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Autore: _elanor_    12/04/2008    3 recensioni
La mia prima storia è dedicata a Lily, James, Severus, Sirius e Remus: delle loro vite ai tempi di Hogwarts. Questo è il primo capitolo, in cui vengono presentati i personaggi nell'arco della serata che precede la loro partenza per Hogwarts. Spero che vi piaccia quanto a me è piaciuto scriverla
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: James Potter, Lily Evans, Remus Lupin, Severus Piton, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Una lunga serata di attese

  1. Remus Lupin

   La stanza al piano di sopra della graziosa casetta di mattoni era piccola e completamente immersa nell’oscurità. Tutte le lampade e le candele erano state spente. Accanto alla porta c’era un grosso baule marrone, in cui erano stati riposti vestiti, libri, pergamene, inchiostri e tutto il necessario per la partenza del giorno dopo. In una piccola gabbia su un trespolo, una graziosa civetta dormiva pesantemente. Dal piano di sotto salivano l’inconfondibile profumo di arrosto e patate, e il brusio indistinto delle voci di due persone che parlavano tra di loro. Le tende della finestra sopra ad un letto erano aperte, lasciando entrare la luce argentea della luna, che aveva passato da due giorni il plenilunio.

   Disteso sul letto, un ragazzino di undici anni, gracile ed emaciato, dai capelli castani e con una profonda cicatrice sul viso, respirava con calma, assaporandosi la quiete della sua cameretta per l’ultima sera. Era ancora convalescente a causa delle brutte nottate appena passate, come accadeva ogni mese.

   Il suo sguardo cadde sul baule dall’altra parte della stanza, e si chiese se davvero stesse facendo la cosa giusta. L’indomani sarebbe partito per cominciare la sua formazione a Hogwarts, la rinomata Scuola di Magia e Stregoneria, che sarebbe durata sette anni. Ma se tutti i ragazzi, che come lui avrebbero frequentato il primo anno, in quel momento si stavano interrogando su quale casa avrebbero occupato dopo lo smistamento, i suoi pensieri erano invece di tutt’altro genere. Era terrorizzato dall’idea che qualcuno potesse venire a conoscenza del suo segreto. Dopotutto, non era certo una novità che la comunità magica non vedesse affatto di buon occhio i lupi mannari.

   Pensò che erano passati sei anni da quando era stato infettato, e la sua mente corse rapida a quella sera. Allora era solo un bambino di cinque anni, che si stava divertendo nel giardino della casa in campagna dei suoi nonni in una calda notte di luna piena. E senza alcun preavviso, dai cespugli era apparsa una creatura coperta di peli che in una frazione di secondo gli si era scaraventata addosso.

   Era straordinario come ancora ricordasse alla perfezione i dettagli e le sensazioni di quel momento: il nauseabondo odore della creatura di sudore rappreso e sangue fresco, la stretta delle mascelle sul suo piccolo torace che gli mozzavano il fiato, il calore del sangue che scorreva via dal suo corpo lacerato, l’alito rovente della bestia sulle sue ferite…

   Poi tutto era molto confuso nella sua mente, come i ricordi di un sogno sbiadito: un raggio di luce rossa sopra la sua testa… le lacrime disperate di sua madre… il soffitto bianco dell’ospedale San Mungo… una forte e indomabile rabbia che cresceva dentro di lui…

   E dopo quella notte la sua vita e quella dei suoi genitori non erano state più le stesse. I guaritori dissero che non c’era niente che si potesse fare a quel punto; che gli effetti del morso erano irreversibili, e che da allora sarebbe stato un licantropo. E da quella notte, ad ogni plenilunio, di sera veniva portato in cantina e rinchiuso lì fino alla mattina dopo, dove si risvegliava stanco e stremato, con i vestiti lacerati e coperto di graffi, senza ricordare nulla della notte passata.

   Odiava il suo stato di mannaro. Lo odiava a morte. Non aveva amici ed era estremamente riservato, perché sapeva che nessuno doveva venire a conoscenza del suo “problemino”. Spesso aveva desiderato con tutte le sue forze che quella notte non fosse sopravvissuto all’attacco, perché era meglio essere morti piuttosto che vivere in quella maniera.

   Anche i suoi genitori la pensavano così, ne era certo. Non perché gli avessero mai detto o fatto pesare in qualche modo il suo “problemino”, ma lo vedeva che erano stremati e sapeva che era così; lo percepiva da tante cose. Lo percepiva dai loro volti stanchi e invecchiati, da alcuni sguardi fugaci che coglieva, dalle lacrime di sua madre nel cuore della notte. L’aveva percepito quella mattina che era stato ritrovato fuori dalla cantina, addormentato nel pollaio completamente distrutto, coperto di piume di gallina. L’aveva percepito quando si era svegliato e aveva saputo che durante la notte sua madre era stata portata all’ospedale a causa di una ferita ad un braccio, della quale non gli avevano mai spiegato come se l’era procurata.

