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Autore: Rodelinda    10/01/2008    11 recensioni
"Le storie che voglio raccontare riguardano quelle ragazze che io, proprio perché “normale”, potevo solo osservare.
Carezzare un po’ con gli occhi. Guardare con la fiducia incondizionata di chi affida a qualcosa la propria attenzione.
Perché erano troppo belle, troppo intelligenti, troppo colte, troppo folli. Troppo."
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Mundus intra Mundo - Liceo Scientifico Torquato Tasso' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Alex
Alex

Alessandra era in classe con me, ed era famosa in tutta la scuola.
Era pazza. Completamente pazza.
Non perché fosse triste, o passasse il tempo a tagliuzzarsi le braccia. Alessandra, detta Alex, era tutto tranne che depressa.

Era un vulcano in eruzione perenne, uno splendido fuoco d’artificio, una pioggia d’allegria eterna.
Qualcuno aveva distribuito strani volantini con su poesie di Emily Dickinson e/o versetti satirici (spesso di pregevole fattura) in giro per la scuola? I professori astanti si guardavano negli occhi, scuotevano le spalle e commentavano, con aria rassegnata: « Alex! ».
Un’entità ignota aveva formattato tutti i terminali dell’aula di informatica, due giorni prima della verifica decisiva, e, misteriosamente, su tutti i desktop era apparsa la scritta “tre a chi legge”? Tutti gli alunni esclamavano con aria trionfante: « Alex! ».

Per quanto potesse sembrare assurdo, ad Alex riusciva di fare praticamente qualunque cosa; era l’incarnazione vivente del detto “la fortuna aiuta gli audaci”.
Aveva il coraggio di tentare tutto quello che le saltava in mente: e, paradossalmente, più l’impresa sembrava disperata, più avevi in lei una sostenitrice sicura.
Occupazioni, autogestione, liberazione di rane in classe… qualsiasi cazzata, magari anche la più assurda, Alex era in grado di tentarla quasi senza pensarci su.
Ogni cosa, quantunque fatta da lei, aveva sempre esiti positivi: mio nipote sostiene che si parli ancora di quando ha dipinto un murales con gli Uniposca neri sul tettuccio dell’auto del preside. All’epoca dei fatti chiunque sapeva che era stata lei, e il corpo docenti prese a detestarla.

Gli insegnanti, incredibile ma vero, non potevano mai fare nulla per inchiodarla alle sue responsabilità: con l’abilità di un ninja, infatti, Alex evitava di lasciare qualsiasi indizio sulla “scena del delitto” di turno che potesse ricondurla al “delitto” stesso.
Inoltre, fatto non del tutto trascurabile, era la perenne vincitrice delle borsa di studio in Latino e Inglese, cosa che la rendeva decisamente inattaccabile dal punto di vista dei voti; insomma, un po’ per proprio diritto, un po’ per fortuna sfacciata, non c’era nulla da fare: Alessandra Piretti, ricercata numero uno dello staff di presidenza, era intoccabile.
E, per quanto ci fossero persone (come la Vicepreside) il cui scopo nella carriera fosse trovare le prove per riuscire a dimostrare che la colpevole dei fatti era incontestabilmente lei, nessuno ci riuscì mai.

A vederla, non era niente di speciale.
Alta appena un metro e cinquantacinque, piuttosto paffuta; a notarsi, oltre alla figura assolutamente non da mannequin, inoltre, erano i suoi capelli.
Castano scuro, di media lunghezza, né lisci né ricci; perennemente arruffati, non riuscivano ad assumere una forma nemmeno dopo ore e ore di seduta dal parrucchiere. E lei non se ne curava affatto: a volte dava l’impressione di non pettinarli neppure.
Li lasciava sciolti, oppure, se voleva  tenerli lontani dal viso, li tratteneva approssimativamente con cerchietti o fasce multicolori.
Riguardo ai capelli di Alex circolava una voce strana: quando compariva in classe con la folta chioma acconciata in una coda era il segnale che stava per compiere una delle sue “epiche azioni”.
Nessuno, ovviamente, aveva le conferme di questo pettegolezzo; e io, personalmente, non l’ho mai vista coi capelli raccolti se non in due occasioni: sotto la cuffia per le selezioni dell’annuale torneo scolastico di nuoto (cui arrivava sempre ultima) e, avvolti in uno chignon, al funerale di Cassandra.

Dopo i capelli, si notava, com’è ovvio, il viso: aveva un volto perfettamente ovale, con zigomi alti e rotondi e un mento a cupola. A parte la forma, non c’era nulla di notevole nella sua faccia: le labbra erano sottili, il naso piuttosto pronunciato e gli occhi neri erano di medie proporzioni, un po’ allungati verso il basso. Le ciglia erano quasi inesistenti, compensate dalle folte sopracciglia che disegnavano due archi perfetti attraverso quella faccia dalla carnagione pallida.

