Non poteva ancora
crederci.
Con un moto di ottimismo,
puntò l’indice sul foglio appeso alla parete dell’aula e scorse nuovamente tutti
i nomi, elencati per ordine alfabetico, finché non arrivò al
suo.
Mc Quinn Nathan, matricola
078952, N.C.
Sbuffò, irritato. Sperava di
aver letto male all’inizio, ma non era stato
così.
N.C., ovvero “non
classificato”.
Stavolta mio padre mi taglia
davvero i fondi, pensò desolato.
Il cicaleccio della stanza
aumentò, segno che gli altri studenti stavano entrando e che l’inizio della
lezione era prossimo.
“Ehi, Nath! Allora?” chiese
una voce squillante dietro di lui.
Percepì forte e chiara, ma
soprattutto forte, una pacca sulla
spalla.
Si voltò per lanciare
all’amico un’occhiataccia.
“Allora ho fatto pena anche
stavolta! Non sono passato…” ringhiò, amaramente, aggrottando le sopracciglia.
Quando Nathan era di quell’umore, la cosa più ragionevole da fare era lasciarlo
in pace e aspettare che sbollisse la rabbia da solo. Chi lo conosceva almeno un
po’ lo sapeva bene.
Il compagno di corso, quindi,
optò per un’azione sicura e salutare per tutti: tacere. O meglio, ne aveva tutte
le intenzioni del mondo, ma, in quel preciso momento, arrivarono a frotte tutti
gli altri membri del loro gruppetto. Le ragazze subito circondarono Nathan, come
api attratte da una profumata e sontuosa orchidea. Era quello un avvenimento
piuttosto comune nella vita di lui: fascino da bello e impossibile, Nathan Mc
Quinn era figlio di un ricco imprenditore e di una ereditiera. Unico successore
dell’ingente patrimonio famigliare, era un bocconcino appetibile per qualunque
creatura di sesso femminile. Nathan non aveva mai fatto nulla di troppo faticoso
durante la sua esistenza per assicurarsi sempre e dovunque un nutrito gruppo di
fans, ma quello sembrava nascere quasi spontaneamente, qualunque luogo
frequentasse. Come del resto i suoi cosiddetti “amici”, i suoi compagni di
corso: nemmeno loro li aveva conquistati con la sua simpatia. Infatti, tolto
l’aspetto fisico più che piacevole, il rampollo di casa Mc Quinn non aveva, quel
che si dice, un bel caratterino: viziato, lunatico ed egocentrico. Tre aggettivi
che lo descrivevano a meraviglia.
Subito il chiacchiericcio
delle tre studentesse, che l’avevano circondato (era braccato praticamente),
cominciò a stordirlo e fu subissato di
domande.
“Come va? Passato il dolore
il dolore alla schiena?”
“Ci vieni alla festa stasera,
vero?”. A parlare era stata una rossa (tinta, ovviamente) piuttosto chiassosa,
assieme alla sua compagna di progettazione.
“Certo che viene, Christina.
Ci vado io, non vedo perché lui dovrebbe mancare” disse la sua amica, una
bionda, piuttosto ammiccante.
“La solita
smorfiosa!”
“Com’è andata Nathan?”
domandò la terza del gruppo, una brunetta con sguardo da cerbiatta. Forse la più
sopportabile delle tre.
“Zitta, Ethel! Non l’hai
ancora capito che non ha preso nemmeno la sufficienza?! Non mettere il dito
nella piaga” sbottò la bionda di prima.
“Grazie mille, Brooke. Sei
proprio un’amica” commentò il giovane in questione, con palese
ironia.
Che la ragazza evidentemente
non colse.
“Di nulla,
Nath!”
“Avanti, lasciatelo in pace”.
Per sua immensa fortuna, il fedelissimo amico Neil intervenne in sua difesa e,
buttandogli un braccio al collo, se lo portò via, uscendo dall’aula, nonostante
fosse consapevole dell’arrivo imminente del
professore.
Si diressero, tacitamente
d’accordo, verso la macchinetta delle bevande calde e lì Neil cominciò a frugare
freneticamente all’interno dei suoi pantaloni, in cerca di
spiccioli.
“Caffè?”
chiese.
“Macchiato, thanks” rispose
l’altro, poggiandosi con la schiena al muro, sempre
imbronciato.
Stettero in silenzio per un
po’. Nathan guardava con pigro interesse l’amico, mentre questo infilava le
monete e pigiava i tasti della macchinetta.
Neil era, senz’ombra di
dubbio, come un fratello, per lui. Non solo perché si conoscevano praticamente
da una vita (elementari, scuole medie, liceo ed ora università), ma soprattutto
perché erano sempre stati assieme ed ormai l’altro lo conosceva meglio di se
stesso.
Solitamente, lui non era un
tipo sdolcinato, ma dava molto valore al legame di amicizia che c’era tra loro.
Era bello avere vicino una persona come Neil, sempre pronto ad aiutarlo e a
condividere tutto con lui. Anche le esperienze più assurde e stupide, come
sbagliare treno e capirlo solo all’arrivo, quando ormai si trovavano a
chilometri e chilometri di distanza dalla loro meta e da casa loro. Rise dentro
di se, ripensando a quell’episodio.
