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Autore: giuliahoran249    01/10/2013    0 recensioni
Violet, per gli amici Lilo, è una ragazza di 19 anni che, a seguito di un incidente, ha perso la memoria e si ritrova spaesata in un mondo che non le appartiene più: non riconosce la sua migliore amica e tantomeno i suoi peggior nemici; deve stare attenta a tutto, ormai: agli alcolici, alle emozioni e soprattutto ai ricordi, che saranno prorompenti durante il corso di tutta la vicenda.
Grazie a Charlotte, la sua migliore amica, farà (nuove) amicizie – come si vedrà, in passato era una ragazza molto sola – e, quando poi farà la conoscenza di Niall, scoprirà il mondo dell'amore e delle piccole cose che riescono sempre a rendere migliore la vita di tutti i giorni.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Louis Tomlinson, Niall Horan, Zayn Malik
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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«Ciao Lilo, finalmente ti sei svegliata! Ti senti bene?» una lucina perspicace puntata nei miei occhi mi costrinse a sbattere le palpebre più di una volta, mentre una donna dall’aria allegra mi scrutava dietro ad una mascherina verdastra. Riuscivo ad intravedere solo i suoi occhi – di un azzurro brillante – e qualche ricciolo castano che spuntava dalla cuffietta posta sul suo capo. «Ops, perdonami, non mi sono ancora presentata» si diede un colpetto sulla fronte. «Io sono Madison Bolton, il medico che si sta occupando di te. Invece tu sei Violet Stoner, giusto? E per gli amici Lilo» sorrise con aria gentile e simpatica. Avrà avuto trentacinque, al massimo quarant’anni; aveva giusto una rughetta sul viso, forse due. Una a definire la bocca, e l’altra, decisamente meno evidente, le espressioni della fronte. Mentre esaminavo il suo viso, mi resi conto che probabilmente avrei dovuto rispondere alla sua domanda, anche se non sapevo come. Mi aveva chiesto di una certa Lola, Lila, qualcosa del genere, ma la verità era che non conoscevo nessuna ragazza con un nome simile. «Potrebbe ripetere, per cortesia? Mi scusi» arrossii cercando di divagare; dopotutto potevo aver capito male i nomi, o non sentito bene. «Ti chiami Violet, non è così?» la donna assunse un’aria leggermente preoccupata. «Io… io non lo so» mi decisi a dire, e nel frattempo un forte giramento di testa mi costrinse a chiudere gli occhi e a portare le mani sulle tempie. «Rimani qui, piccola» affermò con aria decisa la dottoressa. «Devi riguardarti, e grazie a qualche medicinale starai meglio; vedrai che… beh, che ricorderai presto tutto. Adesso vado a parlare con i tuoi genitori, ti mando un’infermiera, eh?» feci per rispondere, ma neanche aprii la bocca che la Bolton si era dileguata in fretta: era una domanda retorica, e io non avevo afferrato. Abbassai distrattamente lo sguardo sulle mie mani, decisa ad osservare le tante scanalature poco chiare e regolari, e solo al terzo solco mi accorsi non solo che il giramento di capo era passato, ma anche che una ragazza giovanissima – sui vent’anni – era di fronte a me intenta a sventolare una mano davanti al mio viso. «Io mi chiamo Rosie» disse con garbo. «Tu devi essere Viol… ops, scusa. La dottoressa mi ha detto che non devo parlarne… ehm, come ti senti?» cercò di rimediare alla gaffe, un po’ imbarazzata e rossa in viso. «Adesso meglio, grazie. Comunque si, pare che io sia Violet, o qualcosa del genere… ma non ricordo niente… tu ne sai qualcosa, non è vero?». Rosie si grattò la fronte sovrastata dalla folta capigliatura bionda raccolta in uno chignon, poi mugugnò: «Beh, ecco, in realtà io non…». «Ti prego» la interruppi. «È una sensazione stranissima, non so chi sono, né ricordo il mio aspetto… aiutami» allargai la bocca in quello che doveva assomigliare ad un