Ed ecco a voi il secondo capitolo, che racconta il primo giorno di "convivenza" di Temari e Shikamaru. Comparirà anche Gaara, mentre Kankuro sarà lasciato in disparte e tornerà nel prossimo... (Deve dividersi la fine del capitolo con il fratello, quindi una volta l'uno e una volta l'altro) Dopo aver detto questo, vi lascio alla lettura.
Shikamaru, seduto sui talloni, guardò Temari, che dormiva accanto a lui. Si
agitava nel sonno, mormorando parole senza senso. Non gli era mai capitato di
pensare a lei come ad una persona in grado di perdere il controllo, piangere e
disperarsi. Eppure, era proprio quello che era successo. La sera prima, quando
aveva finito di illustrarle il suo piano, che la ragazza aveva approvato
incondizionatamente, era corsa in bagno. Aveva aperto l’acqua, e dopo un po’ il
ragazzo aveva sentito chiaramente dei singhiozzi soffocati.
Quando era
tornata, la kunoichi aveva gli occhi lucidi di pianto, ma lui aveva deciso di
ignorarlo.
Improvvisamente la giovane si rizzò a sedere, e si portò
istintivamente una mano sul volto. Lui distolse lo sguardo. Non aveva mai visto
Temari perdere il controllo, si sentiva a disagio ad osservarla.
Da uno
spiraglio sul soffitto, dove si trovava la botola, entrava un fascio di luce
chiara e della sabbia sottile.
“E’ giorno, Mendekouze.” la informò quando lei
si voltò a guardarlo.
“Lo so perfettamente.” replicò quella. “Ma avevi detto
che ci saremmo mossi di notte, se non sbaglio.”
“Sì, ma stavo pensando che
sarebbe troppo rischioso.” La giovane aggrottò le sopracciglia.
“E cosa vuoi
fare, allora?”
“Andare al villaggio. Tu sei la sorella del Kazekage e ti
conoscono tutti, ma io non sono nessuno; sono sicuro che passerò inosservato.”
spiegò. “Loro si aspettano che ci muoviamo di notte, perché tutti lo
farebbero.”
“E’ rischioso.” obiettò la ragazza, accigliata.
“Anche
penetrare nelle prigioni del Villaggio per liberare Gaara lo è. Però, se non
sbaglio, è tra i tuoi progetti, Mendekouze. E’ una seccatura enorme, preferirei
rimanere a dormire, ma ho un debito con te.” si alzò e si avvicinò alla
botola.
“Sei ferito.” gli ricordò Temari. “Cerca di non esagerare, e
soprattutto, cry-baby, non metterti nei guai. Nessuno ti verrà a salvare.” e
rimase ad osservarlo mentre, con una smorfia contrariata, apriva la botola e
usciva dal rifugio.
Shikamaru si guardò intorno. Era nel bel mezzo del deserto di Suna, come
Temari gli aveva spiegato, e, se ne rendeva conto solo in quel momento, non
aveva idea di dove fosse il Villaggio. Aguzzò la vista, cosa difficile sotto al
sole accecante di quel Paese, ma non gli sembrò di scorgere nulla di
particolarmente rilevante.
Fu tentato di tornare nel rifugio e chiedere
indicazioni a Temari, ma sicuramente la ragazza lo avrebbe deriso e sbeffeggiato
per l’eternità, una volta che quel disastro fosse passato. D’altra parte,
nonostante fossero passati quasi due anni, lo chiamava ancora ‘cry-baby’, anche
se, in effetti, il suo tono era molto diverso da quello che utilizzava tempo
prima.
Si incamminò verso sud, pregando che fosse la direzione giusta. Quando
si accorse che era in vista delle porte del Villaggio, rallentò il passo.
Procedeva lentamente, riflettendo.
Non aveva mai avuto, in tutta la sua
vita, un’idea tanto azzardata come quella che l’aveva invaso la sera prima, e
che l’aveva convinto ad esporre un piano decisamente folle a Temari, che, dal
canto suo, ancora sconvolta per le sorti dei due fratelli e incapace di
mantenere il pieno controllo di sé, aveva accettato.