Se c’era qualcuno che dal
principio non l’aveva avvicinato, perché figlio di una ricca e prestigiosa
famiglia, quello era Neil. E non perché anche lui fosse nella sua stessa
posizione sociale, anzi: era figlio di un fotografo e di una cameriera. I suoi
genitori avevano divorziato mentre lui era ancora piccolo ed il padre se n’era
andato all’estero, in cerca di un’assunzione stabile; quando la madre si era
risposata con un nuovo compagno, lui era ormai divenuto adolescente. In quel
periodo erano cominciati i primi litigi famigliari: Neil non sopportava proprio
il suo patrigno e così, non appena Nathan gli aveva proposto di andare a vivere
con lui in una lontana città universitaria, non ci aveva pensato su due volte.
Aveva fatto i bagagli e se n’era andato, libero ed
indipendente.
Ma quanto gli costava ora la
sua indipendenza: per mantenersi, Neil era costretto a lavorare, ma non poteva
permettersi di scegliere un impiego a tempo pieno: le lezioni erano obbligatorie
e lui non voleva rischiare di diventare uno studente fuori corso. Così, aveva
optato per un part-time come corriere
espresso.
Nonostante questo, la sua
media scolastica era buona e aveva dato tutti gli esami previsti. Ciò gli
permetteva di usufruire di una sostanziosa borsa di studio, che gli consentiva
di condurre una vita piuttosto discreta.
“Eccole il suo caffè
macchiato, signore” gli disse Neil, scherzando e porgendogli un bicchierino di
plastica fumante.
Nathan rispose con un
grugnito, come ringraziamento.
L’amico sospirò, vedendolo
così, e tentò di tirarlo su di morale.
“Non ha senso abbattersi,
Nath. Piuttosto, dovresti cercare di rimediare” gli consigliò
caldamente.
“Fosse facile! Stavolta mio
padre si incazzerà da morire”
“Ma dai, è normale. Poi gli
passa”
“No che non gli passa! Non mi
darà più un soldo!” sbottò Nathan, buttandosi a sedere su uno degli scranni in
plastica, posti lungo tutta la parete del corridoio, in cui si trovavano.
“Puoi sempre cercarti un
lavoretto da fare. Ormai hai ventun’anni belli che compiuti! Ne saresti in
grado” ribatté l’amico, fermamente convinto delle sue
parole.
“Non siamo tutti come te,
Neil” inveì l’altro, in un moto di stizza, che gli passò subito non appena si
accorse di quello che aveva detto. “Ah, no…! Scusa! Non volevo dirlo in quel
senso… lo sai”. Non era stato molto carino da parte sua rinfacciare a Neil la
sua condizione. Lui non aveva un padre che gli manteneva vitto e alloggio, studi
e divertimenti vari. Lui badava a se stesso e lavorava per
mantenersi.
Neil lo guardò, scuotendo il
capo. “Non preoccuparti: conosco il tuo caratteraccio. Ci ho fatto il callo,
ormai” sospirò, finendo di bere il suo caffè tutto d’un
sorso.
“Non dire
così”
“Comunque sia, penso sia
proprio il caso che tu vada a far ripetizione da qualcuno o non passerai nemmeno
l’esame orale” dichiarò, serio, mentre accartocciava il bicchierino di plastica
e poi lo lanciava verso il cestino dei rifiuti, facendo
canestro.
“Grazie mille, Neil! Sei
confortante” rispose Nathan, più amareggiato che
mai.
“Sono
realistico”
“E dove dovrei andare,
sentiamo?! Credi davvero sia facile trovare uno che faccia ripetizioni di questo
tipo? Perché non mi aiuti tu?” lo supplicò, sapendo tuttavia la sua
risposta.
“Lo sai che, se potessi, lo
farei volentieri. Però, tra il part-time e lo studio, ho davvero poco tempo da
dedicare a me stesso, figurarsi a te. Per fortuna viviamo insieme, altrimenti
non so come faremmo per Progettazione”
“Allora sono fottuto”
proclamò, cupamente, alzandosi per buttare anche lui il bicchiere, ormai
vuoto.
Neil lo seguì con lo sguardo,
poi la sua attenzione fu catturata da ben
altro.
“Non direi. Guarda un po’
là”. Indicò uno dei mille foglietti appesi alla parete di fronte alle
macchinette delle bevande e degli snack. Il muro era quasi completamente
ricoperto di annunci: affitti di monolocali, bilocali, posti letto, vendita di
libri usati o appunti, eccetera. Una sorta di bacheca
collettiva.
Nathan seguì con gli occhi la
direzione del suo indice e, dopo due secondi, focalizzò un pezzo di carta, che
sembrava essere stato strappato da un
quaderno.
Ripetizioni di
Statica e
Meccanica delle strutture. Per chi è
interessato, contattare il seguente numero durante le ore dei
pasti.
“Fa al caso tuo” gli fece
notare Neil.
Senza rispondergli, Nathan
tirò fuori dalla tasca dei jeans il cellulare e si segnò il numero di
telefono.
“Quindi, immagino seguirai il
mio consiglio” disse l’amico, incamminandosi verso
l’aula.
Di nuovo, il giovane dai
capelli scuri grugnì in senso affermativo.
“Allora
dillo”
Nathan si fermò in mezzo al
corridoio. “Cosa?”
“Neil, avevi ragione, come
sempre” recitò il ragazzo, cercando di imitare la voce
dell’altro.
“…”
“Sto
aspettando”
“Neil… vai a
fanculo”
Quando entrarono in aula, il professore era appena
entrato e alla cattedra stava cercando di accendere il microfono. I due ragazzi
ne approfittarono per andare verso l’altro capo della sala, dove c’era il loro
gruppo.