sorriso, e Rosie cadde vittima del mio carisma. «E va bene. Il tuo nome è Violet, ma tutti ti chiamano Lilo, hai diciannove anni e sei nata e vivi a Londra; sei… ehm, castana, immagino, ma i tuoi capelli sono rasati quasi completamente a zero» sorrise impacciata, mentre io corsi con le mani sulla mia nuca tosata a mo’ di pecorella. Era proprio vero, non avevo uno straccio di capello. Che tatto questa ragazza. Facevo la chemioterapia e me lo diceva con quella tale noncuranza… «Sono malata? Ho un tumore, vero?» mi affrettai a chiedere. Rosie sembrò sorpresa della mia domanda, e anche lei si sbrigò a rispondere. «Oh, no, perdonami. Mi sono espressa male. Non… ecco, non sei malata: l’idea di raparti la testa l’hai avuta tu…» mi scappò un ‘oh’ sorpreso, e mi pentii subito di aver pensato di essere malata e di avere offeso delle persone gravemente e veramente sfortunate. «In ogni caso» continuò l’infermiera. «Quando sei arrivata in ospedale eri conciata piuttosto male, poverina: avevi varie contusioni sul corpo e una più grave alla testa… hai avuto una commozione cerebrale, ed è molto probabilmente questa la causa della tua – momentanea – perdita della memoria» sorrise stanca. «Avevi un piercing al naso e uno sul sopracciglio… destro, se non sbaglio» continuò studiando entrambe le mie palpebre. «Abbiamo dovuto rimuoverli, mi dispiace» abbassò lo sguardo, quasi volesse scusarsi. «E tatuaggi?» chiesi subito dopo in preda all’eccitazione. «Ne ho?». «Uno soltanto, sulla spalla destra» sorrise. «Rappresenta una…». «Una viola del pensiero» la bloccai distrattamente, un ricordo negli occhi. Tornai a fissarla: «Non è così?». Rosie sorrise e mi fece i complimenti per il progresso, poi aggiunse: «In ogni caso, ne abbiamo di specchi: puoi andarti a guardare, se vuoi». Un brivido di adrenalina mi percorse la schiena: non ricordavo nulla del mio passato – se non quel tattoo – ma ero certa di non aver mai provato una sensazione simile. Senza neanche pensarci scesi dal lettino d’ospedale, mentre la ragazza bionda mi dava una mano con i piedi doloranti e la testa ballerina; dopo qualche metro, ad alcuni passi di distanza dallo specchio, Rosie mi fece un occhietto complice al quale non persi tempo ad annuire: dopo poco, mi ritrovai di fronte ad una ragazza stranissima, la più strana che avessi mai visto. Aveva dei capelli rasati, quasi invisibili, ai lati della nuca e un ciuffo molto folto e indecente di un rosso scolorito – tendente al rosa – nel mezzo; le sopracciglia e l’iride erano di un castano chiaro, e si intravedevano sul lato destro un paio di buchini rossastri – la conferma del primo piercing. Lo sguardo corse allora verso la narice sinistra, dove un altro anello aveva lasciato il posto a un altrettanto buchino arrossato. Senza esitare, continuai ad osservare quella ragazza dall’aria maschile, proseguendo in basso, verso il seno – di sicuro una seconda piena – e la pancia piatta incorniciata da due braccia sottili e piene di cicatrici. Alla vista di quei taglietti, mi mancò il fiato. «Sono a causa dell’incidente?» domandai spaventata indicando gli sfregi sul mio corpo. «A dir la verità… non dovrei dirtelo, ma eri una ragazza autolesionista. Ed è per questo che…». Una voce severa ammonì le parole di Rosie: «Ehi, piantala!» la dottoressa Bolton aveva fatto irruzione nella stanza. «Puoi andare, ne riparliamo più tardi». Rosie annuì dispiaciuta e mi salutò con un sorriso, per poi dileguarsi. Ma cosa voleva dire? Davvero ero un’autolesionista? Non riuscivo a pensare alla ragazza nello specchio mentre si procurava ingenti – ed inutili! – ferite. Cos’aveva di sbagliato? Era un po’ particolare, certo, ma lei stessa aveva scelto quei capelli e i piercing, no? Di base mi sembrava una bella ragazza, i suoi lineamenti non erano duri, sotto la