Erano entrambi ninja
dotati di grande logica e astuzia, che non guastava, ma rimaneva il fatto che
erano due contro tutte le forze armate del Paese, che, a giudicare dal nuovo
regime, non si facevano scrupoli ad uccidere e torturare chiunque, in cambio di
una lauta ricompensa dai propri superiori.
Come avrebbero fatto, inoltre, se
fossero riusciti ad entrare nelle prigioni, a portare fuori Gaara? Nella
migliore delle ipotesi l’avrebbero trovato sfinito, forse affamato o ferito, ed
era troppo ovvio il fatto che sarebbero stati seguiti e che li avrebbero
attaccati.
Dubitava che Kankuro sarebbe riuscito ad aiutarli. Forse Konoha
poteva intervenire in campo diplomatico, ma cosa sarebbe successo all’Hokage se
le altre Potenze Ninja avessero scoperto che aveva dato ordine di assassinare il
Kazekage? A poco sarebbe servito spiegare che si trattava di un ribelle, che
sottometteva il popolo con il terrore e la violenza, che aveva sperperato il
denaro del Villaggio e che aveva deliberatamente corso il rischio di far
annientare tutto il Paese dichiarando guerra a quella che probabilmente era la
maggiore potenza militare. In molti Paesi era così.
Arrivò alle porte del
Villaggio, e una guardia gli corse incontro.
“Straniero! Che fai qui? Cosa
vuoi fare in questo Villaggio?” gli domandò. Shikamaru lo squadrò per un
istante.
“Straniero?” esclamò, indignato. “Vivo qui da più tempo di te, e hai
il coraggio di chiamarmi straniero? Fammi passare, il Kazekage mi ha fatto
chiamare e verrà a ringraziare te se arriverò in ritardo.” A quelle parole, la
guardia impallidì, e si fece da parte. Il ragazzo di Konoha non osò immaginare
le punizioni che erano riservate a quegli uomini.
S’incamminò nella parte
ovest del Villaggio.
Si avvicinò all’edificio delle carceri. Era per metà
sotterraneo; la parte che si vedeva era rivestita interamente di metallo, che
sicuramente rendeva l’interno troppo caldo per essere sopportato. C’era un’unica
apertura, una minuscola finestrella al livello del terreno.
La fissò per un
po’. Se si fosse avvicinato, le guardie che controllavano l’edificio l’avrebbero
fermato ed interrogato, e avrebbero scoperto che non era un abitante di Suna.
Tuttavia, se non avesse controllato... Forse quello era l’unico modo per
entrare. Forse quella era la chiave per la salvezza di Gaara.
C’erano due
guardie. Come poteva fare ad allontanarle entrambe? Si inginocchiò a terra,
mormorando “che seccatura”, e congiunse le mani, come era solito fare, per
pensare meglio.
Afferrò un kunai, e vi legò una carta bomba. Attento a non
farsi vedere, in quella zona sovraffollata del Villaggio, lo lanciò contro una
parete rocciosa. Dopo qualche istante, quella esplose. Le persona, per strada,
iniziarono a gridare. Le guardie si allontanarono correndo, gridando tra la
polvere, cercando chi avesse causato un disastro simile.
Shikamaru non si
lasciò scappare l’occasione. Si inginocchiò accanto a quella apertura, e guardò
all’interno delle prigioni.
Uomini, donne, bambini, tutti in un’unica stanza.
Erano sudati, sporchi, stremati; cadevano al suolo uno dopo l’altro, i bimbi
piangevano, qualcuno gridava. Si sforzò di cercare qualcosa che potesse
aiutarlo. All’improvviso, una figura lo fece sobbalzare. Un ragazzo con i
capelli rossi e le vesti strappate, accasciato a terra, stava immobile nella
parte più lontana della grande stanza.
Cercò di sporgersi un po’ per
distinguerlo meglio, ma era impossibile, con tutte quelle persone accalcate una
sull’altra.
Si allontanò dall’edificio quando realizzò che le guardie
sarebbero tornate di lì a poco. S’incamminò nuovamente verso il deserto, attento
a non farsi seguire.
Avrebbe dovuto dire a Temari quello che aveva visto?
Quel ragazzo poteva essere Gaara, ma se invece fosse stato qualcun altro?
