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Autore: BlueWhatsername    31/08/2013    6 recensioni
Non chiedetemi di spiegarmi, non sono la persona più adatta.
Commetto errori, non me ne accorgo, ferisco le persone e dopo le rimpiango.
Non sono cattiva no, solo tendo a dimenticarmene.
Ma il tempo, quello mi martella nel cervello.
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Raccolta di OS, scritte con la più totale libertà e senza una scadenza precisa.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ci ho provato ad aggiustarlo.
Giuro che ci ho provato.
Ma alla fine l’ho lasciato là, sul comodino, non ho nemmeno avuto il coraggio di tagliare i fili rotti.
Che poi, quando si è magicamente spezzato – non so nemmeno come abbia fatto – la prima cosa che ho pensato è stato: ‘Vabbeh, ma era allacciato alla cavolo però!‘.
Sì, lo so che tu non c’entravi niente in quel momento, ma, se ben ricordi, quel bracciale me lo avevi allacciato tu, ed io ti avevo anche detto – e sempre perché non mi stavi mai a sentire – che si sarebbe spezzato prima o poi, visto che un nodo del genere non lo facevano manco i bambini di due anni.
Con questo non dico che sia colpa tua se si è rotto, eh.
Anzi, sicuramente si è rotto perché era vecchio, logoro e sporco.
(Strano che le cose si rompano quando sono così, eh?)
Dico solo che se magari mi avessi dato retta – per una volta nella tua vita, mica dico chissà che, una volta – quel bracciale sarebbe durato un po’ di più.
(E no, non ti sto lanciando frecciatine, ma figuriamoci. Come puoi pensarlo? Non lo farei mai. )
Vabbeh, insomma, sta lì.
Ci ho pensato pure di buttarlo, a dirla tutta.
Cioè, all’inizio l’ho guardato basita, come a dire ‘Non avevi niente da fare, vero?‘ , dopodiché l’ho preso e tirato, e la cosa divertente è che nemmeno è andato tanto lontano.
Cioè, due metri avrà fatto, forse.
Ma sì, una distanza poco considerevole considerato che dopo averlo guardato in cagnesco per un buon quarto d’ora, mi sono piegata e l’ho raccolto.
La scena esilarante è stata quando mi sono messa a ribaltare casa per la colla.
Come se poi bastasse la colla per riparare qualcosa di rotto, eh?
(No, non è un’altra frecciatina, piantala di sentirti costantemente protagonista di un mio discorso e lasciami finire.)
Alla fine niente, ho tipo passato sopra un’ora ad imprecare su quel coso e poi l’ho messo lì, sul comodino, e lì resterà.
Beh, ma io te l’avevo detto, no?
T’avevo detto – testuale: ‘Questo nodo fa schifo!’, punto.
Cioè, non ci voleva parecchio a capire che quel nodo facesse davvero schifo.
Fili intrecciati così, io boh.
Che poi, cocciuto, hai insistito per metterlo sul polso sinistro, ed io volevo lo mettessi sul destro.
E tu ‘Silenzio, non lamentarti sempre’.
Beh sì, come se quella lamentosa fossi stata io.
Cioè, semplicemente ti avevo suggerito di allacciarlo al polso destro e non sinistro perché mi sarebbe piaciuto più lì. Così, perché mi andava.
E tu no, dovevi per forza contraddirmi, vero?
Che poi, perché non te le ho staccate quelle manine quando me lo stavi allacciando?
Ripensandoci avrei potuto benissimo dirti di toglierti dai piedi ed allacciarmelo da me.
Però, se ben ricordi – io sì – io ero impegnata a fare zapping, ero era quasi impossibile che fossi riuscita a farcela, senza di te.
Sì, sì. Lo so cosa stai pensando.
Love me, love me, say that you love me’, eri proprio idiota quando la cantavi.
Perché eri convinto che t’avrei risposto, certamente.
Della serie: ‘Tu stuzzichi me, io stuzzico te’, no?
Sì, fondamentalmente era questo.
Eri così sicuro di te che quando poi mi sentivi rispondere a tono che cantavi da far schifo – pessima bugiarda perché cantavi pure bene, ma tienitelo per te quello che ho detto e non scocciare oltre, sii bravo almeno per una volta in vita tua – alzavi il tono di voce, sicurissimo che di lì a due minuti sarebbe volato qualcosa.
Ed io ricordo ancora quella volta che mi trovai per le mani l’astuccio e te lo tirai, prendendoti in faccia.
Che poi nemmeno avevo calcolato bene la traiettoria, voglio dire, pensavo ti sarebbe finito semplicemente sul braccio.
Invece no, ti sei girato e t’ho preso in faccia, in pieno viso.
Che poi quante scene hai fatto, sostenendo che ti avessi quasi fratturato il naso… Suvvia, non scherziamo, il mio astuccio pesava, ok, ma tu eri davvero lamentoso.
E hai preteso di metterci dell’acqua e pure che ti tamponassi il naso.
Non è che stessi perdendo sangue, sai?
No, era semplicemente la voglia categorica di fare lo stronzo e guardarmi in faccia come a dire che, al solito, avevi ottenuto quel che volevi.
E, come se non bastasse, mentre io tamponavo questo naso dolorante – se, come no – tu cosa facevi? Mi squadravi e sorridevi, giocando col bracciale.
Quel bracciale, sì.
A parte che, ripensandoci, mi chiedo come abbia fatto a non rompersi prima.
