Il tronco e le braccia, interamente ricoperti di pelo scuro e folto, mi fecero tornare in mente l’orso Yoghi.  
Peccato che questi fossero i suoi cugini spaventosi.
Quelle creature da incubo circondarono per intero il perimetro del Vigrond, impedendoci di fatto qualsiasi fuga.
Impossibilitati a lanciare messaggi mentali – eravamo troppo distanti da Farley, perché qualcuno ci potesse sentire – ci ritrovammo nella spiacevole condizione di doverli affrontare da soli.
“Suggerimenti?” sussurrai, scrutando a fasi alterne quei mostri dalle zanne aguzze e le unghie spaventosamente lunghe.
“Non saprei proprio da dove cominciare” brontolò Anthony, prima di chiedermi: “Con i tuoi poteri di wicca percepisci qualcosa?”
“No. Zero assoluto. Temo che, contro di loro, i miei doni non servano a nulla, a meno di non sradicare tutte le piante del bosco e lanciarle contro di loro” borbottai, aggrottando la fronte per l’ansia.
Avevo tentato immediatamente un qualche tipo di approccio con le loro menti, ma era stato come cercare un fantasma.
Per il mio potere, loro erano inesistenti.
Se potevo vagamente percepire le menti degli umani, con loro questo era del tutto impossibile, perciò non potevo utilizzare la loro forza per contrastarli, né usare quella del mio lupo per ferirli col pensiero.
Potevo percepire la loro forza vitale, ma la faccenda finiva lì.
“Attacco diretto?” propose allora Anthony, prima di veder giungere un nuovo arrivato.
Se i primi mi avevano spaventato, quello mi terrorizzò, facendomi crollare a terra per il panico.
Era alto ben più di tre metri e le sue fauci erano così spaventose, che neppure il più feroce o terrificante dei licantropi, avrebbe fatto sorgere così tanta paura in me come, invece, era capace di fare quella creatura.
I suoi occhi, dotati di un’intelligenza umana che conferiva un aspetto ancor più sinistro a quell’essere, mi fissarono per alcuni attimi con cupa indifferenza.
Un attimo dopo le sue carni, squassate da brividi e scricchiolii, lasciarono scaturire le sue sembianze di uomo.
Quando la mutazione fu completa, mi ritrovai a fissare con occhi spalancati e membra tremanti un uomo alto più o meno due metri, dalla corporatura robusta e ricoperta interamente da fasce muscolari maledettamente sviluppate.
La sua ovvia nudità non mi colpì come, invece, lo fecero la sua distesa apparentemente infinita di tatuaggi rossi e bruni, che tingevano il suo corpo statuario.
La sua pelle naturalmente bronzea era ricoperta da un’intricata selva di simboli celtici, e una pesante torque d’oro con due teste d’orso ai capi attorniava il suo collo taurino.
Lunghe e morbide onde biondo platino incorniciavano il suo viso dai lineamenti feroci, solleticandogli le spalle enormi.
Scendevano fino a sfiorargli la vita, mentre un paio di treccine, strette da lacci di pelle, scivolavano sul suo torace robusto e cosparso da leggera peluria bionda.
Nel complesso, sembrava uscito dall’opera dei Nibelunghi.
Tutto ciò che avevo di fronte non poteva esistere, eppure, ciò che il mio naso percepiva erano carne, sangue e pelo, niente altro.
Perché il suo odore era così fuorviante?
Non poteva comunque trattarsi del parto della mia fantasia quanto, piuttosto, di un’altra creatura ancestrale.
Anthony, accucciandosi accanto a me, mormorò roco: “Qui la vedo davvero brutta. Stai bene?”
“Se la smetto di tremare, sì” replicai, accettando la sua mano per alzarmi da terra.
Le gambe sembravano fatte di gelatina, ma non potevo affrontare i miei nemici standomene seduta sulle foglie della quercia.
Dovevo dimostrare un po’ di spavalderia – per fasulla che fosse – o non mi avrebbero presa per niente sul serio.
Guardai perciò la più possente tra quelle creature e, cercando di controllare il tremolio che ancora scuoteva il mio corpo, domandai con tono inquisitorio: “Cosa volete da noi? Sapete di essere in un luogo sacro?”