   E il giorno che arrivò la sua lettera per Hogwarts non fu affatto un giorno felice, come in realtà dovrebbe essere per ogni giovane mago. Sapeva già da tempo che non avrebbe frequentato e che sarebbe stato istruito a casa, perché era la soluzione più sicura per tutti. Tuttavia questo non gli impedì di provare una forte stretta allo stomaco mentre guardava suo padre che rispondeva al Preside, spiegando che il figlio non sarebbe partito.

   Quando poi, una settimana dopo, il Preside Albus Silente si presentò inaspettatamente alla porta di casa loro fu una vera sorpresa per tutti. Il Preside era un uomo anziano, dalla lunga barba argentata. Indossava una tonaca lilla con semplici ricami dorati, un mantello da viaggio viola e babbucce dorate. Sopra al naso, che sembrava rotto da tempo, un paio di occhiali a mezzaluna coprivano due vispi occhi di un azzurro-ghiaccio. L’uomo era venuto a chiedere spiegazioni sul motivo per il quale il ragazzo non avrebbe frequentato, e quando i suoi genitori, dopo un po’ di incertezza ed evidentemente irritati, dissero il perché della loro decisione, lui fece un leggero sorriso e disse:

   < Ma è soltanto questo che vi preoccupa? Be', in tal caso non c’è alcun motive per cui il ragazzo non dovrebbe essere istruito ad Hogwarts. Non è certo il primo licantropo che frequenta: in passato anche altri con il suo stesso problema sono stati ammessi, e la scuola ha garantito la massima sicurezza. Se temete per la sua incolumità e non volete che gli altri alunni sappiano della sua situazione lo posso capire, ma lasciate fare a me. Mi occuperò io di tutto, e vi garantisco che nessuno saprà niente; a meno che, è ovvio, non sia vostro figlio stesso a rivelarlo >.

   Poi si rivolse a lui e disse:

   < Allora pare che ci vedremo molto presto, ragazzo. Stai tranquillo, ti troverai benissimo a Hogwarts, tra ragazzi della tua età. E sono certo che ti farai ottimi amici >.

   Dopo di che salutò cordialmente la famiglia e uscì di casa, lasciando tutti perplessi.

   I genitori stettero alcuni giorni a riflettere sul da farsi, e infine decisero di lasciarlo partire. Così il giorno seguente, lui che non era quasi mai neanche uscito di casa senza avere almeno uno dei suoi genitori accanto, sarebbe partito per stare lontano un anno. E la cosa non lo entusiasmava neanche un po’. Da una parte era felice, perché tutti sanno che la scuola di Hogwarts è la migliore che ci sia per formare un mago alla perfezione, specie da quando Albus Silente era stato eletto Preside. Ma dall’atra era certo che non sarebbe stato affatto bene lì; sapeva che non si sarebbe fatto neanche un amico, e sperava con tutte le sue forze che nessuno mai venisse a conoscenza del suo “problemino”.

   < Remus, la cena è pronta >.

   La voce di sua madre lo scrollò dai suoi pensieri.

   < Arrivo >.

   Scese dal letto. Dalla finestra si vedeva benissimo l’opale imperfetto della luna. Remus stette un attimo a guardarla, come in segno di sfida. Poi chiuse le tende con uno strattone e corse fuori dalla camera.

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  1. James Potter

   I Potter vivevano a Godric’s Hollow da molte generazioni; talmente tante, che nemmeno loro avrebbero saputo dire quante. Erano una tranquilla e benevola famiglia di maghi, che amava la serenità e la pace. Malgrado vantassero una lunga genealogia di maghi e streghe nel loro passato, e fossero decisamente benestanti, la comunità magica non si era mai interessata a loro più del necessario; e la cosa era molto gradita ai Potter.

   Il signore e la signora Potter avevano un unico figlio, James, che era il loro orgoglio e la loro gioia più grande.

   Il ragazzo era venuto alla luce quando i suoi genitori erano già avanti con gli anni e si erano da tempo rassegnati all’idea di non avere un figlio. Perciò la sua nascita fu come ricevere un miracolo. Sin da bambino, James era stato coccolato e viziato più di quanto si potesse immaginare. Ogni desiderio del figlio era un ordine per gli amorevoli genitori; ogni suo più piccolo capriccio veniva esaudito.