Naturalmente il posto che era stato tenuto per Nathan si
trovava in mezzo a Christina, Ethel e Brooke, che lo accolsero tra loro, più che
felici.
Neil si dovette accontentare di un posto vicino a Ralph
e al silenzioso Yuri, che quella mattina non aveva ancora aperto
bocca.
“Buon giorno a tutti” cominciò il professore. “Come vi
avevo già annunciato ieri, ho corretto i vostri test e ho appeso in bacheca i
risultati, per chi non li avesse ancora visti. Sono stato molto soddisfatto,
eccetto qualche insufficienza”. Nathan a queste parole rimise il
broncio.
Dopo una raccomandazione affinché gli studenti carenti
si impegnassero per recuperare, perché “l’orale era alle porte”, l’uomo,
papillon giallo a pois rossi su completo marrone scuro, cominciò la lezione del
giorno.
La spiegazione, come al solito, fu noiosissima e Nathan
ben presto smise di prendere appunti e, spalmatosi comodamente contro lo
schienale della sedia, cominciò a scarabocchiare il suo block-notes. Dello
studente modello lui non aveva proprio
nulla.
Quando le due ore di tedio finirono, tirò un sospiro di
sollievo, mentre tutti i presenti cominciavano ad alzarsi in piedi per uscire
dall’aula.
“Ehi, avete visto chi ha totalizzato di nuovo il
punteggio più alto?!” chiese Christina alle compagne. Dal tono si intuiva che
lei conoscesse già la risposta.
“No, dai! Se mi dici ancora quella, cambio
facoltà!” rispose Brooke, melodrammatica come
sempre.
“Allora sbrigati a fare domanda per il passaggio, cara,
perché la numero uno del corso continua ad essere lei” confermò Ethel,
prendendo in braccio dei libri.
“Giura!” trillò la bionda,
inorridita.
“Di chi parlate, ragazze?” chiese loro Ralph,
incuriosito dal loro spettegolare.
Le tre lo guardarono in tralice,
contemporaneamente.
“Ma di Morticia, ovvio” dissero, quasi in coro. Nathan
le guardò disgustato: possibile che non avessero ancora intuito quanto
l’argomento “test” gli desse fastidio? E poi perché dovevano sempre parlare di
quelle cose così inutili?
“Intendete Fay Heather, la cocca dei professori”. Per la
prima volta, tutti ammutolirono e si voltarono in un’unica direzione: Yuri,
colui che eccezionalmente aveva parlato!
“Amico, mi inquieti a volte” decretò Neil, poggiandogli
le mani sulle spalle. Quello lo guardò,
interrogativo.
“Comunque sia, non capisco proprio perché quella strega
riesca sempre ad ottenere il massimo dei voti in tutto! Non posso credere che
sia davvero così brava” sbottò Brooke, volgendo lo sguardo in direzione della
cattedra, dove il professore ancora sedeva, riordinando dei fogli. Una ragazza
gli si era appena avvicinata e sembrava gli stesse chiedendo
qualcosa.
“Secondo me, va a letto con metà corpo docente” insinuò
maliziosamente Christina, guardando anche lei nella stessa direzione della
compagna.
Nathan, che cercava di non farsi coinvolgere in quelle
sciocchezze, non poté fare a meno di voltarsi, troppo incuriosito. Eppure sapeva
bene di chi parlavano: Fay Heather, una ragazzina che non dimostrava affatto la
sua età, dalla fluente chioma corvina e dagli occhi color pece. Per questo
veniva chiamata Morticia dall’intera classe, fin dal primo anno accademico:
ricordava la protagonista omonima del telefilm per il fatto che vestiva sempre
di scuro e per la sua carnagione bianchissima e i lunghi capelli neri. Ma le
analogie finivano qui: al contrario di Morticia della famiglia Adams, i
lineamenti del viso erano molto femminili e la sua figura magra risultava
alquanto gracile nel suo complesso.
Non era simpatica a nessuno, per quel che aveva capito.
In effetti, l’aveva sempre vista da sola, in fondo all’aula. Risultava sempre
prima agli esami e, per questo e per il suo carattere schivo, si era attirata
numerose antipatie.
Dal canto suo, Nathan non l’aveva mai calcolata più di
tanto. Certo, non era brutta, ma a lui piacevano le donne più prosperose, come
Brooke, che non si portava a letto solo per non avercela poi tra i piedi per
l’eternità.
Nathan era piuttosto superficiale e questa sua visione
dell’altro sesso ne era la prova
inconfutabile.
“Già, guardala là, come si lavora il professore” disse
Ralph, unendosi ai commenti delle ragazze.
“Oh, avanti, piantatela una buona volta di fare i
perfidi” intervenne Neil. “Se è così brava, evidentemente è intelligente e si
applica molto, tutto qui”
Quattro paia d’occhi lo fissarono laconicamente.
Possibile fosse il solito guastafeste?
“Neil, non rompere” rispose Brooke a nome di
tutti.
“Dopo questo dialogo istruttivo e maturo, penso scapperò
in biblioteca per occupare con saggezza quest’ora di buco” dichiarò quello con
fare ironico, mettendosi la borsa con i libri a
tracolla.
Il silenzioso Yuri lo seguì, senza dire nulla o salutare
nessuno. Del resto, era fatto così.