Udimmo soltanto grugniti e bassi ringhi di gola che, sibilando minacciosi, fuoriuscirono dalle loro fauci ghignanti.
Deglutii un paio di volte, prima di ripetere la mia domanda.
Il guerriero che si era trasformato, allora, avanzò di un passo e sogghignò.
Stentoreo, esclamò: “Il bosco è sacro anche per noi, ma non tu, creatura immonda di cui non voglio neppure dire il nome per non insozzare l’aria che ci circonda.”
Non fosse stato che, a quanto pareva, ce l’aveva a morte con me, avrei trovato la sua voce molto bella.
Anthony si mise subito in posizione di attacco e ringhiò in risposta: “Non ti permetto di offendere così impunemente la nostra Prima Lupa!”
Lui non lo degnò neppure di uno sguardo, limitandosi ad asserire: “Io non vedo una Prima Lupa di fronte a me, ma l’immonda presenza di colui che cercò di uccidere Wotan e suo figlio Tyr!”
Il mio corpo vibrò al suono di quei nomi, mentre ricordi che non mi appartenevano rimbombarono nella mia mente spaventata, ma vigile.
Ora che sapevo, conoscevo la provenienza di quelle immagini, ma ciò non mi aiutò a sentirmi meglio.
Il fatto che l’anima di un semidio mi avesse dato la vita, non mi dava stimoli sufficienti per starmene tranquilla in panciolle a godermi lo spettacolo.
Piuttosto, mi faceva tremare di paura, ancor più dei nemici che stavamo fronteggiando in quel momento.
Sapevo a cosa si stesse riferendo quel berserkr, ma non capivo come mai tanto livore per un evento che, tra le altre cose, non si era mai verificato. A meno che…
Aggrottai la fronte e dissi: “Non penserai davvero che io sia qui per fare del male a qualcuno, spero?!”
“So da fonti certe che il tuo ritorno significa distruzione. E noi te lo impediremo! Sappiamo che, imprigionato per l’eternità, ti togliesti la vita piuttosto che sottometterti alle regole di Wotan! Beh, stavolta agiremo noi prima di te, impedendoti di distruggere tutto!”
Le ultime parole quasi me le sputò in faccia, tanto era furioso.
Sempre grazie ai ricordi di Fenrir, che ora mi stavano tempestando la mente di immagini e flash più o meno intensi, sapevo bene come fossero andate le cose, quel giorno. Dubitavo però fortemente che, quel berserkr, avrebbe ascoltato le mie parole.
Preso un gran respiro, posai una mano sulla spalla di Anthony per trattenerlo e, cauta, chiesi: “Se vengo con voi, lascerete in vita il mio lupo?”
“Non abbiamo nulla contro i servitori della Madre, che anche noi adoriamo” dichiarò il berserkr, con voce più calma, fissando Anthony senza animosità alcuna “E’ solo la tua presenza su questa Terra che ammorba l’aria. E te solo puniremo.”
Anthony mi fissò confuso e preoccupato così, a mo’ di spiegazione, mormorai: “Si riferisce all’anima che ho dentro di me. Perciò, parla al maschile.”
“Ma Prima Lupa, Brianna…” tentennò Anthony, afferrandomi un braccio per non lasciarmi andare.
Gli sorrisi mesta, chiedendogli: “Qual è il compito di una Prima Lupa?”
Anthony aggrottò la fronte e disse controvoglia: “Proteggere il branco. Proteggere i suoi figli.”
“Appunto. E tu sei figlio mio, Anthony. Non permetterò che ti facciano del male, perciò andrò con loro” dichiarai con sicurezza, sfiorandogli il viso con una mano e sorridendo debolmente.
“Ma Duncan,… lui mi ha…” tentennò ancora, indeciso se lasciarmi fare o meno.
Lo azzittii, posando un dito sulle sue labbra e, scuotendo il capo, replicai: “Capirà, quando gli avrai detto il perché della loro venuta. Digli di parlare con la quercia. Lui può farlo. Gli spiegherà ogni cosa e, beh, sarà poi lui a decidere il da farsi.”