   La camera di James era talmente colma di giocattoli e oggetti vari, che non si riusciva nemmeno a camminare lì dentro. Era il sogno di ogni piccolo mago. C’erano palle auto-rimbalzanti, fionde stregate, costruzioni che si assemblavano da sole, montagne di fumetti e riviste, sacchetti di gobbiglie, una riproduzione su scala di un campo da Quidditch con tanto di personaggi animati, tutti i pupazzi dei giocatori dei Cannoni di Chudley, la sua squadra preferita, un bellissimo manico di scopa… Aveva persino giocattoli babbani.

   Era decisamente un bambino molto viziato, e anche piuttosto dispettoso. Il suo passatempo preferito era andare in giro per il paese con i suoi amici e fare scherzi a chiunque. Il loro bersaglio prediletto era la signora Bathilda Bath, un’anziana maga in pensione che viveva non lontano da casa sua. Gliene facevano di tutti i colori, lui e i suoi amici. A volte d’estate, quando i ragazzi più grandi tornavano dalle scuole, passavano i pomeriggi a giocare a Quidditch in una zona isolata vicino al paese, per non farsi vedere dai babbani. Era un vero patito per il Quidditch, James, e se la cavava anche piuttosto bene.

   Aveva ormai undici anni, e i genitori non riuscivano a credere che il giorno dopo sarebbe partito per Hogwarts. La sola idea di separarsi dal loro piccolo li riempiva di tristezza.

   Lui invece si sentiva il ragazzo più felice del mondo, e non stava più nella pelle. Già dal giorno prima aveva preparato il grande baule in cui aveva sistemato dentro tutto il necessario ed il superfluo, lasciando fuori solo l’occorrente per il viaggio in treno, e lo aveva messo accanto alla porta d’ingresso, per non perdere tempo il mattino dopo. Aveva deciso di non portarsi alcun animale domestico, dato che secondo lui non era alla moda possederne uno. Aveva scelto con molta cura cosa indossare, prima di cambiarsi con l’uniforme, perché voleva fare una splendida impressione a tutti.

   Sarebbe finito nella casa di Grifondoro, ne era più che convinto. Già da due anni aveva attaccato nella parete della sua camera lo stemma con il leone in campo rosso-oro della casa di Godric Grifondoro, che aveva da poco scoperto essere nato proprio in quel paesino. E, inoltre, sua madre, suo padre e i suoi nonni erano tutti stati in quella casa durante la scuola. Sperava con tutto se stesso di entrare a far parte della squadra di Quidditch della casa, magari come battitore o, ancora meglio, come cercatore…

   Stava leggendo una rivista sui Cannoni di Chudley nel grazioso salotto di casa, con suo padre seduto a una scrivania a controllare le spese dell’ultimo mese e sua madre sprofondata in una poltrona a sferruzzare a maglia, quando il suono di una campanella proveniente dalla cucina annunciò l’ora di cena. I tre si diressero nella sala da pranzo. Passando accanto ad un antico specchio dalla cornice d’argento, James diede uno sguardo al suo riflesso: era magro, non molto alto, con gli occhi marroni nascosti da un paio di occhiali e indomabili capelli neri. Quei capelli sempre scompigliati erano l’unica cosa che non sopportava di se. Ci passò distrattamente una mano e andò a sedersi a tavola. Un elfo domestico dagli enormi occhi azzurri portò in tavola la cena.

   < Mamma, ma si mangia bene a Hogwarts? >

   < Oh, da quel che ricordo si mangia benissimo > rispose la madre con entusiasmo. < Il cibo viene smaterializzato dalle cucine direttamente sulle tavole nella Sala Grande. Ed è sempre ottimo ed abbondante >.

   James sorrise soddisfatto della risposta, e si gettò sulla sua zuppa, assaporandola a grandi bocconi.

   < Ma sei proprio sicuro di non voler portare Willow con te? > chiese suo padre.

   < Stai scherzando, pa’? > rispose un po’ irritato il ragazzo. < Con quel vecchio gufo farei di sicuro una figuraccia! Te l’ho già detto: portare degli animali non va di moda. E poi sarà più utile qui a casa, se vi andrà di scrivermi qualche lettera >.

   < Tesoro, mi raccomando, cerca di non combinare guari > disse sua madre, un po’ preoccupata. < Non fare dispetti agli altri, come al tuo solito. Anche oggi la signora Bath è venuta qui a lamentarsi perché hai fatto diventare il suo gatto arancione… >

   < Ma quello era solo uno scherzetto innocente, un modo simpatico per salutarla. E comunque, mamma, stai tranquilla. Sarò un angioletto > disse James, mettendo fine alla discussione, e abbassando la testa sul piatto per nascondere il sorriso beffardo che gli era apparso sul viso.

