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Autore: Rodelinda    27/01/2008    11 recensioni
"Le storie che voglio raccontare riguardano quelle ragazze che io, proprio perché “normale”, potevo solo osservare.
Carezzare un po’ con gli occhi. Guardare con la fiducia incondizionata di chi affida a qualcosa la propria attenzione.
Perché erano troppo belle, troppo intelligenti, troppo colte, troppo folli. Troppo."
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Mundus intra Mundo - Liceo Scientifico Torquato Tasso' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Cassandra (prima parte)
Cassandra (prima parte)

Come ogni scuola anche il Torquato Tasso aveva la sua “bella e maledetta”. Ogni istituto ha la sua Kate Moss, oggi come oggi; a sentire mio nipote, che ora frequenta anche lui il Tasso, si sono addirittura moltiplicate!
Tuttavia, la nostra Baudelaire in gonnella era molto, molto di più di una bamboletta standardizzata che si comporta da Syd Barrett per fare scena.
 
Il suo vero nome era Maria Eva, ma già all’inizio del mio primo anno non se lo ricordava più nessuno; non si sapeva chi l’avesse chiamata per primo con il nome della profetessa troiana sorella di Paride, ma quello era il suo soprannome e tale rimase fino alla fine: Cassandra.
 
Non era particolarmente bella, in effetti, ma a riconferma dell’aggettivo maledetta c’era materiale a josa.
I suoi capelli neri erano lunghi e poco curati; spesso si chiudevano come un sipario davanti al suo lungo viso magro e pallido. La sua pelle, originariamente, era olivastra; ma il non uscire mai e la scarsità di sole l’avevano resa di un candore malsano, soprattutto in contrasto con la vera natura della sua carnagione.
Quando scostava quelle tende dal proprio volto, la prima cosa che si notava erano le sue labbra: un bocciolo carnoso e scarlatto come il sangue, in un  conflitto quasi osceno con il colorito del viso.
Risalendo si poteva vedere un naso lungo e appuntito, sotto gli occhi di un vago celeste slavato.
Le rare volte che ho visto bene quegli occhi erano sempre vacui, vuoti. A volte vi si poteva leggere un dolore intensissimo o una malinconia terribile.
Le sue lunge sopracciglia sottili erano sempre aggrondate e la sua fronte candida e spaziosa era solcata orizzontalmente da lunghe rughe d’espressione premature.
 
Il suo look era, in un certo senso, la proiezione dei suoi incubi interiori.
Il fisico magro – tanto esile dall’essere sull’orlo della patologia – era rivestito da golf infeltriti, magliette informi, jeans scuri, larghi e consunti, tenuti su da spessi cordoni e cinture in pelle consunta.
Tutto era di un unico colore: nero, come le ciglia folte che sottolineavano il suo sguardo triste. Talvolta, forse nel tentativo di porre una barriera fisica tra il proprio corpo scheletrico e il mondo circostante, indossava più magliette sopra i maglioni, calzettoni pesanti o persino gonne lunghe sopra i jeans.
Non usava gioielli di nessun tipo, a parte uno.
Verso la fine del secondo anno, infatti, al suo polso sinistro comparve un bracciale d’argento a larghe placche di filigrana.
Quell’oggetto fu all’origine di decine di pettegolezzi.
 
Infatti, nonostante la sua impopolarità diffusa, Cassa era una persona di cui si parlava. Parecchio, anche.
Certo, anche Alex era molto chiacchierata. Tutte le figure che devo ancora descrivere erano celebri o oggetto di pettegolezzi, ma mai così contraddittori quanto quelli che si riferivano a Cassandra; e lei, col suo costante fregarsi della pubblica opinione, contribuiva solo a fomentare la cosa.
Cionondimeno, era anche la persona più solitaria e introversa che avessi mai visto.
Non parlava mai, studiava quel tanto che bastava a non sostenere esami di riparazione e non mostrava chiaramente alcun talento particolare, passioni o interessi specifici. La sua misantropia, veramente eclatante,  sarebbe stata una sfida all’ultimo sangue persino per Freud.