Non ero sicura che, la notizia di avere l’anima di Avya dentro di sé, lo avrebbe reso felice.
Questo avrebbe fatto sorgere in lui antiche paure come era successo a me, ma era giusto che sapesse.
Un basso ringhio di gola mi giunse alle orecchie, segno che i miei ‘accompagnatori’ stavano mordendo il freno perciò, allontanandomi di un passo da Anthony, gli ordinai: “Non cercare di fare cose stupide. Aspetta che ce ne siamo andati, poi torna a casa.”
“Duncan mi ammazzerà” asserì Anthony, sorridendo mesto.
Sapevo che non era quell’eventualità a spaventarlo quanto l’idea che, quasi sicuramente, mi avrebbero fatto del male.
Sorridendogli nell’indietreggiare verso i miei silenziosi nemici, mormorai: “Quando leggerà la tua mente, capirà. Hai la mia benedizione, Anthony. Possa la luna esserti guida e compagna.”
“E’ un grande onore che mi fai, wicca” esalò con voce straziata Anthony, piegando il capo in avanti prima di tornare a guardarmi con occhi lucidi di lacrime.
Il berserkr più vicino a me, aggrottando la fronte nel prendermi per un braccio, mi domandò turbato: “Sei veramente wicca?”
“Hai qualche scrupolo di coscienza?” lo irrisi per contro, trattenendo un'imprecazione quando la sua stretta si fece più forte attorno al mio braccio.
Le sue sopracciglia chiare formarono una V sulla sua faccia accigliata e io, preferendo non prendere bastonature prima del necessario, mi azzittii.
Lanciai un ultimo sguardo al Vigrond e ad Anthony che, impotente, ci vide sfilare davanti a lui fino a scomparire nel bosco.
Rassegnata, strattonai il braccio per recuperarlo dalla stretta del mio nemico e, con voce piana, borbottai: “Non ho intenzione di scappare. Quindi, puoi anche lasciarmi intero il braccio.”
“Non ne avresti comunque alcuna possibilità, femmina” mi disse il berserkr, sogghignando al mio indirizzo prima di levare un braccio.
Un attimo dopo avvertii un possente colpo alla nuca, e poi più nulla.

***

Dondolavo leggermente, o almeno così mi sembrava.
Un fresco profumo di menta e miele mi solleticò le narici, mentre il rollio che mi stava cullando si fece un poco più prepotente, svegliandomi del tutto.
Ero avvolta dalla penombra, con rade lame di luce che sgusciavano furtive da sotto una porta – con tutta probabilità chiusa a chiave.
Tutt’attorno a me, un’angusta cabina mi abbracciava nella sua claustrofobica piccolezza.
Dove diavolo ero?
Volgendo lo sguardo verso l’alto dopo aver tastato con le mani il mio giaciglio – a quanto pareva, ero sdraiata su un lettino striminzito – vidi condutture idrauliche e corrugati grigiastri contenenti, presumibilmente, fasci di cavi elettrici.
Nell’aria, oltre al dolce profumo della menta mescolata al miele, potei avvertire chiaramente l’aspro sentore del mare e quello forte e pungente di molti umani, oltre a diversi berserkir.
Quando cercai di muovermi per scendere da letto, scoprii con un certo nervosismo di avere mani e piedi legati e, pur tentando con tutte le mie forze di liberarmi, non vi riuscii.
Dopo dieci minuti di tentativi infruttuosi, grugnii indispettita e fu a quel punto che la lama di luce sotto la porta venne adombrata.
Un attimo dopo, il battente si aprì con un clang secco e metallico e, dall’esterno, un fascio luminoso penetrò per un momento prima di scomparire lesto, lasciando al suo posto solo la figura del mio rapitore.
“Sei sveglia. Bene” mi disse soltanto lui.
Lo guardai muoversi nell’angusta stanzetta e chiesi: “Dove sono?”
“Su un bastimento, se può interessarti” mi spiegò il berserkr, sogghignando per un momento prima di afferrare una tazza dal tavolino grezzo di fronte al letto.