Avrebbe avuto senso darle una falsa speranza? Ma se invece non fosse stata una
falsa speranza... Ma solo una ragione in più, una motivazione più
forte...
Incapace di trovare risposta ai suoi ragionamenti, arrivò davanti
alla botola. Si guardò attentamente intorno, cercò di tendere l’orecchio per
avvistare eventuali inseguitori, ma gli sembrava tutto tranquillo. Nell’oasi non
c’era nessuno, ed era circondato dal deserto. L’unico modo per seguirlo sarebbe
stato quello di rendersi invisibili, ma era pressoché certo che non esistesse
una tecnica simile.
Aprì lentamente la botola e si calò all’interno.
“Allora, cry-baby?” fece la voce di Temari da sotto alle coperte. “Scoperto
qualcosa di interessante?”
Shikamaru rimase zitto per un po’, pensieroso. Non
sapeva cosa fare.
La ragazza lo guardò. Le sembrava di sentire la mente del
giovane lavorare freneticamente. Cosa cercava di tenerle nascosto?
“Ho visto
all’interno delle carceri.” spiegò alla fine. “Ho visto un ragazzo che avrebbe
potuto assomigliare a Gaara.”
Lei scattò in piedi e gli si avvicinò,
scrutandolo, indagatrice.
“Era lui?” domandò in un sussurro. “Credi che fosse
lui?”
Shikamaru annuì.
“Credo di sì.”
“Come
stava?”
“...”
“Cry-baby...” il tono di lei si fece più
minaccioso.
“Male. Sembrava privo di sensi.”
Rimasero in silenzio.
Shikamaru osservò la ragazza, ma non aveva idea dello scompiglio che le aveva
creato nel cuore.
Lei si voltò, dandogli le spalle.
“Era ferito?” la voce le uscì più
tremolante di quanto avrebbe voluto, ma non era sicura che gliene
importasse.
“Non lo so.”
Batté con violenza il pugno contro la parete di
legno. Si sentiva arrabbiata, delusa, spaventata, preoccupata.
Se Kankuro non
fosse riuscito a farsi aiutare? Se l’Hokage avesse rifiutato una missione così
pericolosa, una missione che avrebbe potuto uccidere molti dei suoi ninja? Se
anche lui fosse rimasto vittima della violenza del nuovo Kazekage? Forse
l’avevano già catturato... E lei era lì, a fare nulla, a stare nascosta. A
rimanere protetta.
Era davvero ciò che le avevano insegnato? Una grande
kunoichi, c’era chi la riteneva la migliore del villaggio, eppure in quel
momento era rinchiusa sotto al deserto in attesa di farsi salvare. Come le
principesse di quelle storie sciocche che, da bambina, non le erano
piaciute.
Anche poche ore prima, aveva lasciato che fosse Shikamaru ad
avventurarsi al villaggio, che fosse lui a rischiare di farsi uccidere.
Non
era quello in cui credeva.
“Voglio andare al villaggio. Voglio andare subito
da Gaara.” disse, ostinandosi a non guardare il ninja di Konoha.
Avrebbe
voluto Kankuro accanto a lei. Si sentiva stranamente a disagio insieme a quel
ragazzo perennemente svogliato che, però, le aveva proposto di andare a salvare
suo fratello, e che aveva spontaneamente creato un piano d’azione.
“Non
possiamo andarci adesso.” replicò Shikamaru. “E’ giorno, e, come ti ho già
spiegato, ti noterebbero. Ci muoveremo di notte.”
La ragazza annuì, e si andò
a sedere in un angolo. Cinse le ginocchia con le braccia e vi affondò il volto,
immobile.
Shikamaru la fissò per un po’, indeciso sul da farsi.
Era quasi
certo che stesse piangendo, ma era altrettanto sicuro che una sola parola fuori
posto gli sarebbe costata la vita.
Cercò di concentrarsi. Cosa avrebbe fatto
un altro al suo posto? Se non avesse avuto davanti una ragazza terribilmente
orgogliosa e violenta, l’avrebbe consolata. Ignorò il fatto che Temari
rispondesse perfettamente a quella descrizione, e fece un passo in
avanti.