Credo che il suo isolamento derivasse in massima parte dal dolore: aveva perso prima il padre, morto di cancro quando aveva dodici anni, e poi, a brevissima distanza, la madre, suicida. Era stata Cassandra stessa, tornando da scuola, a trovare il corpo impiccato alle travi della mansarda.
Dicono che prima di allora fosse una ragazza abbastanza allegra, con molti amici; ma dopo essere rimasta orfana aveva abbandonato tutto.
Era una di quelle persone per cui superare la sofferenza è impossibile e che, invece di cercare la pace dentro la propria mente, preferiscono restare con l’anima mutilata.
Come un uomo senza un braccio che rifiuta di usare la protesi, Cassandra scelse di esibire la propria menomazione piuttosto che riempire il vuoto con qualcosa che non fossero le persone che aveva lasciato.
Io penso che ognuno di noi abbia una molla interna, uno scatto animale alla sopravvivenza che ci permette di vivere nonostante il dolore: anzi, di maturare grazie ad esso.
Per alcuni quella molla interna non esiste, o la sofferenza stessa le infligge un colpo tanto mortale da impedirle di funzionare; quella di Cassa si era irrimediabilmente inceppata. Non aveva speranze, né presente o futuro: solo un passato che molti avrebbero cercato di dimenticare, ma che lei, ostinatamente, voleva riportare in vita.
 
Sachiko spesso diceva che Maria Eva (era l’unica persona a chiamarla ancora così, oltre ai nonni con cui la ragazza viveva) era un guscio che conteneva ricordi per lei più preziosi della sua stessa salute mentale.
Cassa era il momento in cui aveva trovato sua madre prolungato all’infinito, e non viveva nel presente ma in un enorme emisfero sospeso sulla morte o sulla follia.
Prova ne era il fatto che non sentisse precisamente di avere dei bisogni: mangiava il minimo indispensabile a sopravvivere, dormiva pochissimo, riempiva il resto del tempo leggendo o facendo cose di cui non le importava affatto.
Cassandra non si considerava veramente viva.
 
Però questi ricordi sopravvivevano in un corpo: un corpo che soffriva, straziato dai maltrattamenti autoinflitti e dall’angoscia.
Quindi Cassandra cercava, come chi ha una ferita aperta e prende gli antidolorifici, di soffocare il dolore. Ma non muovendosi, facendo sport o cercandosi degli amici (oltre a Sachiko); quello sarebbe stato un ritorno alla vita. E Cassa aveva smesso di essere un essere vivente da tempo, ormai…
Inseguiva la pace assumendo sostanze delle più varie nature; e man mano che le sostanze suddette si facevano inefficaci aumentava la dose, le combinava tra loro, passava ad altre più potenti. La sua era una ricerca fatua e senza scopo: una fuga infinita.
 
Cassandra non voleva vivere. Voleva tornare a prima che suo padre morisse di cancro e che sua madre si suicidasse.
Voleva, in poche parole, infondere nuova esistenza ai propri ricordi. Anche a costo della propria vita.
 
Allontanati dalla sua indubbia depressione, dalle sue eccentricità e dalla sua introversione lapalissiana, le persone intorno a lei le stavano lontane.
Alcuni la disprezzavano, altri erano del tutto indifferenti alla sua presenza (finendo per considerarla una specie di “accessorio” dell’istituto stesso). Alla fine solo le nuove voci su di lei stupivano e nessuno la fissava più quando, vestita di nero e accompagnata dalla fredda e dignitosa Sachiko, si trascinava con la sua andatura svogliata per i corridoi (tranne i primini che spesso erano affascinati e insieme disgustati dalla fama di tossica che la precedeva ovunque).
Quindi posso dire che, nonostante tutti parlassero di lei, Cassandra fosse una delle studentesse più impopolari del Torquato Tasso.
 
Malgrado ciò, e a dispetto della propria misantropia, Cassa aveva un’amica. L’unica persona che la comprendesse appieno, che tentasse, in qualche modo, di invertire il suo processo autodistruttivo e che cercasse di farle superare il dolore. Quella ragazza era Sachiko.
 
Cassandra e Sachiko avevano un rapporto elitario, di esclusività.
Erano sempre insieme, stavano in banco assieme ed era assolutamente impossibile tentare di separarle. In compagnia di Sachiko, Cassa sembrava quasi normale. A volte sorrideva, con quel suo sorriso più simile a una smorfia tragica.
Qualche volta l’ho sentita ridere… un suono basso e gorgogliante, simile all’acqua che scorre nei tubi prima di giungere al rubinetto.
La quotidianità su cui si reggeva il loro rapporto era affrontata da Sachiko ogni giorno con rinnovato entusiasmo, mentre Cassa si lasciava trasportare dalla marea dell’esistenza con assoluta atarassia.

In gita a Parigi, a metà del loro secondo anno, riuscirono a mettersi in due in una camera singola: ancora non lo sapevano, ma dal giorno della visita a Versailles sarebbe scoppiato una sorta di scandalo.
Infatti le videro baciarsi in un angolo del parco, credendo di non essere viste; evidentemente avevano un legame che volevano tenere nascosto, ma non ci riuscirono.