Con la mano libera mi sollevò con facilità, mettendomi a sedere – neppure fossi stata un fuscello – e, accostatomi alle labbra il the che aveva attirato la mia curiosità, disse ancora: “Questo ti manterrà in vita fino al nostro arrivo. E’ arricchito con miele e vitamine in polvere.”
“Per volermi morta, mi state trattando piuttosto bene” brontolai, pur apprezzando la bevanda calda lungo la gola inaridita.
Bevvi avidamente, scrutando nel contempo la stanza nel tentativo di scoprire qualche possibile via di fuga – che non trovai.
Mi leccai soddisfatta le labbra e chiesi: “Avete in previsione un gran finale, per me? Di solito si fa così, nei film. Si ingozza il maialino prima di metterlo allo spiedo.”
L’uomo sogghignò divertito, lasciandomi seduta mentre riponeva la tazza sul tavolo e, poggiatosi contro di esso, intrecciò le braccia possenti sul torace – ora ricoperto da una maglietta  a maniche corte color vinaccia.
“Forse preferiresti davvero la morte, a quello che realmente ti aspetta.”
“Detta così, suona davvero male” scrollai le spalle, muovendo i piedi avanti e indietro. Li sentivo intorpiditi, non meno delle mani.
“Per una che sta per subire una sorte orrenda, mostri un’insolita ironia” dichiarò il mio rapitore, sollevando curioso un folto sopracciglio chiaro.
“Colpa mia, non di Fenrir” replicai acida.
Lui si avvicinò nuovamente a me e slegò a sorpresa le corde sottili che mi tenevano imprigionate le caviglie, dicendo: “La nostra guida non ne sarà affatto contenta. Ma poco importa.”
“Non si può star simpatici a tutti” commentai aspra. “Grazie. Mi sembrava di non averli più, i piedi.”
“Devi giungere viva e integra al rito, o non ci sarebbe gusto” replicò neutro l’uomo, gelandomi con quelle semplici parole.
Sbattei le palpebre, confusa, prima di scrutare il laccio tra le sue mani e domandare dubbiosa: “Cosa può esistere di così resistente da tenere imprigionato un licantropo?”
“Non un licantropo, ma te” precisò l’uomo. “Ora cammina un poco per riattivare la circolazione, poi faremo la stessa cosa per le mani.”
Obbedii mio malgrado – non volevo perdere un arto prima del tempo e, soprattutto, prima di aver chiarito la marea di dubbi che affollavano la mia mente intontita – e cominciai a muovere qualche passo per la stanza angusta. 
“Mi avete dato dell’aconito? Mi sento come se mi fosse passato sopra un C-130.”
“Una quantità minima per tenerti buona, sì” annuì come se nulla fosse, scrutandomi come un falco osserva la preda prima di divorarla.
Rabbrividii mio malgrado, prima di chiedergli ancora: “Sei un berserkr?”
Non parve sorpreso, né della mia domanda, né del nome che usai per definirlo, quindi diedi per scontato che il suo fosse un implicito sì.
In ogni caso, mi rispose.
“Tale è il mio nome e, se tu potessi accedere ai ricordi della tua anima immortale, conosceresti molto altro di me e della mia razza poiché Fenrir ci conobbe, in gioventù, prima di dedicarsi al male e alla distruzione.”
Qualcosa non andava, riguardo alla storia di Fenrir, ma non avevo né la forza, né la voglia, di sostenere una discussione con lui.
Ero più che convinta che, se si fosse arrabbiato, qualche livido prima del gran banchetto in mio onore me lo avrebbe lasciato volentieri.
Tenni perciò la bocca chiusa – rarità! – e mi limitai ad annuire, continuando a camminare per la piccola cabina, chiedendomi dove fossimo diretti e quanto tempo avremmo passato in mare.
All’esterno, potevo udire il rombo cupo e lontano dei motori diesel del bastimento, lo scroscio dell’acqua contro le paratie metalliche della nave, il leggero fruscio del vento di nord-est, il respiro degli umani e dei berserkir.
Distante, un lettore cd stava riproducendo un brano dei Radiohead, mentre alcuni marinai canticchiavano seguendone il ritmo.