Alla fine, le si avvicinò cautamente e le si sedette accanto. Non era
sicuro che lei gliel’avrebbe permesso, ma provò lo stesso a posarle una mano
sulla spalla. Considerò un buon segno il fatto che lei non si fosse
ritratta.
“Andrà tutto bene...” le sussurrò dolcemente, accarezzandole la schiena,
scossa da singhiozzi. Lei non rispose, così il ragazzo decise di
continuare.
“Sono sicuro che Kankuro stia benissimo. Tra due giorni sarà a
Konoha, lì troverà qualcuno che lo aiuterà...”
Temari tirò su col naso, ma
non si mosse.
“Per quanto riguarda Gaara... lui è forte. Lo salveremo, lo
tireremo fuori di lì.” non trovò null’altro da dirle. Fare promesse che, lo
sapevano entrambi, non potevano essere mantenute, non era saggio né tanto meno
consolatorio. Si guardò intorno, cercando un’ispirazione che lo potesse aiutare,
inutilmente. Avrebbe voluto poter fare di più.
Non si sarebbe mai immaginato
di trovarsi in una situazione simile.
Di solito, nella loro squadra, era Ino
quella che piangeva. Il più delle volte per rabbia o frustrazione, ma
generalmente era Choji a consolarla. Glielo diceva sempre, il suo amico, che non
sapeva come comportarsi con le ragazze, soprattutto quelle in lacrime.
E
solo in quel momento si accorgeva di quanto fosse vero.
Aveva avuto
occasione di incontrare Temari solo poche volte, e gli aveva sempre dato
l’impressione di una ragazza forte e del tutto estranea al pianto e alla
disperazione.
Era stato molto stupido pensarlo. Avrebbe dovuto immaginarlo.
Quando Gaara, durante l’esame di selezione dei chunnin, gli aveva raccontato la
propria vita, non si era preoccupato di pensare a ciò che volesse significare
vivere accanto a lui. Forse, tra Gaara e i suoi fratelli, erano loro quelli che
avevano sofferto di più. D’altro canto, stavano a contatto con un bambino
psicolabile, con una potenza al di là della concezione umana, che provava
piacere nell’uccidere le persone. Erano cresciuti nel terrore di essere i
prossimi? Era per quello che si erano allontanati da lui, che avevano deciso di
abbandonarlo?
Mentre era immerso nei suoi pensieri, si accorse che Temari gli
si era poggiata addosso, ed ora piangeva con il volto premuto contro la sua
maglia. Gli sembrava di sentire la sua sofferenza, e avvertì una spiacevole
sensazione alla bocca dello stomaco.
Le cinse le spalle con un braccio, e la
strinse a sé. Con l’altra mano le carezzò i capelli ricci e spettinati,
lasciando che si sfogasse, che ritrovasse da sola l’autocontrollo.
Gli sembrava che fossero passate ore quando Temari si scostò da lui. Aveva
gli occhi rossi e gonfi, era pallida, tremava.
“Credo che sia quasi il
tramonto, Mendekouze.” la informò quando realizzò che era abbastanza tranquilla
per poter intavolare una conversazione sensata.
Lei annuì, incapace di
parlare.
“Andiamo, su, dobbiamo fare il girò più lungo se vogliamo passare
inosservati.” si diresse verso la botola, e lei lo seguì.
Uscirono dal rifugio, il volto colpito dall’aria fredda del deserto. Il sole
stava tramontando ad ovest, e le lunghe ombre delle rocce che proteggevano Suna
si stagliavano sulla sabbia rossastra.
Arrivarono fino ad una di queste,
lontani dalle porte del Villaggio. Si arrampicarono in silenzio fino in cima,
attenti a non farsi vedere né sentire dalle centinaia di guardie che
sorvegliavano l’ingresso.
Quando sentirono una di loro che si avvicinava, si
nascosero insieme in una stretta insenatura nella parete rocciosa. Immobili,
vicini, potevano sentire l’uno il respiro dell’altro, e a Shikamaru parve di
avvertire anche il cuore della ragazza, che batteva furiosamente.
Quando la
guardia se ne fu andata, camminarono lentamente fino alla porta del Villaggio.