Altre caratteristiche fisiche degne di nota, Alex non le aveva: si vestiva come una squatter dei centri sociali, con larghe tute, pantaloni militari, magliette che le arrivavano più meno alle ginocchia dalle fantasie più svariate (le sue preferite erano informi camicioni batik decorati da ricami orrendi, eseguiti sicuramente da un qualche alcolista).
Per sua stessa ammissione, comprava ogni cosa su bancarelle e in negozi di abiti usati, senza molto curarsi della provenienza dei capi.
Non portava né trucco né alcun tipo di gioiello: non aveva neppure i buchi per gli orecchini. Inoltre si mangiava le unghie tanto che, a volte, erano rosicchiate anche le pellicine intorno e la punta del dito stessa.

Alex era tutta alchimia chimica: il viso perennemente sorridente o segnato da una smorfia buffa, sembrava congegnato per far ridere o infondere allegria in chi la guardava.
Era simpatica, ovviamente, e di un buonumore perfetto e incrollabile: aveva il dono di saper tirar su il morale solo con la sua semplice presenza.
A volte, entrando in classe alla prima ora, buttava lì una battuta delle sue: in quel momento, credeteci o no, ho sempre avuto l’impressione che, per quante interrogazioni ci potessero essere quel giorno o per quanto i prof esibissero il loro sadismo, sarebbe stata una buona giornata.

Decine di persone avrebbero voluto esserle amiche, tranne  - forse – i secchioni e i leccaculo più irriducibili (che, ovviamente, si professavano d’accordo con l’ostilità dei professori e la giudicavano pressappoco una delinquente) o quelli che, come me, erano spaventati dalla sua eccentricità, dal suo travolgente entusiasmo per la vita.
Anche in un corridoio vuoto, quando passava Alex pareva esserci tantissima gente e spesso era attorniata da una piccola folla. Sembrava essere ignara della sua popolarità, e non si accorgeva né degli sguardi adoranti dei primini né delle pacche sulle spalle di rispetto e ammirazione dei maturandi.
Era come se vivesse in un suo fantastico mondo dove quelle attenzioni erano dovute a tutti, e a tutti, perciò, dispensava sorrisi a trentadue denti e allegria incondizionata. Era democratica nel fare una smorfia divertente a una ragazzina di seconda come nel raccontare una barzelletta al bidello; sfoggiava una tolleranza impressionante nei confronti di chiunque e di qualunque categoria.
Spesso organizzava distribuzioni di opuscoli ciclostilati anonimi a favore di questa o quella minoranza (dai gay ai magrebini), e non si perdeva mai un’autogestione o una manifestazione della CGIL; non so quanto credesse in ciò che faceva e quanto non considerasse questo, più che altro, un modo di divertirsi e far baccano.

Eppure, pian piano, cominciai a rendermi conto di un particolare inquietante.
Alex, pur essendo costantemente accerchiata da un folto gruppo di persone che la trovavano simpatica e volevano la sua amicizia, era come… separata da loro.
Nessuno aveva avuto con lei altro che una frequentazione superficiale e si sapeva pochissimo della sua vita privata; era come se, oltre alla sua perenne allegria, non ci fosse altro.
Se Alex avesse passioni, aspirazioni o talenti particolari era ignoto.
Che avesse qualche problema, qualcosa che la rendeva triste o la faceva star male, sembrava impossibile.
Era come sola pur in mezzo alla gente.

Eppure, qualcosa che la spingeva – seppure inconsciamente – a tenere lontane le persone intorno a lei con il muro della sua contentezza doveva esserci.
Perché, altrimenti, una ragazza che avrebbe potuto uscire con chiunque volesse aveva quest’atteggiamento di perenne isolamento?
Un’isola felice, certo. Ma pur sempre abbandonata in mezzo al mare.

La vidi solo due volte con il viso serio.
La prima era perché non sapeva che la stavo osservando. Fissava qualcosa fuori dalla finestra, con lo sguardo perso in lontananza; quel giorno era nuvoloso, e grandi cumuli bianchi galoppavano attraverso un cielo di un profondo blu lacca, specchiandosi nelle sue iridi nere.
Le labbra sottili erano perfettamente orizzontali, gli angoli non si alzavano verso l’alto in un sorriso come al solito, e neppure il volto era contorto in un’espressione buffa; non sembrava neanche lei, senza la sua maschera perpetuamente felice. Comunque durò poco: non appena si rese conto che la stavo scrutando strizzò gli occhi e mi fece un gran sorriso.
Non la vidi più guardare fuori. Non vidi più il suo sguardo perdersi nel vuoto.

La seconda fu al funerale di Cassandra. Tutti coloro che erano venuti (e, nonostante l’impopolarità della morta, non erano pochi), quel giorno fecero fatica a riconoscerla. E, da allora, non fu più la stessa.