Un marziano, che nessuno si prendeva la briga di
comprendere.
“Perché noi, invece, non ce ne andiamo in caffetteria,
eh Nathan?” propose Brooke, avvinghiandosi al suo braccio, peggio di un
koala.
“No… non mi va. Andate voi” disse in fretta il moretto,
prima di liberarsi della ragazza e avviarsi verso il cortile interno
dell’edificio.
“Ma che ha?” chiese la bionda, puntandosi le mani ai
fianchi: la sua preda era fuggita via.
“Dev’essere per il test che non ha passato… lascialo
perdere! Adora fare la vittima. Se vuoi vengo io con te a bere qualcosa” affermò
Ralph, sorridendole.
Brooke non lo degnò nemmeno di una risposta e se ne
andò, seguita da Ethel e Christina.
Nel frattempo, Nathan era arrivato nel porticato del
giardino e si era seduto sopra un basso muretto, che faceva da staccionata,
poggiando la schiena contro la colonnina di una
volta.
Tirò fuori dal taschino del giubbotto il pacchetto
morbido di sigarette. Con la bocca ne estrasse una e se la accese. Inalò una
lunga boccata di fumo, che poi lentamente espirò. Quei gesti, così semplici e
meccanici, avevano il potere di rilassarlo quando era
nervoso.
E così quella sera, quando suo padre avrebbe chiamato
per sapere com’era andato il test, gli avrebbe dato l’ennesima illusione, pensò
tra sé e sé. Ma ormai i genitori dovevano essersi abituati a vederlo fallire.
Non era mai stato una cima a scuola, eppure si era ugualmente iscritto
all’università, sotto le spinte dei suoi. Purtroppo, non aveva scelto Legge,
come il padre aveva sperato (una delle tante altre delusioni), ma Architettura.
A volte si chiedeva se l’avesse fatto in un moto di ribellione oppure no. Non
importava, comunque.
Doveva solo resistere per altri due anni e mezzo e poi
si sarebbe laureato (forse). Non gli importava il voto con cui sarebbe uscito.
Tanto, quando sarebbe venuto il momento di cercare lavoro, sapeva già con
certezza che suo padre l’avrebbe raccomandato a qualcuno dei suoi amici, così
come aveva fatto per fargli superare il test di ingresso alla facoltà di
Architettura. La vita era così facile per lui… eppure Nathan si sentiva pieno di
problemi ed insofferente.
Considerava ogni cosa una scocciatura e quando, nolente,
doveva fare qualcosa, diveniva di cattivo umore ed era a dir poco
insopportabile. Rispondeva male a chiunque. Persino a
Neil.
E cos’aveva da lamentarsi poi? Il basso profitto
all’università? Colpa sua, perché era svogliato e si impegnava
poco.
Oppure si lagnava perché il padre lo aveva minacciato
nuovamente di non mandargli più un soldo?
O perché delle sue camice firmate non ce n’era nessuna
adatta per la festa di domani sera?
Questi erano i grandi problemi di Nathan, eterno
insoddisfatto.
Un cattivo ragazzo?
No.
Viziato?
Decisamente.
In fondo, non era proprio colpa sua se era così. Cioè,
non tutta colpa sua: in parte, il merito andava anche ai suoi genitori, in
realtà segretamente fieri del loro unico figlio maschio, colui che un giorno
avrebbe ereditato il Mc Quinn Group, grande impresa edile che costruiva ville
extralussuose in tutta la nazione ed anche
all’estero.
Nonostante il padre preferisse vederlo iscritto
nell’albo degli avvocati, alla fine gli andava bene ugualmente che suo figlio
diventasse architetto. Ma questo, naturalmente, non glielo aveva mai detto. E
forse non l’avrebbe fatto nemmeno in futuro.
La madre, invece, riteneva il suo ragazzo il migliore in
assoluto: non c’era stata una sola volta nei suoi ventunanni di vita che
l’avesse rimproverato per qualcosa, anche quando era
bambino.
Nathan faceva i capricci perché voleva un giocattolo?
Mandava subito un cameriere a comprarglielo.
Nathan voleva avere una Mercedes per i suoi diciotto
anni? Nessun problema.
Nathan voleva andare a vivere per conto suo? Gli avrebbe
comprato all'istante un piccolo e grazioso
loft.
Alla fine, nessuno gli aveva mai detto di no veramente
ed era per questo motivo, in sostanza, che il giovane Mc Quinn si era abituato
ad avere tutto dalla vita.
Per fortuna, non è solo l’educazione dei genitori a
formare il carattere di un bambino: sono anche le persone incontrate lungo il
cammino. E Nathan aveva avuto la fortuna di incontrare Neil alle
elementari.
Con lui aveva aperto un po’ gli occhi su molte cose che
prima dava per scontate. Il ragazzo aveva cambiato un poco il suo punto di
vista: grazie a lui, aveva capito, per esempio, il valore di avere accanto un
vero amico, su cui poter contare; aveva capito che un’amicizia non si curava da
sola, ma andava sempre coltivata (lui era abituato ad essere circondato di gente
non interessata davvero alla sua personalità), perché non tutto è dovuto. Molte
cose vanno ottenute tramite uno sforzo o un sacrificio. Questo lo aveva capito,
anche se non sempre lo applicava.