Distrassero le sentinelle con una carta bomba, e riuscirono ad arrivare senza
intoppi fino alle carceri.
Shikamaru le indicò la finestrella da cui aveva visto il ragazzo che sembrava Gaara.
Temari si avvicinò cautamente, e guardò dentro. Un forte odore nauseabondo le
arrivò prepotente alle narici, facendole salire alla gola un conato di vomito.
Ignorò la nausea e continuò a cercare il proprio fratello.
Alla fine, lo
vide.
Sdraiato nella parte più lontana della stanza, circondato da alcune
donne che si stavano prendendo cura di lui, fissava il soffitto immobile. C’era
una macchia di sangue che si allargava intorno a lui, gli abiti erano inzuppati
del liquido scarlatto.
La ragazza chiuse gli occhi. Non era
possibile.
Gaara, il neonato con gli occhi azzurri; l’esperimento mal
riuscito del quarto Kazekage; il bambino che doveva essere ucciso; l’arma
segreta di Suna; il ninja più forte del Villaggio; il quinto Kazekage; suo
fratello minore, ridotto ad un ragazzino sanguinante, pallido come cenere,
immobile a terra.
Avrebbe voluto correre da lui, abbracciarlo, medicare le
sue ferite, invece era costretta ad osservarlo da una finestrella larga poco più
di dieci centimetri, che probabilmente era stata creata da qualche prigioniero e
che le guardie non avevano ritenuto abbastanza rischiosa perché meritasse di
essere chiusa.
Si allontanò dalla finestra, e guardò Shikamaru.
“Come possiamo fare?”
sussurrò.
“Ci verrà in mente qualcosa.” replicò il ragazzo. “Dovremmo
procurarci una pianta della prigione, però.”
“E anche cercare di capire
quando sono i momenti migliori per tentare di entrare. Perché suppongo che tu
non voglia tendere un’imboscata, vero?” aggiunse lei, inarcando un sopracciglio.
Le avevano sempre insegnato ad attaccare, sempre e comunque, per ottenere
qualcosa. Era stata semplicemente la sua indole a condurla sulla via del
ragionamento e della strategia, che a volte, però, non le pareva più così
efficace.
“Infatti. Sarebbe un suicidio. Le guardie sono molto più forti di
noi, e sono certo che non si farebbero problemi ad ammazzarci.”
“Sono entrata
nelle prigioni una volta soltanto.” rifletté la ragazza. “Le celle si trovano in
fondo a dei corridoi stretti, bui e bassi.”
“Un pessimo posto,
dunque.”
“Già. All’ingresso di ogni corridoio ricordo che c’erano delle
guardie.”
“Non ricordi altro?”
“La prigione è costruita su cinque piani,
di cui tre sotterranei, uno semi-sotterraneo e uno sotto al tetto.” recitò lei.
“L’ho studiato a scuola” spiegò, davanti allo sguardo interrogativo di
Shikamaru. “Però non so dove sia l’entrata.” aggiunse.
“Ci lavoreremo. Adesso
cerchiamo di capire quali sono i punti deboli di questo posto.”
Iniziarono a
osservare attentamente l’edificio. Shikamaru misurò lo spessore delle pareti,
Temari cercò dei punti meno controllati, ma senza successo.
L’unico accesso a
quell’edificio sembrava essere proprio quella minuscola finestrella.
“Se
facessimo saltare la parete, però, probabilmente crollerebbe tutto.” constatò il
ragazzo, sovrappensiero. “E non possiamo mica farci arrestare per andare dentro,
no... Che seccatura.” concluse, sedendosi a terra.
“Cry-baby...” la voce di
Temari non gli era mai sembrata così minacciosa. “Se ripeti ancora una volta
‘che seccatura’, io ti giuro che non rispondo più di me.” Si accoccolò accanto a
lui, e lo guardò.
Il giovane non rispose. Improvvisamente, l’unico pensiero
che il suo cervello sembrava essere in grado di formulare riguardava gli occhi
verdi di Temari, e sicuramente spiegarle che gli piaceva molto il modo in cui la
luce fioca della una si rifletteva nelle sue iridi, facendo brillare quel colore
così intenso, sarebbe stato senza dubbio il modo più semplice, veloce ed
efficace per perdere all’istante la facoltà di respirare.