maschera di metallo e la cresta colorata. E poi, cosa c’entravano le lesioni sulle mie braccia con l’incidente? Di quale incidente si trattava? Ancora nessuno ne aveva fatto parola. Prima che potessi pensarci una virgola su, la voce della dottoressa Bolton, addolcitasi, mi richiamò all’ordine: «Allora tesoro, ci sono visite per te! Ti va di vedere qualcuno?». «Penso che… penso che mi farebbe piacere! Si, grazie, dottoressa». «Oh, chiamami pure Madison. Allora li faccio entrare. Ci sono tua mamma, tuo papà, una tua amica e… un amico della tua amica, qualcosa del genere» rise di gusto ed uscì dalla stanza, in cui dopo pochi istanti comparvero una donna e un uomo di mezz’età, nei quali riconobbi molti dei lineamenti della ragazza nello specchio – il viso tondeggiante e il corpo esile della donna, e il naso fino dell’uomo, per elencarne qualcuno. Subito dopo entrò una ragazza minuta e dall’aria molto simpatica, i capelli rossi fino alla spalla e le lentiggini a coprire quasi interamente il volto. La donna – mia madre?! – piangeva, l’uomo – mio padre?! – era rimasto in un angoletto, mentre la ragazza corse ad abbracciarmi. «Allora, Lilo, come stai? Ricordi chi sono io? Charlotte! Ma tu mi hai sempre chiamato Lottie… questo lo sai, vero? Oh, devi essere proprio stanca, hai un visetto…!» non riuscii a proferire parola, mi limitai a sorridere e a sbattere ripetutamente le ciglia. «Lilo, come stai?» chiese mia madre, apparentemente sopravvissuta ai singhiozzi. «Bene… credo, grazie. Scusatemi, ho solo qualche flash di voi, non ricordo bene chi siete… mi dispiace, non sono molto collaborativa, ma ecco, non capita tutti i giorni di perdere la memoria…». «Oh» mormorò mio padre. «Non ti ho mai vista così… così…». «Loquace» pronunciarono all’unisono i miei genitori, ed io sorrisi. «Ad ogni modo, la dott… Madison mi ha detto che avrebbe parlato con voi! Posso sapere cosa vi ha riferito, per piacere?» chiesi con tutta la gentilezza possibile, accennando dei sorrisi. Dopotutto, mi sembrava il minimo essere cortese con degli sconosciuti. «L’incidente… beh, dovrai cercare di ricordarlo tu, tesoro» sussurrò la donna. «Per il resto… nel giro di qualche mese, al massimo un anno, ricorderai tutto. Non è vero, caro?» oh, due genitori che si chiamano ‘cara’ e ‘caro’ a vicenda, che buffo, pensai. Mio padre sorrise. «Ma… quel povero ragazzo, là fuori? Su, Lottie, fallo entrare! Non sta bene lasciarlo lì da solo!» già, il ragazzo. Me ne ero completamente dimenticata. «Ma se è lui che non vuole entrare! Prima ha detto che non vuole disturbare, che magari Lilo ha bisogno di riposarsi e che non vuole intromettersi nei legami di famiglia…!» Lottie mise le mani sui fianchi snelli. Poi, quando vide che nessuno le rispose, si decise a chiamare il suo ‘amico, o qualcosa del genere’, come aveva detto Madison. «Niall, dai, vieni. Non ti mangia nessuno ed hai il consenso di Violet. Non è vero?» mi fece l’occhietto. Allora, dalla porta fece capolino un ragazzo biondo, dagli occhi azzurri e l’espressione tenera. «È… è permesso?» sorrisi in segno di assenso. «Io sono Niall, il cugino di Lottie. Mi ha chiesto di accompagnarla in ospedale… non l’hanno fatta salire sull’ambulanza e…» Lottie sussurrò seccata il nome del cugino, che si riprese subito. «Ecco, insomma… piacere!» abbozzò un sorriso entrando nella stanza. «E… oh!» uscì di nuovo per poi ritornare in fretta, questa volta con un mazzolino di viole. «Queste sono per te, Lottie mi ha detto subito che ti chiami Violet, così ho pensato… insomma… ti auguro di guarire presto!» si avvicinò e mi porse i fiori colorati. «Grazie mille, Niall!» sussurrai. I nostri sguardi si incrociarono, e per un attimo dimenticai che il maschiaccio nello specchio, beh, ero io.
  
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