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  1. Lily Evans

   < Mi passi il sale, tesoro? >

   < Eccolo, cara >.

   < Mamma, c’è dell’altro polpettone? >

   < No, Petunia, mi spiace >.

   < Se vuoi puoi prenderne un po’ del mio, Tunia. A me non va più >.

   < No, grazie Lily >.

   < Perché non mangi, piccola? Sei nervosa per domani? >

   < Be’… in effetti… un po’ si. Insomma, non ho idea di quello che devo fare! Non so quasi niente del mondo dei maghi. Non so nemmeno come fare a raggiungere il binario nove e tre quarti per prendere il treno! >

   < Caro, in effetti è piuttosto strano. Voglio dire, non credo che esista un binario contrassegnato da questo numero alla stazione di Londra >.

   < Stai tranquilla, cara, sono certo che lo troveremo, in un modo o nell’altro. Hai visto, anche quando dovevamo andare in quel posto… Diagon Alley… per i libri e il resto; alla fine ce la siamo cavata, dopotutto >.

   < Ma si, hai ragione >.

   < Oh, mamma, sono così nervosa! Chissà come sarà una scuola per maghi e streghe? E i professori? E ce la farò a capire le lezioni? >

   < Piccola mia! Sono sicura che sarai la migliore di tutti. Ma ci pensi, caro? La nostra piccola Lily è una streghetta… Petunia, dove stai andando? >

   < In camera mia >.

   < Ma non hai finito… >

   < Non ho fame >.

   Lily seguì con lo sguardo sua sorella che usciva dalla sala da pranzo. Era già da un po’ che si comportava in modo strano. Si alzò anche lei dalla sedia ed andò a bussare alla camera di Petunia.

   < Tunia, sono io. Posso entrare? >

   < No Lily. Lasciami stare >.

   < Ma… io volevo solo… >

   < Sto bene, sto bene. Sono solo… un po’ stanca. Ci vediamo domani >.

   < Va bene… ‘Notte Tunia >.

   Lily andò in camera sua e si sedette sul letto. Era triste, perché sapeva che il motivo per cui sua sorella era così strana in quei giorni era la gelosia verso di lei; per non aver ricevuto una lettera come la sua.

   Infatti, ad agosto era arrivata una lettera per Lily. Era una lettera scritta su pergamena, con inchiostro verde. Diceva che lei era iscritta ad una scuola chiamata Hogwarts; una scuola per maghi e streghe. Inutile dire che la cosa lasciò tutta la famiglia senza parole. Era vero che a volte le capitavano cose bizzarre, insolite; ma non aveva mai neanche pensato di poter essere una strega. I maghi e le streghe erano un’invenzione, personaggi delle favole. Non persole reali!

   Si era poi ricordata di quello che le aveva detto più o meno un anno prima Severus Piton in una calda giornata di primavera.

   Severus era un ragazzino della sua età che viveva nello stesso paese. Era uno strano ragazzo, alto e magro, dall’andatura dinoccolata, sempre vestito con abiti vecchi e logori. Aveva i capelli neri, lunghi e tagliati male, la carnagione chiara e gli occhi scuri e lucenti come la pece. Un giorno si era avvicinato a lei mentre giocava nel parco con sua sorella, e le aveva detto che era da tempo che la osservava, e che il motivo per cui riusciva a fare certe cose strane era perché possedeva poteri magici, come lui. Petunia lo aveva trattato in malomodo, e aveva trascinato via la sorella. Da allora non si erano più parlati.

   Subito Lily era corsa a cercarlo, portandosi la lettera con sé, e quando lo trovò lui le disse che aveva ricevuto una lettera proprio come la sua. Allora la ragazza aveva insistito perché lui le dicesse tutto quello che sapeva su questa scuola e sulla magia. E, da quando i suoi genitori avevano acconsentito con esagerato entusiasmo a lasciarle frequentare la scuola, Lily aveva passato molto tempo in compagnia del nuovo amico, parlando del mondo dei maghi, delle loro vite, chiedendogli qualsiasi cosa le passasse per la mente.

   Quello sgraziato e taciturno ragazzino era diventato per lei un tramite per sapere più cose possibili sul mondo magico, ed il suo migliore amico.