Alla fine, però,
rifletté che in fondo non era necessario metterla al corrente dei suoi pensieri,
e che quindi poteva tranquillamente continuare a fantasticare.
La osservò
mentre si alzava, e nuovamente guardava in quella finestra.
L’unico modo per
avvicinarsi a suo fratello. Per lei era l’unica cosa che la spingeva a
continuare con quel piano folle, ma per lui? Che cosa aveva convinto Shikamaru a
impiegare le sue energie per aiutarla? Sospirò, ben consapevole della
risposta.
Il ricordo delle vecchia Temari, con quella scintilla maliziosa che le illuminava gli occhi
quando lo chiamava ‘cry-baby’; i suoi capelli ricci, stretti in quei quattro codini troppo ridicoli per non risultare semplicemente
perfetti, su di lei; il profumo della sua pelle, che sapeva di sabbia; il suo
carattere forte e deciso, che l’aveva aiutata a tenere insieme quella famiglia
caduta a pezzi, che l’aveva portata a sopravvivere alla solitudine, alla
tristezza, alla paura, ma che in quel momento non la stava aiutando.
Sembrava
che stesse lentamente cadendo a pezzi, che stesse lasciando crollare quella
maschera che si era costruita in quegli anni. Per quanto avrebbe potuto
sopportarlo? Quanto avrebbe resistito, prima di impazzire, di dover sfogare
tutti i sentimenti repressi da anni; la voglia di piangere, di gridare, di
essere consolata anche lei, per una volta? E lui, Shikamaru, sarebbe stato in
grado di rincuorarla, se ce ne fosse stato bisogno? Si era già dimostrato
incapace una volta...
Alla fine, giunse alla conclusione che l’unico modo per
aiutarla fosse liberare Gaara. Improvvisamente tutto gli sembrò incredibilmente
assurdo.
Dovevano agire la notte, e il tempo non sarebbe mai bastato per
elaborare un piano decente.
Si alzò.
Il sole sorgeva all’orizzonte.
Rimanevano soltanto sei giorni.
***
Gaara si lasciò cadere in ginocchio, stremato. Si piegò su sé stesso per il
dolore.
Un ennesimo pugno lo colpì alla testa, mandandolo a sbattere contro
il pavimento freddo con il volto. Una delle guardie lo prese per le braccia e lo
costrinse a mettersi nuovamente in piedi.
Il ragazzo barcollò, e puntò gli
occhi chiari su quelli neri della guardia, che lo afferrò per i capelli per
tenerlo fermo e lo colpì all’addome con un ginocchio.
La sabbia aveva smesso
ormai da un po’ di proteggerlo, e se ne stava immobile a terra, rossa di sangue.
Da quanto tempo era lì? Non ne aveva idea; non riusciva neppure a capire se
fosse giorno o notte.
Un ennesimo colpo al torace lo fece annaspare. Cadde a
terra, in ginocchio, mentre una guardia gli si avvicinava e con un calcio lo
costringeva a guardarlo.
“Ne hai abbastanza?” gli domandò. Gaara non rispose.
Sì, ne aveva abbastanza. Voleva andarsene da lì, voleva rivedere i suoi fratelli.
Nonostante fosse difficile ammetterlo, gli mancavano immensamente. Desiderava
sentire ancora la voce rassicurante di Temari, che prima gli parlava dolcemente
e poi lo sgridava perché doveva finire tutto ciò che aveva nel piatto; voleva
ancora sentire Kankuro frignare perché aveva rifiutato di mandarlo in missione a
Konoha, dove doveva incontrare una persona misteriosa di cui né lui né Temari
erano ancora riusciti a scoprire l’identità, o ricordargli che certo, aveva
avuto paura di lui in passato, ma che ora aveva capito di volergli bene; voleva
ancora sentirlo dire che dovevano recuperare il tempo perduto, mentre lavavano
insieme i pavimenti in seguito ad una delle numerose punizioni della
sorella.
