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Bambini
e matti, si sa, da che il mondo è mondo con le bestie ci si
pigliano. Appresso
a quello, quante volte ci stava il codazzo dei cani senza padrone,
bestie
rognose con le costole di fuori, rifinite dalla fame, e lui ci divideva
il pane
ricevuto in elemosina, con loro, e ci faceva discorsi complicati, manco
si
trattasse di cristiani. Il solito buon uomo raccontò alle
comari del mercato d’averlo
visto abbracciare il cane di Serafino il pecoraio, quello bianco, col
collare
irto di punte e la criniera da leone, che al gregge non lasciava
avvicinare
bestie né uomini. Il Matto lo abbracciava e ci parlava, e lui gli frugava dentro gli
occhi, ascoltando
a orecchie tese i suoi sproloqui. Fosse
l’uomo fedele alla
volontà di Dio
come tu lo sei al tuo padrone, fratello cane… Prendesse l’umanità esempio da
te… Al buon uomo per poco non era
sceso un accidente, sentendogli proferire
il nome dell’Altissimo sul sudicio muso di un
cane, ma quello era tocco,
lo sapevano tutti, e il Signore ha
misericordia di quelli dolci di sale, altrimenti
l’inferno sarebbe pieno
come un uovo di gallina. Il Signore sì, ma non certo qualche
anima timorata
che, prima o poi, gli avrebbe fatto assaggiare il gusto delle legnate
sul
groppone e allora l’avrebbe capita, finalmente, che era
peccato nominare il
nome di Dio sul ceffo lercio
di un
cagnaccio immondo.
Quello
che lo seguiva trotterellando era l’ennesimo della serie,
sfamato per modo di
dire dal tozzo di
pan secco che il Matto
aveva avuto in elemosina e diviso con lui, una briciola a me, una a te.
Un
vecchio randagio pulcioso, le orecchie dritte, il muso imbiancato dagli
anni,
il segno delle costole ben evidente sotto la pelliccia arruffata. In
città si
mormorava che il Matto intendesse
incontrarsi faccia a
faccia con la Bestia della Pietralunga. E farsi ammazzare come una capra, borbottò
segnandosi una vecchia: “Pater
noster…Libera nos a malo…” Teneteli per qualcun
altro, i vostri pateravegloria,
nonna. Scommetterei una
caraffa di quello buono che il Matto è tale solo per non
pagar dazio, e sarebbe
capace di gabellar per lupo il cagnaccio che gli è andato
appresso strada
facendo. E noialtri a crederci e a scomodare il Padreterno dietro le
stramberie
di quel pitocco. Ma se non oggi sarà domani o magari domani
l’altro, incontrerà
davvero qualcuno che gli spaccherà il groppone a legnate e
se la ricorderà per
un pezzo, la lezione, datemi retta…”
Beata
ignoranza. Sarebbe scoppiato in una sonora risata sui grugni scrofolosi
di
quella bassa gente gonfia di presunzione e d’insipienza.
Avrebbe spiegato loro
tutto quello che sapeva, non senza togliersi il gusto di umiliarli come
meritavano. Non
avesse avuto il freddo
della febbre addosso e una disperata voglia di scaldarsi
l’anima e le budella
col vino dello Zoppo, che tanfava d’uva marcia ma
l’ansia sapeva bene come
ammazzarla. Suo padre, prima che il maledetto Ubaldeschi lo togliesse
dal
mondo, era stato un valente cacciatore. Un valente cacciatore che non
avrebbe
avuto motivo di vergognarsi di lui, mira eccellente e coraggio
temerario, talis pater talis filius.
Cervi. Daini.
Cinghiali. Orsi. Mai però dardo della sua balestra avrebbe
colpito l’animale di
cui portava il nome: il lupo, del
quale
conosceva bene lo sguardo d’ambra, il muso aguzzo, il passo
leggero, la musica
inquietante della voce. Attaccato all’ombra del Matto, non
c’è un vile cane di
strada, gentaglia. Guardatelo attentamente, o voi che non ne avete mai
veduto uno
e immaginate un mostro grosso quanto un cavallo, capace di pietrificare
con lo
sguardo e d’appestare col fiato prima di uccidervi e
divorarvi. Attaccato
all’ombra del Matto c’è un lupo.
C’è la Bestia della Pietralunga, proprio lei.