   Sua sorella, però, non sopportava affatto Severus. E non soltanto lui. Non sopportava neanche l’idea di una scuola per maghi e streghe, o di avere una sorella che sapeva fare magie. Dal giorno che era arrivata la lettera per Hogwarts, al contrario dei suoi genitori, era diventata cupa e aggressiva nei suoi confronti.

   Solo il giorno prima Lily aveva capito che si trattava di gelosia nei suoi confronti. Infatti, Severus aveva trovato in camera di Petunia una lettera: era una risposta del preside di Hogwarts.

       Cara Petunia Evans.

Mi spiace dirti che purtroppo non ti è permesso frequentarela Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts.

So quanto deve essere doloroso, e anche alquanto seccante immagino, veder partire tua sorella Lily verso un mondo a voi sconosciuto (che ai tuoi occhi deve apparire così eccitante) e non poterne prendere parte.

Ma, al contrario di lei, tu non possiedi doti magiche, e quindi sarebbe inutile per te seguire delle lezioni dalle quali non saresti in grado di apprendere alcunché.

Mi auguro che questo non incrini il rapporto che hai con tua sorella. Credimi, è davvero molto importante andare d’accordo con i propri fratelli e sorelle.

Distinti saluti

Albus Silente          


   A quanto pareva, Tunia voleva partire per Hogwarts, e aveva scritto al preside perché le permettesse di farlo, il quale glielo aveva rifiutato.

   In fondo, poi, non era certo una novità che sua sorella desiderasse avere le capacità di Lily. Glielo aveva chiesto tante volte di insegnarle a far volare i boccioli di rosa, o a trasformare gli oggetti, o altri di quegli strani trucchi che a lei riuscivano così bene. Ma lei non ne era capace; quelle non erano cose che si potevano insegnare. Le riuscivano così, per caso, senza neanche capire come.

   Si sentiva così triste e impotente per sua sorella. Avrebbe tanto voluto che partisse con lei, ma non poteva fare nulla. Anche questo signor Silente diceva che non si poteva.

   Si alzò dal letto e andò nel soggiorno al piano di sotto, dove i suoi genitori stavano guardando la televisione. Si sedette tra loro sul divano di pelle opaca e si lasciò coccolare come un cucciolo. Quella era l’ultima sera che passava in casa sua, almeno fino alle vacanze di Natale.

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  1. Sirius Black

   Pioveva a dirotto sul numero dodici di Grimmauld  Place. La casa di mattoni gridi, con il tetto scuro, appariva elegante e molto curata dall’esterno. Le uniche due finestre illuminate erano le grandi vetrate del salotto.

   Il salotto era amplio, non molto luminoso, arredato con mobili antichi ed elaborati. Al centro della stanza c’era un sontuoso tappeto, ricamato con motivi orientali sulle tonalità del verde, attorno al quale erano sistemati tre divani di velluto. Su una parete c’era un enorme camino di pietra grigia, sopra al quale era dipinto un antico stemma di famiglia. C’erano appesi ovunque molti quadri che ritraevano antenati e importanti personalità del passato. Su un’intera parete era appeso un enorme arazzo che raffigurava un grande albero dai rami contorti, e pieno di nomi. Era l’albero genealogico dei Black, un’antica e importante famiglia di maghi purosangue. L’arazzo partiva dai primi discendenti della dinastia, fino alle ultime generazioni.

   Nella casa vivevano Orion e Walburga Black con i loro due figli, Sirius e Regulus, una famiglia molto rinomata all’interno della comunità magica. La cosa che più contava per loro era mantenere la purezza del loro sangue, cioè non mischiarsi con coloro che, al contrario, discendevano da famiglie di Babbani. Non esisteva per loro un’umiliazione peggiore di un familiare che fraternizzasse con dei mezzosangue o, peggio ancora, con dei babbani. Coloro che non possedevano poteri magici erano inferiori e disprezzabili ai loro occhi; persone che non avevano nemmeno il diritto di esistere.

   In quel momento la famiglia era riunita nel salotto, in compagnia del fratello della signora Walburga, Cygnus, sua moglie Druella e la minore delle loro figlie, Narcissa. I signori e le signore discutevano amabilmente sprofondati nei divani, mentre Narcissa intratteneva il cuginetto Regulus giocando agli scacchi dei maghi. L’unico che stava in disparte senza parlare con nessuno era Sirius. Se ne stava seduto in modo scomposto su un’imponente poltrona; i luminosi occhi grigi puntati sulle figure animate di una rivista di fumetti. I capelli neri come l’ebano, un po’ lunghi, gli finivano di continuo davanti agli occhi, e lui li spostava con un gesto pigro della mano.