A ventun’anni si rendeva conto di essere una persona
tremendamente vuota. Non aveva mai fatto nulla di buono, tranne accogliere Neil
in casa sua. Eppure, anche in questo caso, la situazione andava più a suo
vantaggio: per lui, l’amico era essenziale. Un punto fermo in un mare di
caos.
Frequentavano lo stesso corso quinquennale di
Architettura ed erano finiti per diventare compagni di Progettazione, materia in
cui, se si salvava, probabilmente lo doveva a
Neil.
“Signor Mc Quinn” lo chiamò una voce baritona e
conosciuta.
Riscosso bruscamente dalle sue riflessioni
deprimenti, Nathan si stupì di non aver fatto un salto con aggiunta di grida in
sottofondo, dato l’accidenti che si era preso. Con il cuore che gli martellava
nel petto per lo spavento, visibilmente impallidito, si voltò, trovandosi faccia
a faccia con il professore di Statica e Meccanica delle
strutture.
“Professor Le Revenant, buon giorno” lo salutò, tentando
di chetare il battito del suo cuore.
Si alzò e scese dal muretto su cui era appollaiato. Solo
in quel momento si accorse che, dietro all’omino, stava una
persona.
Una ragazza piccola, che vestiva in maniera alquanto
discutibile, completamente in nero, la cui chioma corvina ricadeva confusa sulle
spalle.
Non lo guardava nemmeno, ma fissava un punto impreciso
del pavimento.
Era Morticia, quella di cui parlavano prima i suoi
compagni.
“Signor Mc Quinn- cominciò il professore, con tono
severo- anche questa volta non è riuscito a superare il test” gli disse,
guardandolo seriamente.
Il senso di pesantezza che aveva sul cuore aumentò.
Inconsciamente Nathan strinse un pugno e aggrottò le
sopracciglia.
“Lo so benissimo! È venuto per farmi la solita
ramanzina?” chiese, in un moto di arroganza e frustrazione. Doveva proprio
mettere il dito nella piaga, quel dannato
vecchio?
Il professore si accigliò a quelle parole scortesi, ma
non disse nulla: il giovane Mc Quinn era una testa calda, glielo avevano
raccontato anche i suoi colleghi. Inoltre, siccome dovevano a suo padre l’ala
nuova della biblioteca, preferì non raccogliere la
provocazione.
Ci pensò qualcun altro, comunque, a fargli abbassare la
cresta.
“Sei un gran cafone. Chiedi scusa al
professore!”
Durò un secondo, ma fu come se la temperatura fosse
scesa di colpo e avesse ghiacciato l’aria circostante. Nessuno si era mai
permesso di parlare così ad un Mc Quinn.
Sia Nathan che l’anziano dal discutibile vestiario si
voltarono stupiti nella direzione di colei che aveva
parlato.
Era stata la Heather a rivolgersi a lui in quel modo. Il
ragazzo fissò con astio le iridi scure di lei, inspiegabilmente
inespressive.
“Suvvia, non è successo nulla” si affrettò a dire il
professore, cercando di calmare le acque. Come al solito, l’espressione di rara
e sadica crudeltà non sparì dal volto dell’uomo, quasi vi fosse stata impressa
sopra alla nascita.
“A me non sembra, signore. Questo sbruffone le ha
palesemente mancato di rispetto, mentre lei si sta preoccupando per la sua
situazione. Non mi sembra educato” insisté la giovane, con tono
piatto.
Nathan si maledisse per essere uscito dal proprio letto,
quella mattina. Possibile non gliene andasse mai una per il verso giusto? Anche
quella piaga nera ci si doveva mettere ad
irritarlo?
Voleva solo che quei due sparissero alla velocità della
luce e che il mondo intero lo lasciasse in pace, almeno per il resto della
giornata.
“Le chiedo scusa, professore” disse il ragazzo, con tono
chiaramente falso e sbrigativo. Sia chiaro: non che avesse ubbidito all’ordine
di quella tizia stramba, ma aveva semplicemente preferito tagliare corto quella
questione e venire subito al sodo.
L’uomo si stupì di nuovo: non si sarebbe mai aspettato
che Nathan sapesse anche scusarsi. Sorrise compiaciuto tra sé e sé: forse,
dopotutto, non aveva avuto una cattiva idea.
“Di nulla, Mc Quinn- gli disse- ero venuto appunto per
proporle una soluzione ai suoi problemi, se le sta
bene”
Il moro annuì, con fare non troppo entusiasta. Lanciò
un'altra occhiata torva alla giovane, che aveva ripreso a fissare il pavimento,
come se nulla di quello che la circondava la interessasse
davvero.
Si ritrovò a chiedersi distrattamente per quale motivo
quella tipa (ora etichettata nella sua mente come “insopportabile, da evitare
come la peste”) fosse lì, come se stesse accompagnando il
professore.
In quel momento si ricordò delle parole di Christina, ma
non vi diede molto credito. In fondo, il prof. Le Revenant non gli sembrava tipo
da fare quelle cose con una studentessa: troppo serio e impostato. Un vecchio di
altri tempi, tutto pelle e ossa: era altissimo e secco come un
grissino.
“Ecco, lei conosce già la signorina Heather? Siete una
quarantina voi del secondo anno, però potreste non esservi ancora presentati”
fece il professore, con fare prosaico. Qualunque cosa dovesse dirgli, Nathan
sperò lo facesse in fretta. Non sopportava quell’uomo troppo arcigno per i suoi
gusti e, inoltre, aveva come un brutto presentimento. Ma soprattutto: perché gli
stava presentando quella tizia?