Sachiko è stata l’unica delle figure che voglio raccontare con cui intrattenni rapporti d’amicizia. Quindi posso dire d’aver avuto un ruolo da comprimario (anche se, lo ammetto, non uno dei comprimari più importanti) nella successiva faccenda che seguì e che portò, poco prima della sua maturità, alla morte di Cassandra.

***
 
Il legame fra Sachiko e Cassandra era complicato. Non so se fosse più amicizia o più amore.
Forse un connubio di tutte e due le cose.
Certo è che non fosse solo semplice simpatia, anche se poteva sembrarlo.
 
Cassandra si fidava di Sachiko più che di sé stessa, ed era la sola persona con la quale amasse confidarsi. Si erano conosciute a metà della prima liceo, quando Sachi si era trasferita in Italia, e divennero amiche immediatamente.
Non so come mai lei avesse deciso di scavalcare brutalmente tutte le barriere che Cassandra si era costruita attorno; non so neppure come ci sia riuscita.
O Cassa stessa era più morbida in prima, o Sachiko aveva una personalità granitica.
Comunque, decise che Cassandra sarebbe diventata la sua migliore amica.
E ci riuscì.
 
Quando arrivai ad entrare nella vita della giapponese (che, come ripeteva spesso, sosteneva che avessi il merito di saper ascoltare e di essere abbastanza perspicace da leggere il silenzio), venni gradualmente assorbito dalla sua relazione con Cassandra; relazione che Sachiko si sforzava di non ridurre allo schema cura/gratitudine, gratitudine/cura.
Sostanzialmente, Sachi temeva che per ogni atto disperato che Cassandra compisse, ella desse per scontato che ci fosse la sua migliore amica a prendersi cura di lei, e che quindi contraccambiasse con la gratitudine e il sentimento come se fossero moneta di scambio per continuare a ottenere cure e comprensione.
Anche Cassa si sforzava di non ridurre ai minimi termini l’unico affetto fisso che le fosse rimasto, ma la sua anima era troppo esacerbata per fare un qualunque sforzo emotivo.
 
Inizialmente non capivo perché Sachiko, così bella e affascinante, avesse scelto Cassandra, la tossicomane sofferente di depressione. Forse aveva l’istinto della crocerossina?
Poi i fatti risposero da soli.
 
Perché non c’era nessuno che sapesse amare come Cassandra.
Pienamente consapevole che il giorno dopo avrebbe potuto essere morta, stroncata dall’ennesimo acido o dall’ultima pasticca di imprecisata natura, Cassa riversava su Sachiko un amore devastante. Puro, completo. Nei suoi abbracci c’era l’affezione del primo giorno e nei suoi baci la malinconia dell’ultimo.
Sachiko era l’unica creatura vivente che potesse rappezzare quel vuoto immenso dentro di lei senza creare una sofferenza ulteriore da ricucire con la droga o con l’alcool.
Anche quando non riusciva ad alzarsi dal letto, quando vomitava o vedeva cose orribili in preda alle allucinazioni, la giapponese c’era. Con una fermezza e una forza d’animo incrollabile, la caricava sul motorino e la portava in ospedale se esagerava, tentava di fermarla e di trattenerle la mano, le versava sciroppi, pillole e flaconi nel water (tirando scrupolosamente lo sciacquone), le reggeva la fronte quando il suo stomaco si ribellava, rigettando, alle sostanze che vi venivano introdotte.
Cercava anche di farla mangiare: Cassa era perennemente sull’orlo dell’anoressia, visto che non ne sentiva mai il bisogno.
Per Cassa, Sachiko era la persona che l’amava di più al mondo: più di quanto l’amassero i nonni con la quale viveva (due anziani signori molto ricchi che non si prendevano alcuna cura di lei, e che pur di non mandarla in clinica – permettendo così alle loro conoscenze di sparlare della nipote - le passavano tutti i soldi che voleva per la dose quotidiana).
Quanto l’avevano amata i suoi genitori.
 
E, per quanto il suo cervello potesse essere turbato e la sua anima distrutta, sapeva che Sachiko sarebbe venuta a baciare le sue palpebre pallide, a carezzare il suo viso sconvolto.
Nell’ultimo periodo, a tamponare le braccia bucate come un pizzo sangallo.
 
Come poteva non amarla?
 