Guardate come trascina la zampa: all’osteria dello Zoppo, ho
sentito Cecco il
legnaiolo vantarsi d’avergli scagliato contro la sua roncola
e d’averlo
colpito…
Lo
osservò attentamente attraversare la piazza: piccoli passi
veloci, capo chino ,
spalle curve che contraddicevano i suoi venticinque anni conferendogli,
alla
distanza, qualcosa del vecchio. E la bestia continuava a seguirlo,
contraddicendo anch’essa la propria natura diffidente ed
elusiva, attaccata
alla sua ombra come un cane stupido e fedele. Di solito si collocava
nel bel
mezzo della piazza e, senza mutare l’attitudine curva della
sua gracile
schiena, cominciava a sproloquiare. La gente gli si faceva intorno e lo
ascoltava. Probabilmente erano pochi coloro che credevano davvero in
quel che il Matto
pontificava con una voce flebile che
gli somigliava; i più stavano
ad
ascoltarlo solo per dileggio. Anche se c’era ben poco da
dileggiare in un
accattone vestito di stracci capace di convincere un lupo a seguirlo
fin dentro
le mura di una città.
Lupo
Buonfante decise che ne aveva avuto abbastanza, eppure non riusciva a scollarsi da quel
recesso semibuio dal
quale poteva guardare senza essere visto. E più nolente che
volente, finì con
l’apprestarsi ad
ascoltare le parole
dello straccione ai cui piedi, come un vecchio cane stanco, la belva si
era
assopita, dopo aver mosso piano la punta della coda. Il carisma e le
qualità
oratorie non dovevano mancargli se, con gran scorno del parentado,
alcuni
giovani di ottima famiglia avevano abbandonato panno e broccato per
infilarsi in
un sacco di bigello e andargli
appresso
lodando Dio e rinunciando gioiosamente al potere, all’amore e
alle ricchezze.
Buon
popolo di questa
città… Guardate, accucciato ai miei piedi come un
docile cane, fratello
Lupo creatura di Dio che tanto
temete! Uomini formati a immagine dell’Altissimo, che non
esitate a profanare
voi stessi con la superbia, l’invidia, la calunnia,
l’odio, la violenza,
l’impurità e le fornicazioni, dovreste temere non
il lupo, bensì il
peccato e l’inferno! Ma sappiate, buona
gente, che la misericordia del Signore è infinita e se, con
cuore sincero, vi
pentirete del male fatto, ogni colpa vi sarà rimessa e nulla
potrete temere,
men che meno la morte corporale, che
anzi vi scardinerà
le porte del
Paradiso…
Sì,
ne aveva avuto abbastanza, dell’accattone con le sue
chiacchiere farneticanti e
del vecchio lupo pulcioso. Il vino rancido dello Zoppo era
lì a pochi passi,
pronto ad annegare nell’ottundimento tutta
l’inquietudine che lo divorava.
Si calò il cappuccio sulla fronte, mosse alcuni
passi. Il cielo grigio minacciava pioggia, in lontananza addirittura
tuonava,
se non si fosse affrettato a
raggiungere
la bettola non si sarebbe risparmiato una passata d’acqua
gelida, foriera
magari di qualche bella
infreddatura.
Che peraltro il
Matto, gracile e grosso
la metà di lui, sembrava non temere, intento a baloccarsi
con la Bestia della
Pietralunga che lo assecondava come
un
cucciolo giocoso.
Basta
adesso. Ma basta
per davvero.
E invece niente, come se una forza misteriosa tenesse i suoi piedi
ancorati al
suolo, nonostante avesse iniziato a piovere e i lampi si rincorressero
tra le
nuvole. Poi tuonò. Forte. Il lupo alzò il muso al
cielo, ululò. In fondo, non
era molto diverso dai cani, che spesso dei tuoni hanno il terrore.
Ogni
vita ha un senso.
Forse
sono impazzito, o forse no, la voce che ho sentito è solo il
vento, un tuono,
un maledetto scherzo della mia immaginazione…
Ogni
vita ha un senso,
lo hai insegnato ai tuoi simili e la forza del tuo dire
resterà nei tempi che
verranno, quando io e te non saremo più nemmeno
ossa…
Un
brivido. E un altro. No, non poteva essere vero. Era la voce del vento,
quella,
il rombare minaccioso del tuono, forse solo l’ululato di
quella
bestiaccia. L’ululato,
eh già, se non
quello che cosa?
Ogni…
vita… ha un senso.
Gli
sembrò addirittura di vederlo abbassare la testa al cospetto
del Matto, come
per salutarlo, prima di decidere che era tempo di tornare a casa, tra
le forre
della Pietralunga. Lo vide quindi spiccare un balzo e, in pochi passi
appena,
scomparire nell’orizzonte grigio di nuvole. Lupo Buonfante
rabbrividì dentro
il mantello foderato di logora
pelliccia.