Ci infilavi sempre le dita, quasi incastrandole tra esso ed il mio polso, mi facevi quasi male, ma fin quando non t’avessi dato un calcio sugli stinchi tu non l’avresti smessa.
Che poi una volta mi sa che c’è davvero rimasto incastrato l’indice, se non sbaglio, roba che quasi rischiato di perdere l’uso del braccio perché tu tiravi e a momenti mi hai staccato il polso.
La delicatezza non era il tuo forte, eh?
Certo, non in quei casi.
Poi te ne uscivi con cose tipo ‘Ma quello che cazzo guarda?’ e allora capivo che era il tuo modo per essere delicato nei miei confronti.
Mi spiego, cervellone che non sei altro, sennò non capisci.
(E ridi pure quanto ti pare, che poi rido io)
Cioè, nel senso.
Il tuo tono di voce è sempre stato un casino da interpretare, nessuno capiva mai quando parlavi – e ti manco immagini le risate che mi ci facevo io a vedere come tu fossi sornione e contento di quel tuo non farti comprendere.
(Quel che ho scritto ha poco senso, ma sono certa tu mi stia seguendo)
Quindi, in automatico, se dicevi a la gente capiva b e se dicevi c tutti carini a pensare ad a.
Insomma, tutto molto simpatico, perché nessuno capiva mai.
Cioè, tutti convinti d’aver capito cosa intendessi ed io che me la ridevo dietro, assurdo!
E tu, cordialmente stronzo come sempre, non ti curavi di essere chiaro.
Però c’è una cosa che non hai mai preso in considerazione di me, e cioè che io t’avevo letto e già da un bel pezzo.
Sennò tutti quei pomeriggi di sopportazione nei tuoi riguardi non si spiegano, eh.
Ripensandoci – e mi chiedo perché non l’ho fatto prima – avrei potuto accendere quel motorino e lasciarti per strada, tanto poi ero io che mi ci sedevo sempre, tu eri più tipo da sederti per terra – che idiota.
Però era divertente vedere mentre ti passavi le mani tra i capelli biondi e poi tipo frizionavi per chissà che motivo, e poi te la ridevi pure.
Quanto stavi male?
O forse stavamo male in due, boh.
Cioè, io penso d’aver avuto qualche problema – e se ora sapessi che problemi ho penso mi misureresti la camicia di forza più adatta a tenermi ferma a vita natural durante – ma anche tu non scherzavi oh.
Che poi avevi rotto sempre in mezzo, come se fossi il paladino della giustizia.
Guarda che Dio m’ha fornito di una lingua bella lunga, ed anche biforcuta, non c’era bisogno che ogniqualvolta tu ti piazzassi in mezzo alla discussione solo e solamente per rinfacciarmi un aiuto che non volevo.
Era quello, no?
Sbattermi in faccia che avevo avuto bisogno di te, e che tu c’eri stato.
Te lo leggevo negli occhi, pure quando me ne stavo per conto mio, con quel broncio che saprebbe vincere un Oscar – parole tue – e tu arrivavi a dirmi che avrei dovuto darmi una calmata.
Cioè, non che tu fossi più calmo di me, diciamocelo.
Tu le cose me le urlavi in faccia, e poi pretendevi che io ti ringraziassi pure.
Però almeno eri l’unico che mi permettesse di non aver paura.
Non avevo paura, quando stavo con te, non avevo paura perché sapevo che tu sapevi come fossi, lo sapevi benissimo, e così profondamente, che non mi avresti mai rimproverato un comportamento solo all’apparenza, avresti intuito subito cosa l’avesse scatenato e solo dopo saresti partito con la tua filippica.
Una delle quali – forse una delle migliori performance della tua vita – ancora ricordo durò una buona mezz’ora, prima che ti mollassi uno schiaffo liberatorio a cui tu dicesti semplicemente ‘Ah, grazie’.
Che poi la filippica la facevi a me… Quando tu eri una iena, per principio.
Eri una iena quando ti chiedevo di tapparti la bocca o avrei perso la concentrazione in ciò che stavo facendo.
Eri una iena quando ti beccavo nella giornata sbagliata e quindi ogni occasione era buona per massacrarmi – certo, ma solo per litigare abbondantemente.
Eri una iena quando ti dissi che se avessi continuato a fumare t’avrei lanciato di sotto le sigarette al primo momento disponibile.
Io li odio i fumatori, li detesto, te lo giuro.
(Vorrei aggiungere altro ma non lo farò, rimani col dubbio, mi spiace.)
E, appunto, quando mi offristi quella famosa sigaretta, così ti dissi?
Lo ricordi, spero.
Te la lasciai fumare – era anche bello guardarti fumare, a contraddizione che mi mettevi addosso era/è incredibile – e pace.
Da dov’ero partita?
Ah già, dal bracciale.
Insomma, dicevo, si è rotto.
Storia chiusa, addio, ciao.
Sta ancora là – che poi tu guarda che giro di parole nel mezzo, che casino, mamma mia, come sempre, quando uno parla con te, si perde – e penso ci rimarrà.
Ora il braccio è più leggero, una preoccupazione di meno.
 
 
 
P.s.: avessi avuto il coraggio, anni fa, di resettarmi il cervello, eviterei di ripetermi il tuo numero in testa. E tranquillo, non ti chiamo per riaggiustalo, proprio no.
  
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