Le voci erano assonnate e leggermente gongolanti, come se fossero un po’ brilli o, forse, solo stanchi dopo una lunga giornata di lavoro.
Sembravano parlare russo, ma questo mi diceva poco o nulla, sulla nostra destinazione finale.
Potevamo essere diretti a Minsk, come alle Maldive.
Il mio rapitore sorrise divertito – forse aveva intuito cosa stavo tentando inutilmente di fare – e mi chiese ironico: “Vuoi vedere l’esterno?”
“Tanto non mi potrò orientare, giusto?” brontolai, storcendo la bocca. La sentivo amara. L’aconito era nella bevanda.
“Esatto” assentì con ironia, strattonandomi per un braccio e portandomi fuori dalla stanzetta.
La luce al neon del corridoio stretto e lungo dove sbucammo mi ferì gli occhi, così impiegai qualche attimo prima di comprendere dove i miei piedi si stessero appoggiando.
Era tutto ricoperto di metallo – una nave cargo, forse? – e non c’erano fronzoli come intarsi in oro o pannellature di legno, sulle pareti prive di ornamenti.
Dopo aver percorso quel lungo camminamento per almeno una ventina di metri, imboccammo una scaletta ripida e stretta, che conduceva a una porta tenuta chiusa da una pesante leva ricurva.
Lì, sempre tenendomi ai polsi per non concedermi libertà alcuna, l’uomo aprì con uno scatto improvviso della mano, celiando: “Ecco a te il ponte di prima classe.”
Lo guardai storto, borbottando: “Dimmi che non hai visto Titanic, o penso che vomiterò.”
Lui si limitò a scoppiare a ridere, ora sinceramente divertito e, sospingendomi fuori con malagrazia, disse soltanto: “Non mi abbasserei mai a guardare un film del genere.”
“Meglio. Mi sarei dovuta riempire di pugni, se avessi saputo che ti era piaciuto” commentai acida.
Non avrei mai accettato di avere gli stessi gusti cinematografici del mio nemico.
Un vento freddo e sferzante gelò qualsiasi mia altra arringa e, fissando sgomenta e pallida l’enorme distesa d’acqua che circondava la nave – completamente ricoperta di container – riuscii solo a deglutire, ogni volontà di fare battute spazzata via dalla ferocia degli elementi.
Una tempesta, all’orizzonte, tingeva di tonalità del viola e del blu il cielo all’imbrunire.
Lanciando uno sguardo ai flutti ingrossati ma non ancora minacciosi, chiesi: “Questa bagnarola regge una tempesta? Non mi sembra molto grande, e quelle bestiacce laggiù in fondo, invece, sembrano parecchio infuriate.”
“Colui che ci guida, preserverà le nostre vite” asserì soddisfatto il mio rapitore.
Sgranai gli occhi di fronte a una frase del genere, chiedendomi seriamente se fosse un pazzo furioso o semplicemente uno stupido.
Quella fiducia l’avevo vista solo nei filmati sui kamikaze, ma non ero del tutto sicura che, in quel particolare frangente, potesse esaltarmi.
Sospirai, scuotendo il capo, prima di dirgli: “Ho visto abbastanza, e comincio ad avere freddo. Possiamo rientrare?”
“Sì” annuì l’uomo, richiudendo dietro di sé la porta e facendo rimbombare le pareti metalliche attorno a noi.
Ero sconsolata e ai limiti del pianto.
Lontana da casa, impossibilitata a muovermi come avrei voluto, ero solo desiderosa del conforto e dell’amore di Duncan, del mio branco e della mia famiglia, e non sapevo che fare.
“Ho bisogno del bagno. E’ possibile…” tentennai, sperando non dovesse seguirmi fin lì.
Ridacchiò – già, la mia faccia trasparente – e mi disse: “Se sei in grado di slacciarti i pantaloni con le mani legate, non dovrò farlo io per te.”
“Ci riesco” sbottai subito, piccata e imbarazzata al tempo stesso.
Sarei morta, piuttosto che farmi toccare così da lui!