   In realtà non prestava molta attenzione a quella lettura. Era solo un modo per non prendere parte alle conversazioni della famiglia. Si sentiva sempre fuoriposto quando stava in mezzo ai suoi parenti e familiari. Li trovava così insopportabili, sempre pronti com’erano a criticare tutti coloro che avevano nelle vene anche solo una goccia di sangue babbano.

   Sua madre, che gli lanciava sguardi fulminanti già da un po’, gli disse:

   < Sirius, ma insomma. Ti sembra educato startene lì a leggere quella roba, mentre qui ci sono ospiti? >

   Il ragazzo alzò lentamente gli occhi dal fumetto e li puntò su quelli blu scuro della madre.

   < Si, hai ragione, mamma. Dovrei fare conversazione > disse gentilmente. Poi si rivolse ai suoi zii, e con un sorriso amabile chiese < Allora, come sta mia cugina Andromeda? >

   Nella stanza calò un silenzio quasi irreale. I suoi genitori lo guardavano sbigottiti. Gli occhi degli zii, che erano diventati rossi come il fuoco in volto, erano puntati ostinatamente sull’elegante tappeto. Vide la cugina Narcissa stringere i pugni e tremare impercettibilmente, come scossa da un singhiozzo.

   Sua madre si alzò dal divano, imperiosa, e sibilò:

   < Ma cosa stai dicendo? >

   < Ho fatto solo una domanda. Che c’è di male? > chiese Sirius con falso stupore.

   < Sai benissimo che non è un argomento di cui parlare! > rispose la madre, e la sua voce assunse un timbro più acuto e irritato.

   < Perché, scusa? > continuò Sirius. < È tanto simpatica Dromeda! E Ted, suo mari… >

   < Adesso basta! > tuonò sua madre, esasperata. < Esci subito da questa stanza! Non voglio più vedere quel tuo viso impertinente fino a domani! >

   La stanza calò di nuovo nel silenzio. Tutti gli occhi erano puntati su di lui. Sirius si alzò dalla poltrona, senza distogliere lo sguardo da quello della madre. Buttò con un gesto teatrale la rivista a terra e, lentamente, uscì dal salotto. Si sedette sulle scale che portavano al piano superiore, soddisfatto di se stesso. Aveva raggiunto il suo scopo.

   Infatti, per lui era una questione fondamentale provocare ed irritare i suoi genitori, in ogni momento; e sapeva benissimo che tirare in ballo l’innominabile cugina traditrice del suo sangue avrebbe scatenato una forte reazione.

   Andromeda era la secondogenita dei suoi zii. Poco meno di un anno prima, la ragazza era scappata di casa per sposare Ted Tonks, un ragazzo con origini babbane di cui si era innamorata. Da allora la famiglia l’aveva ripudiata e l’argomento era diventato un tabù. Non veniva mai nominato il suo nome. Era stato perfino cancellato dall’arazzo nel soggiorno.

   Era proprio questo che Sirius detestava della sua famiglia: la tremenda ossessione per il sangue puro; il disprezzo e lo scherno per tutti coloro che erano babbani. Era cresciuto sentendosi ripetere che non doveva parlare con babbani e mezzosangue, perché loro erano inferiori, e non ne aveva mai capito il motivo. Disprezzava i suoi genitori, e disprezzava quanto loro i suoi parenti più stretti: la pensavano tutti allo stesso modo.

   E dopo la partenza di Andromeda li disprezzava ancora di più. Lei era l’unica dei suoi parenti che tollerava, l’unica con cui si trovasse in sintonia. Era stato un dolore enorme per lui la sua partenza. E non riusciva a capire come potessero due genitori ripudiare un figlio, e fingere che non fosse mai nemmeno esistito, per una cosa tanto sciocca. Che c’era di male a innamorarsi di un mezzosangue?

   Suo fratello Regulus uscì dalla sala.

   < Sei proprio un idiota, Sirius > gli disse. < Lo sai che non devi parlare di certe cose! Ma che ti gira per la testa certe volte? >

   < Non rompere, Reg. Tanto, anche tu la pensi come loro >.

   < Senti, fai un po’ come ti pare. Io me ne vado a letto >.

   Regulus era del tutto diverso da lui. Era il figlio perfetto, che non dava mai problemi, che faceva tutto come andava fatto, che rispettava i genitori. Era sempre stato quello più bravo, quello più buono… Era Regulus il figlio preferito, mentre Sirius era la pecora nera. Ma in diverse occasioni, Regulus gli aveva dato una mano per cavarsela coi suoi genitori in alcune delle sue bravate.

   Sirius non odiava suo fratello, ma non lo sopportava, perché anche lui aveva le stesse idee dei suoi genitori: l’assurda fissa per il sangue puro.