Avrebbe fatto qualunque cosa per sentirli ancora quando lo
chiamavano “fratellino” solo per farlo innervosire... Se fosse uscito vivo di
lì, decise che non si sarebbe mai più arrabbiato per una sciocchezza simile. Che
lo chiamassero come preferivano, purché fossero insieme a lui.
Perché in
quel momento era solo, di nuovo, con il peso di una condanna a morte sulla
testa. Non gli importava più di tanto, per qualche strano motivo non aveva preso
in considerazione la possibilità di essere ucciso.
Non si era ancora del
tutto rassegnato all’idea che la sabbia non riusciva più a proteggerlo come un
tempo, nonostante fosse ancora un valido aiuto, per lui. Il chakra a
disposizione influiva sempre di più sul controllo di quell’elemento che per
tanti anni era stato scudo e arma, vita e morte.
“Dove sono i tuoi fratelli?”
il pugno arrivò veloce e preciso. Sentì un dolore acuto, e il sangue che dal
naso gli colava sul volto e sui vestiti.
“Da me non saprai niente.” replicò,
fissando il suo aguzzino, che emise un suono basso simile ad un ringhio. Chissà
quanto doveva essere frustrante, per lui, sentirsi ripetere la stessa frase da
ore, ad ogni colpo, ad ogni minaccia.
“Dove si sono nascosti?”
“Da me non
saprai niente.” Un altro colpo, allo stomaco.
“Va bene, fai a meno di
dirmelo. Ma sappi una cosa: quando li troveremo... e accadrà presto, vedrai...
li ammazzerò personalmente davanti a te. Anzi, tua sorella è una bella ragazza,
magari...”
“Stai zitto.” lo interruppe Gaara, preso da una collera
improvvisa. “Stai zitto.” ripeté, facendosi forza e raddrizzandosi.
Fissò il
soldato negli occhi, e per un momento a quell’uomo parve di vedere la stessa
scintilla di cattiveria che aveva imparato a riconoscere tanti anni prima in un
Gaara ancora bambino, quando ancora era agli ordini del Quarto
Kazekage.
Indietreggiò quando la sabbia, a terra, si sollevò, e con un guizzo
si scagliò contro di lui, mentre il ragazzo sembrava aver ripreso un po’ della
sua energia.
Fu colpito solo poche volte, prima che il giovane si accasciasse
a terra, privo di sensi.
Lo afferrò e lo trascinò fino alla cella dove lo
tenevano insieme agli altri prigionieri. Lo gettò all’interno, con le gambe che
ancora gli tremavano per la paura. Aveva davvero temuto che il ragazzo perdesse
il controllo.
Si allontanò, portandosi una mano sulla guancia, dove il
sangue rosso colava da un profondo taglio.
Gaara aprì gli occhi. Era a terra, vicino alla porta della cella.
Cercò
di respirare profondamente. Il caldo era insopportabile, e quando si portò una
mano sulla fronte la scoprì madida di sudore. Gli abiti intrisi di sangue gli si
erano appiccicati addosso, gli mancava l’aria, aveva sete.
Si passò la lingua
sulle labbra screpolate, guardando fuori da quella piccola finestrella che
costituiva l’unico contatto con il mondo esterno. Certo, i piedi dei passanti
non erano particolarmente interessanti né utili, ma quel pezzetto di cielo che
riusciva ad intravedere gli diceva, almeno, se fosse giorno o notte.
In quel
momento riusciva a scorgere persino la luna...
Gli sembrava di sentire, in
lontananza, la voce della sorella che diceva qualcosa riguardo alla missione,
chiamare “cry-baby”...
Chiuse gli occhi, aspettando che la fatica e il sonno
prendessero il sopravvento su di lui.
Le parole di Baki gli risuonarono nella
mente ancora una volta, come era successo per tutto il tempo in cui era stato
sotto tortura.
“Temari mi ha chiesto di dirti che ti tirerà fuori di
qui.”
Era seguito un attimo di silenzio.
“E che ti vuole
bene.”
Solo un sospiro, e tutto divenne nero.
Allora... quesito per i miei lettori: credete che io sia andata troppo OOC con Temari in questo capitolo? Se è così, fatemelo sapere, così provvederò ad aggiungere l'avvertimento.
Fatemi sapere cosa pensate di questo capitolo!
Baci,
rolly too