“Infatti non la conosco, ma posso già dire con certezza
che non è esattamente il genere di compagnia che potrei amare” sbottò lui,
sfidando la giovane con lo sguardo.
Quella, senza alzare la testa, gli rispose: “Hai
ragione. Difatti ho notato che di solito preferisci frequentare delle oche. E
poi, se non mi conosci e mi stai già classificando come persona sgradevole,
dovresti guardarti allo specchio e magari metterti una mano sulla coscienza,
prima di parlare”
Nathan la guardò con astio: era davvero una persona
insopportabile ed aveva una lingua alquanto velenosa. Se non ci fosse stato il
professore, tra loro, l’avrebbe ricoperta volentieri di
insulti.
E se non fosse stata una donna, le avrebbe già mollato
un pugno sul naso.
Nessuno si era mai permesso tanto con lui. Solo suo
padre e Neil potevano farlo liberamente, senza attirarsi il suo disprezzo o il
suo odio.
“Stai zitta e lasciami parlare con il professore” le
intimò, sperando che la tizia se ne andasse.
Si rivolse all’anziano uomo con un’espressione la quale
faceva trapelare chiaramente che aveva raggiunto il livello massimo di
sopportazione. Se quel vecchio aveva qualcosa da dirgli, che si
sbrigasse!
“Ragazzi, sono spiacente di vedere che non andate
d’accordo- sibilò quasi il professore, vedendo sfumare il suo progetto- Mc
Quinn, volevo affiancarle la signorina Heather nello studio, così da risollevare
la sua situazione. Mi sembrava una buona idea e la signorina è stata già molto
gentile nell’accettare di darle una mano” si
spiegò.
Nathan lo guardò con orrore: stava scherzando, vero? A
parte il fatto che, dopo quelle brevi battute che si erano scambiati, non aveva
la minima intenzione di passare un minuto di più in compagnia di quella strega,
come poteva un’estranea accettare di aiutare nello studio uno che neanche
conosceva? Cioè, lui non l’avrebbe mai fatto, al posto
suo.
In quel momento, la risposta fu semplice: tutti sapevano
chi fosse e di chi era il figlio, quindi, presumibilmente quella ragazza voleva
solo quello che volevano un po’ tutti.
Dopo averle lanciato l’ennesima occhiataccia, che lei
non colse, troppo impegnata ad ammirare le piastrelle del pavimento, rispose
negativamente.
“Signor Mc Quinn, ci pensi prima di rifiutare. Questa
ragazza è molto dotata: potrebbe essere una vera manna dal cielo, per lei”
insisté il professore, poggiandogli una mano sulla spalla, con fare
minaccioso.
“No, grazie- gli rispose Nathan, vincendo l’impulso di
scansare quelle lunghe dita scheletriche dal proprio omero- ho già trovato una
soluzione al mio problema. La ringrazio comunque dell’interessamento”. Per
fortuna che Neil aveva trovato quel volantino circa le ripetizioni! Alla fine,
ancora una volta si ritrovava salvato
dall’amico.
Il professore ne fu sorpreso e soppesò le sue parole,
come a considerarne la veridicità.
“Perfetto, Mc Quinn. Lieto di vedere che è corso ai
ripari” sentenziò, con tono freddo “Ora la saluto, a domani”. Si allontanò,
diretto probabilmente verso il suo ufficio, con Morticia che lo seguiva passo
passo, come un pulcino segue una chioccia.
Nathan sbuffò, infastidito da quell’episodio. Il gesto
gentile di Le Revenant gli era indifferente: era, infatti, convinto che l’uomo
non fosse così felice di bocciarlo, sapendo che poi avrebbe dovuto fare i conti
con il Rettore della facoltà.
L’unica cosa che l’aveva colpito era stato fare la
conoscenza della Heather, che si era dimostrata ancor più insopportabile di come
la dipingevano Brooke e gli altri. A questo proposito, chissà cosa avrebbe detto
la bionda se le avesse raccontato di aver avuto un tète a tète con la
tanto odiata Fay Heather, innegabilmente la “cocca” dei professori, o almeno di
Le Revenant.
Quella giornata, in ogni caso, era stata orribile. E
Neil avrebbe lavorato la sera, quindi non poteva nemmeno chiedergli di uscire
con lui e andare in qualche pub, per distrarsi un po’. Purtroppo si sarebbe
dovuto accontentare della compagnia di
Ralph.
L’ora di buco passò in un battito di ciglia e, dopo
un’altra sigaretta e un tramezzino con troppo formaggio (per i suoi gusti),
Nathan si avviò su per le scale esterne del giardino sul retro, quello in cui vi
era il parcheggio per le auto dei docenti. I gradini portavano al piano
superiore, dove vi era l’aula della prossima lezione. Inutile dire che prestò
attenzione per i soli primi cinque minuti, dopodiché si dedicò a scarabocchiare
il suo notes.
Finita anche quell’ultima ora, Nathan agguantò l’amico e
uscì in fretta dall’aula, sperando di seminare la fastidiosa Brooke, che tutti i
giorni cercava di scroccargli un passaggio a casa. Non che non volesse farle un
piacere, anzi: non gli costava nulla, dato che il suo appartamento era vicino al
proprio, se soltanto lei durante il tragitto avesse tenuto la bocca chiusa. Il
fatto era che ciò non si era mai verificato in passato, figurarsi nel prossimo
futuro.