   Ma per sua fortuna, il giorno dopo sarebbe partito per Hogwarts, e la cosa lo rendeva immensamente felice. Non perché avrebbe imparato nuove tecniche e incantesimi. Né perché avrebbe conosciuto persone nuove. Non gli interessava neanche più di tanto sapere in che casa sarebbe finito, anche perché era quasi certo che sarebbe stato smistato a Serpeverde, come tutti i suoi parenti.

   La cosa che lo rendeva immensamente felice era passare tutto quel tempo lontano dai suoi genitori.

  

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  1. Severus Piton

   Severus era disteso nel suo letto tra le coperte di cotone, nella sua piccola e spoglia cameretta, rigirandosi di continuo da una parte e dall’altra. Era mezzanotte passata, ma per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a prendere sonno.

   I suoi genitori, nella stanza accanto, stavano di nuovo litigando. Sentiva benissimo le loro grida e le accuse che si lanciavano l’un l’altra. Ma non era questo che lo teneva sveglio. Quei due litigavano talmente spesso, che era diventato un’abitudine per lui quel baccano nel cuore della notte.

   Ciò che gli toglieva il sonno era l’eccitazione per il giorno dopo, quando sua madre lo avrebbe accompagnato alla stazione di King’s Cross a Londra, dove avrebbe preso il treno che lo avrebbe condotto ad Hogwarts; la sua futura nuova casa per i prossimi sette anni.

   Sognava quel giorno da talmente tanto tempo, che neanche lui avrebbe saputo dire quanto. Rappresentava ai suoi occhi una salvezza. Un rifugio lontano dai suoi genitori, pieno di persone come lui; di maghi e di streghe. Persone che lo avrebbero voluto per quello che era, che non lo avrebbero trattato da inferiore. Che gli avrebbero mostrato rispetto, al contrario di suo padre.

   E, finalmente, avrebbe finito di vedere i suoi genitori litigare di continuo. Era praticamente tutta la vita che assisteva, impotente, a quelle spiacevoli scene familiari.

   Suo padre e sua madre erano molto giovani quando si sposarono. Si erano conosciuti per caso a Londra, e pochi mesi dopo decisero d’impulso di unirsi in matrimonio. I primi anni del loro matrimonio erano passati felici e sereni, senza alcun problema.

   Fu due anni dopo, quando venne alla luce Severus, che le cose cominciarono a complicarsi. Il piccolo faceva accadere cose bizzarre attorno a se. Succedeva a volte che un giocattolo con cui stava giocando di botto si ingrandisse. Oppure che un pupazzo cambiasse colore o forma. Suo padre non capiva come questo potesse essere possibile; credeva che il figlio fosse indemoniato o qualcosa di simile.

   Fu allora inevitabile per sua madre, che fino ad allora aveva taciuto tutto al marito, raccontargli delle sue origini. Lei, come tutta la sua famiglia, possedeva poteri magici; era una strega. E il bambino aveva ereditato da lei queste capacità.

   La confessione della donna sconvolse profondamente suo marito. Da allora sua moglie ai suoi occhi era un mostro, una creatura orribile. Non faceva che rimproverarla e bistrattarla da mattina a sera. L’accusava di averlo traviato,  di averlo ingannato, di averlo legato a se con le sue fatture.

   E suo figlio, per lui non era altro che uno scherzo della natura, un essere ripugnante come la madre. Non si avvicinava mai a lui, né gli faceva una carezza ogni tanto, né lo guardava in faccia. Si comportava come se non fosse neanche suo figlio.

   Sua madre, dal canto suo, amava troppo quell’uomo per andarsene. Non riusciva neanche a pensare di separarsi da uno dei due. Preferiva subire le infamie del marito, piuttosto che abbandonarlo. Cercava di occuparsi meglio che poteva del figlio, ma era distrutta e depressa, e non riusciva a dargli l’amore di cui lui aveva bisogno.

   Severus era cresciuto nell’ombra delle discussioni domestiche. Era diventato un bambino taciturno e solitario, senza amici e con un’espressione perennemente triste sul volto. Gli venivano fatti indossare abiti vecchi e malconci, e i suoi capelli, neri come la pece, erano sempre scompigliati e troppo lunghi. I suoi coetanei lo schernivano per il suo aspetto ridicolo e trasandato. Era lo zimbello di tutti.