O magari dovevo sfidare la sorte e morire.
Se la sua subdola minaccia era vera, e mi aspettava qualcosa di peggio della morte, perché andarmela a cercare? Forse, dovevo farlo infuriare a tal punto da farmi ammazzare.
Idiota! Bei ragionamenti, che fai!, pensai tra me, scuotendo il capo per il fastidio.
L’aconito aveva dei bruttissimi effetti sul mio umore già nero.
In ogni caso, sarebbero cadute tutte le stelle del cielo prima che, un uomo che non fosse Duncan, toccasse i miei pantaloni per togliermeli!
Il mio rapitore indicò nel frattempo una porticina, che aprì dopo un attimo e, al suo interno, trovai una latrina piuttosto angusta, ma pulita.
Mi ci chiusi dentro, armeggiando con il bottone dei jeans e imprecando mentalmente tra me per non aver indossato, il giorno del mio rapimento, una tuta da ginnastica o una gonna.
“Come se avessi potuto prevederlo” brontolai tra me chiedendomi, nel contempo, come mai Elspeth o Beverly non avessero previsto quell’assalto.
Che colui che mi aspettava chissà dove, fosse così potente da bloccare le loro percezioni nel breve periodo?
Se era così, avevo di che preoccuparmi.
Sospirai forse per l’ennesima volta, mentre cercavo di riassestarmi e uscire dall’angusto bagnetto in cui avevo potuto espletare i miei bisogni.
Fermo contro una parete del corridoio, le braccia conserte e l’aria attenta, il mio rapitore mi scrutò per un momento prima di domandarmi: “Possiamo andare?”
“Direi di sì” assentii con tono mogio, fissandolo curiosamente. “Posso sapere il tuo nome?”
“I nomi hanno potere, per gli dèi, specialmente per creature malvagie come quella che dimora dentro di te…” mi spiegò, scrutandomi ironico per un istante. “… ma, se può rendere più piacevole il tuo ultimo viaggio verso l’inferno, allora puoi chiamarmi Alfgar.”
Storsi la bocca, riconoscendo il nome, e replicai: “Ti dai alla mitologia Arturiana?”
Lui sollevò un sopracciglio biondo platino, ghignando divertito.
“E’ solo un modo per ricordarti che sono un’arma che potrebbe ucciderti da un momento all’altro, se non fai la brava bambina.”
“Cosa vuoi che faccia?!” protestai, sollevando le mani dove il laccio di seta nera, che mi circondava i polsi, mi irritava a ogni secondo che passavo sveglia. “Questa specie di… di corda mi impedisce qualsiasi movimento, siamo su una bagnarola di ferro che inibisce i miei poteri e, oltretutto, mi tenete intontita con l’aconito!”
Annuendo, Alfgar – chissà qual era il suo nome, in realtà? – mi disse: “Ovviamente, tutto ciò che dici è vero. Nessuno di noi pretendeva non te ne accorgessi.”
“Allora non minacciarmi per niente. Non lo sopporto” brontolai, ringhiando poi torva: “Che diavolo è, poi, questa roba con cui mi avete legata?!”
“E’ gleipnir. Pensavo che ormai ci fossi arrivata” replicò Alfgar, sorprendendomi non poco.
Sgranai un momento gli occhi, cercando nella mia mente ottenebrata dall’aconito il significato di quella parola, ma trovai solo foschia e poco altro.
Alfgar, notando sicuramente la mia espressione confusa, annuì come rammentandosi un particolare che, in precedenza, non aveva tenuto in considerazione.
“Fenrir è bloccato non meno dei tuoi poteri, a causa dell’aconito. E così i suoi ricordi. Gleipnir era il laccio con cui fu legato alle pietre Gjöll e Þviti.”
“Oh” riuscii a dire, sorpresa.
Quindi, l’anima di Fenrir interagiva con il mio corpo più di qualsiasi altro spirito potesse normalmente fare.
Ottimo. Beh, avrei dovuto aspettarmelo. Da grandi poteri derivano… grandi rotture.





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N.d.A.: direi che qualche dubbio, ormai, comincia a svanire... :)


  
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