“Ma scusa, Nath, non potresti accontentarla una volta
sola? Così smetterebbe di ronzarti attorno in modo ossessivo” gli fece notare
Neil, mentre tornavano a casa sulla Mercedes
dell’altro.
“Guarda che otterrei esattamente l’effetto contrario. Tu
non le conosci le donne come lei, Neil” replicò il ragazzo, scalando di una
marcia, mentre effettuava un sorpasso.
“Per fortuna che ci sei tu ad illuminarmi” rispose
l’amico, ironicamente.
“Oggi Le Revenant è venuto da me” disse d’un tratto,
fissando la strada davanti a sé.
Neil lo guardò,
interrogativo.
“Voleva propormi di studiare con la Heather, per
rimediare ai miei voti… non ti dico che piacevole incontro c’è stato” rise
amaramente.
“E tu?”
“E io cosa?”
“Hai accettato o
no?”
“Cavolo, Neil! E c’è da chiederlo?! Certo che non ho
accettato!” sbottò Nathan, girando il voltante a
sinistra.
“Scusami tanto, principino sul pisello, posso sapere
perché? La Heather sarà pure strana, ma è la migliore del corso e Le Revenant ha
avuto un’ottima idea” disse l’altro, che proprio non capiva come facesse l’amico
ad essere sempre così arrogante ed indisponente. Si abbassava a chiedere aiuto
solo a lui, ma, se si trattava di chiederlo ad altri, apriti
cielo!
“Quella tizia è insopportabile. Non chiedermi oltre. E
poi ho già trovato la soluzione al mio problema, no?” gli fece
notare.
Erano arrivati sotto il condominio dove abitavano. In
due manovre, Nathan parcheggiò abilmente la Mercedes nel
viale.
“Intendi dire le ripetizioni del volantino? A volte mi
stupisci, Nath: studiando con la Heather non avresti avuto problemi di sorta, ma
un bel voto assicurato e avresti passato i pomeriggi con una bella ragazza. Ora,
immagina se quello dell’annuncio è un ragazzo, un brutto brufoloso puzzolente
ragazzo… rimpiangerai a vita la proposta di Le Revenant” sghignazzò Neil,
aprendo il portone, che dava sull’atrio del
palazzo.
Inutile dire che Nathan lo guardò
malissimo.
“Preferisco mille volte il ragazzo brutto brufoloso e
puzzolente a quella stregaccia in nero” sbottò, prima di rendersi conto di un
particolare. “Scusa un attimo, Neil. Sbaglio o hai appena detto bella
ragazza?”
L’amico annuì, perplesso, poiché non capiva dove l’altro
voleva andare a parare.
“Ma hai qualche problema alla vista? Definire bella quel
coso nero e incazzoso, puah!” fece il ragazzo, palesemente
schifato.
Salirono in fretta le scale illuminate dalla luce, che
filtrava dalle ampie vetrate dei corridoi di ogni
piano.
“Tu non sei oggettivo” disse Neil, tra un gradino e un
altro.
“E tu dovresti farti una visita
oculista”
“Sei prevenuto”
“Ho le mie ragioni”
“Ho capito… durante il vostro breve ma intenso incontro,
lei ti ha detto qualcosa” esultò lui, convintissimo di aver scoperto l’incognita
x della situazione. Nel mentre armeggiò con le chiavi e aprì la porta del loro
appartamentino.
“Taci, Neil” lo minacciò
l’altro.
“Qualcosa che non ti è proprio
piaciuto”
“La smetti, pseudo-indovino dei miei
stivali?!”
“Va bene, spocchiosissimo principino sul
pisello”
“Spilungone”
“Cocco di mamma”
“Secchione del
cavolo”
“Egocentrico del
cazzo”
“Ho fame”
“Pennette o
risotto?”
“Pennette. Con panna e
salsiccia”
“… Viziato”
Dopo pranzo
(inutile dire chi aveva cucinato), Nathan si spalmò sul comodo sofà del
salottino e accese il televisore lcd, per cercare di passare in modo indolore
quel noiosissimo pomeriggio.
Ad un certo punto sentì Neil raggiungerlo a grandi
falcate dalla sua camera e, quando questo arrivò sulla soglia della stanza, lo
vide infagottato nel suo giubbotto con il solito vecchio zaino in
spalla.
“Vado in biblioteca, Nath. Perché non vieni anche tu? Si
studia molto bene” cercò di convincerlo il
ragazzo.
Due cerulei occhi si posarono su di lui, palesemente
annoiati.
“No, grazie”
“Intendi startene lì come un pesce lesso tutto il
pomeriggio?”
“Neil, perché cerchi di occupare inutilmente il ruolo di
mia madre?”
“Almeno chiama il tipo/a delle ripetizioni” propose
Neil, lanciandogli al volo la cornetta del
cordless.
Purtroppo Nathan non aveva scelta: l’amico, peggio di
una governante sovietica, stava là impalato e lui credeva fermamente che non si
sarebbe schiodato di lì, finché non avesse sentito con le sue orecchie chiamare
quel benedetto numero.
Così Nathan digitò i numeri che si era segnato sul
cellulare e attese.
“Pronto” disse una voce cupa e bassa dall’altro capo del
telefono. Sembrava quasi famigliare. A Nathan non piacque per nulla il
formicolio che avvertì propagarsi dalla base della testa fino alle
spalle.