Mi chiedevo, a volte, se la sua felicità fosse fittizia. Non so se qualcun altro si fosse mai posto la stessa domanda.
Forse i sorrisi erano una sorta di maschera, le facce divertenti come una calda coperta di Linus che non poteva abbandonare. Una protezione.
Da cosa, francamente non lo so. Non l’ho mai capito.
Alex era una persona in cui si mescolavano verità e menzogna, realtà e finzione.
Penso che nemmeno lei si rendesse più conto di quando questi due aspetti si univano: si comportava come se fosse perennemente sul palcoscenico di un immaginario teatro comico, e interpretava la sua parte in modo impeccabile; i costumi con cui copriva la realtà erano ricchi, il fondale sontuoso, la musica assordante e la trama un vago canovaccio che lei doveva costantemente riempire con battute sempre nuove.

L’unica cosa in cui, consciamente o inconsciamente che fosse, non mentiva mai, era il suo amore incondizionato per la vita; forse perché la sua concezione di vita era così travolgente e divertente, senza un attimo di respiro, da impedirle il semplice atto di pensare all’improcrastinabile fine che attende tutti noi.


“La vita è un enorme cono gelato del tuo gusto preferito. L’unica cosa che devi fare è mangiarlo, fino a quando non ce n’è più.”.
Lo ripeteva continuamente.
A chiunque fosse disposto ad ascoltarla.

Per questa ragione sentiva di dover compiere tutte quelle sue spericolate imprese, avvertiva come un obbligo il saltare, gridare, ridere e giocare fino a essere sfinita, per godere ogni singolo minuto.
Forse era per questo che non faceva mai nulla (a parte il bungee jumping e il parapendio, che appagavano la sua voglia di rischio) che potesse nuocerle. Eccetto una birra ogni tanto non beveva, e, ovviamente, l’uso di qualsiasi sostanza più pesante era fuori questione.
Alex dava per scontato che tutti amassero la vita quanto lei, quindi era affezionata a tutti coloro che condividevano la sua fascinazione, e a tutti riservava calore, allegria, entusiasmo come se stesse saldando un debito originale.

Tutti, tranne una persona. Una persona che odiava il semplice atto di esistere, e che quindi Alex non poteva fare a meno di detestare a sua volta, con un’ostilità che si mescolava al disprezzo.
Cassandra.

***

Se mi chiedono che cosa abbia fatto Alex dopo la fine del liceo rispondo sinceramente che non lo so, così come, a tutt’ora, non sono a conoscenza di chi fossero i suoi genitori né so di altri particolari sulla sua vita privata.
Quel che è certo è che uscì dalla maturità con novantotto su cento e, successivamente, si iscrisse all’università alla facoltà di Filologia Romanza (unica del nostro anno a imboccare tale strada).
Nessuno la sentì più, e non si presentò mai alle rimpatriate con i nostri vecchi compagni di classe.

Le ultime voci mi dicono che si sia sposata con un ballerino di tango proveniente da Buenos Aires, e che adesso vivano nel sud della Spagna, gestendo una milonga1 con ristorante a Granada; questo è certamente segno che, dopo la laurea (che mi dicono conseguita con tanto di lode e bacio accademico), qualcuno ha trovato modo di penetrare il suo costante oceano di allegria ed è riuscito ad avvicinarsi a lei.

Non posso che esserne felice; ma devo constatare che, evidentemente, non dev’essere rimasto molto dell’Alex che conoscevo. È come se fosse morta. Anche lei.

***

Milonga= tipico locale, diffuso soprattutto in Argentina ma anche in altri paesi dell’America Latina, in cui si ballano samba, salsa ma, soprattutto, il tango.

***

Ebbene, eccomi qui con il primo capitolo, revisionato e corretto, con alcune parti aggiunte e modificate.

Ringrazio immensamente Ilychan e JiuJiu che mi hanno ricommentato per i loro gentili complimenti: non sapete nemmeno lontanamente quanto mi abbiano fatto piacere, perché trovo che il costante sforzo di migliorarsi sia una caratteristica preziosa quanto, ormai, rarissima su EFP e nel mondo delle fanfiction in generale. Vi ringrazio molto, e aspetto le vostre opinioni riguardo al resto della revisione.
Ringrazio, oltretutto Babyjenks (alias Chiara) perché mi ha inserito non solo tra i preferiti, ma anche tra gli autori preferiti! Wow! È la primissima volta, e mi sento molto orgogliosa!
Inoltre rispondo al primo commento della prima nuova lettrice di “Istituto Torquato Tasso” (incredibile!), ossia Mabychan!
Benvenuta!
Passo immediatamente a ringraziarti per i complimenti, e ti informo che sto dando un’occhiata ai tuoi lavori, per cui presto ti troverai qualche mia recensione tra capo e collo! Spero non ti dispiaccia…
Ciao a tutti, e alla prossima!
   
 
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