   Soffriva terribilmente, perché non capiva come mai suo padre si comportava così con lui; perché lo detestava tanto. Se per caso gli capitava di fare una delle sue “stranezze” cercava in tutti i modi di non farlo sapere a suo padre, che odiava quel genere di cose. Piangeva, chiuso in camera sua, chiedendosi che cosa avesse di sbagliato; perché proprio lui doveva essere così… strano e diverso dagli altri.

   Un giorno sua madre, per rincuorarlo, lo aveva portato in un posto chiamato Diagon Alley, a Londra. Severus si guardava incredulo intorno a sé: c’era di tutto in quel luogo. Era pieno di negozi che vendevano gli articoli più strani che avesse mai visto. In una via c’era un negozio che vendeva bacchette magiche. Fuori da un altro negozio erano esposti moltissimi tipi di calderoni, di tutte le dimensioni e materiali che si potessero immaginare.

   Seduti al tavolino di una gelateria, sua madre gli parlò dei suoi nonni. Gli disse che discendeva dalla famiglia Prince, una delle più antiche e nobili casate di maghi e streghe purosangue che ci fosse nel loro mondo; il mondo dei maghi. Gli disse che doveva essere orgoglioso dei suoi poteri, perché lo rendevano una persona speciale. A Severus si aprirono gli occhi su un mondo nuovo ed eccitante.

   Sua madre continuò, parlandogli del mondo magico, delle sue leggi, dei suoi doveri. Gli parlò della ‘Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts’, alla quale lui era iscritto dalla nascita, e che avrebbe frequentato quando avrebbe compiuto undici anni. Gli parlò delle quattro case, e di come tutta la sua famiglia fosse finita in quella di Serpeverde.

   Severus ascoltava rapito, e un nuovo orgoglio nasceva in lui. L’orgoglio di non essere un insulso normale Babbano come suo padre, ma un appartenente alla comunità magica. Voleva diventare un grande mago, e voleva riuscirci al più presto.

    Si fece comprare dalla madre dei libri di incantesimi per principianti, e passava tutto il suo tempo ad esercitarsi con semplici trucchi, usando la bacchetta della madre, e a ricreare pozioni, provocando sempre più le ire del padre. A sette anni riusciva già a fare incantesimi di un ragazzo di dodici anni.

   Non gli importava più se suo padre non gli dava attenzioni, o se i suoi litigavano per un giorno intero, o se gli altri ragazzi lo prendevano in giro. L’unica cosa che voleva era compiere presto undici anni per andare a Hogwarts.

   Poi un giorno, quando aveva da poco compiuto dieci anni, mentre passeggiava per il paese sentì un grido proveniente da un boschetto vicino. Corse a vedere chi aveva lanciato quell’urlo, e rimase a bocca aperta quando vide una ragazzina dai capelli rossi immobile a fissare un grosso ramo sospeso in aria sopra di lei. Quel ramo l’avrebbe certamente schiacciata, se non si fosse fermato a mezz’aria in quel modo. La ragazza indietreggiò lentamente, i grandi occhi verdi sempre puntati sul grosso ramo, che cadde a pochi centimetri dai suoi piedi. Poi, corse via spaventata, senza notare l’insolito ragazzo che la osservava.

   Severus era rimasto di sasso nello scoprire che Lily Evans, la ragazzina che viveva infondo alla strada, aveva poteri magici, come lui. Cominciò ad osservarla di nascosto, affezionandosi sempre di più a quella ragazza che aveva il suo stesso dono.

   Un giorno, prendendo un po’ di coraggio, si rivolse a lei mentre giocava nel parco pubblico con la sorella, Petunia, e le svelò che il motivo  per cui le accadeva di far succedere strane cose era perché era una strega. Ma la sua confessione non ebbe l’effetto desiderato: Petunia lo trattò male, e portò via con sé la sorella.

   Poi però, qualche mese prima, Lily era corsa da lui per confidargli di aver ricevuto una lettera per Hogwarts, e chiedendogli di parlarle del mondo dei maghi. E così era nata tra loro un’amicizia.

   Per la prima volta, Severus aveva un’amica, una persona con cui parlare, a cui confidare i suoi problemi, qualcuno che lo ascoltasse. E non avrebbe potuto desiderare una persona migliore. Lily era intelligente, dolce, simpatica. In sua compagnia stava passando le giornate più piacevoli della sua vita.

   Era felice, ed era certo che quella felicità sarebbe continuata ad Hogwarts, dove i due sarebbero andati l’indomani. Sperava che Lily e lui finissero nella stessa Casa per stare con lei più tempo possibile, magari a Serpeverde come i suoi parenti.

   Senza accorgersene le sue fantasie si confusero in delicati sogni, e lui si addormentò con una dolce e felice espressione sul magro e pallido viso.

  

 

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