“Ehm… Ciao… Io chiamo per le ripetizioni” spiegò, col
presentimento sempre più pulsante che avrebbe fatto meglio a terminare
immediatamente quella telefonata.
“Sì… quando vuoi fissare la prima?” chiese la voce, che
Nathan riconobbe appartenere ad una ragazza. Anche se non era del tutto
sicuro.
“Oggi sarebbe
l’ideale”
“Alle quattro. A casa mia. Via Selvino numero 19. Terzo
piano, a sinistra” spiegò sbrigativa la voce, come se all’improvviso avesse
avuto molta fretta.
Non gli diede nemmeno il tempo di dire qualcosa, che
aveva buttato giù la cornetta e Nathan si ritrovò perplesso, con il cordless
ancora sollevato all’altezza dell’orecchio, mentre questo non smetteva di
produrre un fastidioso tu.tu.tu.tu…
“Tutto ok?” chiese Neil, che aveva seguito la breve
scenetta.
“Non è un ragazzo brutto brufoloso e puzzolente, questo
è certo” disse l’altro dopo alcuni secondi di
silenzio.
“Meglio se è una
ragaz…”
“In compenso è una ragazza strana, cupa e acida” replicò
Nathan, ripresosi dallo stato catalettico.
Neil rise di gusto, prima di salutarlo e uscire di casa,
lasciandolo sul divano, ancora scombussolato per essere stato trattato in quel
modo da una sconosciuta.
Lui, Nathan Mc Quinn, non era abituato ad essere
trattato così.
Da nessuno.
Durante l’ora seguente, il ragazzo, frustrato più che
mai, dormì sul divano, ma il suo non fu un buon sonno ristoratore, così quando
si svegliò alle quattro meno venti era ancor più scontroso di
prima.
Resosi conto dell’ora, andò velocemente in bagno a
rinfrescarsi un po’. Dopo cinque minuti, uscì quasi correndo dall’appartamento,
con in mano le chiavi della Mercedes e il giubbotto di
pelle.
Scapicollò per le scale e a momenti fece cadere la
vecchia signora del piano di sotto.
Inforcò i Rayban e saltò sul sedile della sua auto:
partì con uno scatto rabbioso e la Mercedes schizzò in
avanti.
Era maledettamente in ritardo.
Inoltre, proprio come se la sfiga ce l’avesse con lui
quel giorno, si rese conto che via Selvino era dall’altro capo della città,
lontana dal centro, in uno di quei quartieri cosiddetti “poco
raccomandabili”.
Sperò vivamente di trovare ancora tutta intera la sua
bella auto, una volta finita la ripetizione.
Se ci mise quasi venti minuti per arrivare nella via
giusta, in compenso identificò subito il numero 19: un orribile palazzo
rozzissimo e ultracentenario svettava tra case grigiastre e decadenti come un
pugno in un occhio.
O-mio-dio, pensò Nathan, schifato oltre ogni
dire.
Parcheggiò l’auto davanti al condominio e la lasciò a
malincuore.
Si inoltrò nel giardino attraverso un tracciato di terra
battuta, costeggiato da erba alta, che nessuno sembrava aver tagliato da secoli.
Qua e là, notò sacchi d’ immondizia abbandonati, vecchie ruote e alcuni bidoni
di metallo arrugginito.
Un vero tugurio,
pensò.
Il palazzo non aveva nemmeno il portone d’ingresso, così
Nathan entrò valicando una soglia vuota. Il suo umore non migliorò affatto:
dentro era come fuori, se non peggio. C’erano graffiti ovunque e spazzatura agli
angoli. Un odore nauseabondo di marcio e di piscio veniva da quei cumuli
schifosi.
Nathan si tappò il naso e si avviò veloce lungo la rampa
di scale, dato che l’ascensore naturalmente era guasto. Salendo notò disgustato
qualche scarafaggio schizzare da un lato all’altro dei
pianerottoli.
Finalmente arrivò davanti alla porta consunta e
scolorita del terzo piano, a sinistra. Non c’era il campanello, così
bussò.
Mentre attendeva che qualcuno gli aprisse, si ritrovò a
pensare per quale motivo una ragazza (no, dico, una ragazza!) avesse deciso di
vivere in un posto così disgustoso e… poco igienico. E sicuramente pieno di
gente malfamata.
E i suoi genitori? Come potevano permetterle di stare in
quella topaia? Non amavano la loro figlia?
Nathan si stava trastullando con quei pensieri, dettati
più che altro dalla curiosità (di certo non per bontà d’animo), quando un rumore
secco proruppe dall’altra parte della porta. Una serratura era stata fatta
scattare.
Un secondo dopo, l’uscio si aprì lentamente e sulla
soglia apparve la figura snella di una ragazza, vestita con un maglia nera
aderente che le arrivava sopra le ginocchia.
Nathan avrebbe potuto anche apprezzare la mise
della sconosciuta, se questa non fosse stata proprio una
sconosciuta.
Due occhi neri come la notte affondarono nelle sue iridi
cerulee, facendolo quasi gelare dalla
sorpresa.
“Sei in ritardo” disse Fay, con voce sottile e
cupa.
Note personali:
Che dire? I commenti sono molto graditi, anche perchè se
la fic non piace, non perdo nemmeno tempo a continuare. Spero commenterete in
tanti! Ah, il personaggio Neil è stato venduto a Urdi, la mia meravigliosa beta,
che ringrazio come sempre!!!