Sachiko tentava di persuaderla a farsi disintossicare. La portava da psicoterapeuti, psichiatri, qualsiasi cosa sentisse che Cassa avesse bisogno, investendo in essi i soldi che la ragazza riceveva dai nonni quasi quotidianamente.
La liberava di tutte le sostanze che teneva in camera, e Cassandra (contrariamente a quanto di solito fanno i tossicodipendenti) non la malediva per questo, né smetteva di volerle bene.
Le diceva, con aria rassegnata, che era tutto inutile.
E, regolarmente, Sachiko si arrabbiava.
« Se non vuoi vivere per te stessa, fallo almeno per me! »
« Questa non è vita. Io non voglio farlo. »
« Maria! »
« Lo sai. Se non posso annegare il dolore in qualcosa, annegherò io dentro di lui. E conoscermi, per te, sarà stato inutile. »

***

E con la revisione della prima parte su Cassandra, vi ringrazio per i vostri complimenti (finirete per farmi diventare una gran presuntuosa!) e passo a rispondere alle vostre recensioni (in ordine cronologico)…

Lidiuz93= Un po’ criptico il tuo commento, ma comunque lusinghiero! Spero che tornerai a recensire i prossimi capitoli (magari con qualche parola in più).
Ilychan= E rieccoti qui! Grazie, come sempre le tue recensioni danno molta soddisfazione… che dire di Alex? In effetti, per me almeno, inventare personaggi e dare loro un vago canovaccio di base non è particolarmente faticoso. Il difficile è costruirli bene sia nella loro fisicità che nella loro psicologia; dato che questa storia è una raccolta di profili femminili a livello sperimentale, è molto difficoltoso dare a tutti la medesima possibilità di evolversi. È per questo che non me ne sento completamente soddisfatta, ma nella revisione sto cercando di dare il massimo (ed è per questo che a mettere online ogni capitolo impiego un po’, considerando anche che sto scrivendo un’altra long-fic, sul Signore degli Anelli).
Mabychan= Grazie di nuovo, prima nuova lettrice della stesura nuova (troppi “nuovo”. Scelta lessicale imprecisa) ! Mi piace generare sconcerto nel lettore, spesso ricorrendo a contrasti, ed è appunto questa l’idea che volevo dare di Alex. L’immaginavo come un tipino un po’ mascolino, quindi mi pareva che il nome le si adattasse bene, ma evidentemente ognuno legge nel personaggio ciò che preferisce. Sì, sto dando una scorsa anche alle tue fic, solo che, ultimamente, non ho molto tempo. Per il momento mi piace (e mi suscita il riso) soprattutto “Convivenza”. Aspetto sviluppi di questa particolare storia, nel frattempo vedrò di lasciarti una recensioncina (per il momento posso solo dirti che la grammatica è impeccabile e che i personaggi sono ben riusciti, anche se dovresti mettere un OOC negli avvertimenti). Grazie ancora, ti lascio alla lettura!
Contessa= Grazie mille per i complimenti… sul serio! Meriti la palma di “Seconda nuova lettrice della stesura nuova” (anche qui la scelta morfologica è limitata!). Ti lascio a Cassandra, o meglio, alla prima parte di Cassandra, in tutto il suo splendore!
A proposito, sai che avevo letto la tua “Solo un nome”? Mi aveva incuriosito come avevi caratterizzato la coppia Lestrange. Era venuta molto bene. Noto però che scrivi solo one-shot: come mai? Hai talento, sai gestire bene la trama e la grammatica non è niente male. Posso sapere il perché di questa scelta (se non sono indiscreta, ovvio…)?
Chiara (Babyjenks)= dunque… in effetti, da quando feci la prima stesura di questa fanfiction molte cose sono cambiate, compresa – almeno un po’ – la mentalità dell’autrice. Sono successe moltissime cose; per me, a un certo punto, si è capovolto il mondo. Era inevitabile, in un certo senso, che almeno un po’ di questi mutamenti si riflettessero sul mio modo di scrivere e, soprattutto, di descrivere (non dimentichiamo che questa storia è una descrizione, prima di tutto). Quindi Alex, che conteneva più di me di quanto non sospettassi, è cambiata un po’. Da un personaggio energico e decisamente positivo ha acquisito più sfumature, quasi indipendentemente dalla mia volontà: rileggendo la riscrittura mi rendo conto che ha acquisito quasi più spessore. Mi fa piacere che, nonostante sia cambiata, e parecchio, ti sia piaciuta comunque.
Ti ringrazio di nuovo.
A tal proposito, volevo dirti che (anche se non l’ho recensita – ultimamente ho a stento il tempo per leggerle, le storie – e mi riprometto di farlo quanto prima) ho letto la tua “Talk dirty to me”  e mi ha fatto divertire immensamente. Sul serio, è venuta proprio bene! Complimenti!

Ebbene, detto questo, vi lascio alla lettura.

   
 
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