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Autore: Entreri    05/11/2013    6 recensioni
Le canzoni dicevano il cielo di inizio primavera non nascondesse la propria immensità e fu guardando quelle cerulee e ancor fredde altezze oltre la lama affilata che stava per piombare su di lui che Adikan si rese conto di stare per morire.
Le campagne militari contro i barbari sono la norma nel Sirenmat, ma quella del 1074 dopo la fondazione di Naska è diventata famosa per la seconda battaglia della Valle Chiusa. Verso questo evento, ignari dell'importanza che avrà per la storia e per le loro vite, si muovono i protagonisti del racconto, ciascuno con il proprio bagaglio di preoccupazioni, problemi, speranze e rancori: Agorwal con i suoi silenzi, Herrat con la propria lunga eperienza, Galoth con i demoni che cerca di placare e Adikan con i difetti che lo porteranno alla rovina.
Terza classificata al Contest "Quadri e Picche - Il contest delle sorprese" nella squadra difettosa.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Adikan


La luce del tramonto si rifletteva sulla neve donandole una sfumatura ambrata che feriva la vista con un'illusione di calore. Era un'immagine degna degli antichi epigrammi che il suo precettore aveva preteso imparasse a tradurre da bambino, ma Adikan trovava che la condensa del proprio respiro e lo sbuffare affaticato con cui il suo cavallo avanzava nella fanghiglia togliessero a quella visione ogni traccia di poesia. Neppure il silenzio ovattato delle sere d'inverno, rotto irrimediabilmente dal vociare imprecante di un'armata in marcia, poteva fare alcunché per rendere alla scena anche solo un sospiro di bellezza. Ad Adikan non importava, il lirismo era una sciocchezza per i poeti ed era certo che, quando avrebbero composto il poema della sua vittoria contro i barbari oltre le montagne, gli aedi sarebbero riusciti a tratteggiare anche quella faticosa avanzata invernale con un romanticismo laccato tale da far sospirare le fanciulle e sognare della guerra ai ragazzini; a lui bastava che ogni ora di marcia lo portasse più vicino al nemico da sconfiggere.

«Perché sogghigni, Adikan?»

Non esisteva nell'universo un suono che gli fosse odioso quanto la voce di suo fratello, rumorosa e profonda come il latrato di un cane di grossa taglia; non si voltò verso di lui, fissando con decisione la colonna in movimento dinnanzi a sé.

«Le persone educate non sogghignano, Galoth, sorridono. E salutano coloro a cui si accostano a cavallo.»

Se avesse provato a ridere con lo stesso abbandono di suo fratello in un pomeriggio di fine inverno, Adikan era certo che il freddo gli sarebbe penetrato nei polmoni, tagliente come una lama d'acciaio, eppure sapeva che voltandosi verso Galoth avrebbe visto dipinta sul suo volto quella gioia sfrontata per la quale i più gli si affezionavano stupidamente.

«Stimato fratello, Duca Herrat, vi prego di concedermi il piacere di cavalcare al vostro fianco.»

Erano le parole rispettose che avrebbe dovuto pronunciare in primo luogo, tuttavia Adikan non poté che cogliere nel modo meccanico con cui le scandì un eco della risata canzonatoria di poco prima. Strinse le briglie con fermezza e lanciò un'occhiata al Duca di Indekel che cavalcava silenzioso alla sua sinistra. Lo vide fissare suo fratello con distacco e sospetto, e si sentì per la prima volta affine a quel vassallo di suo padre tanto distante ed efficiente, che sembrava sempre rimproverare qualcosa con lo sguardo ai giovani con cui era chiamato a dividere il comando.

«Non può che essere un onore per me cavalcare, non con uno, ma con due figli del mio signore.»

I suoi occhi grigi contraddissero con veemenza le parole formali appena pronunciate e le sue pupille minuscole saettarono per un istante da Galoth ad Adikan, prima di tornare ad osservare con espressione seria le montagne innevate e la rapidità implacabile con cui venivano abbandonate dalla luce del sole. Il Duca non disse altro e, non sentendosi affatto obbligato a rispondere agli interrogativi di suo fratello, Adikan tacque a propria volta, contemplando annoiato il cielo terso con cui il crepuscolo prometteva una gelata notturna.

«Due carri sono affondati nel fango fino a un terzo della ruota. Terghil di Chilt e i suoi uomini stanno cercando di tirarli fuori, ma bloccano la colonna e i carri non si smuovono, non importa in quanti si inzaccherino fino ai capelli per spingerli. Se non rallentiamo, li lasceremo indietro.»

Adikan reputava facezie simili la parte peggiore del comando supremo di un'armata, nonché un segno inappellabile d'incapacità da parte dei suoi sottoposti: Galoth avrebbe dovuto risolvere la questione da solo, anche a costo di mettere al traino il suo prezioso cavallo da guerra, doveva sapere che rallentare era inaccettabile.

«Sono gli svantaggi di una marcia invernale fuori dal tracciato delle antiche strade.»

La voce del Duca Herrat era sferzante come il vento freddo delle sue montagne, dura nel criticare quanto nell'enunciare dati di fatto al punto che era difficile per Adikan distinguere la sua indifferenza dal suo biasimo. Quando aveva accolto le truppe di Usen e di Bongarten sulla sommità della collina dinnanzi a Indekel, non aveva nascosto il proprio stupore né per la decisione del Conte di condurre una campagna di fine inverno, né per quella di affidarne il comando al proprio primogenito; allo stesso modo durante il primo consiglio di guerra aveva messo apertamente in dubbio la decisione di Adikan di abbandonare la vecchia strada di Aodosse. Non aveva accettato nessuna delle sue argomentazioni, rifiutando di vedere come si trattasse di un percorso prevedibile e per di più concepito in tempo di pace e che tagliare per le strade estive li avrebbe portati più vicini al nemico. Si era, nondimeno, conformato al suo volere quando Adikan gli aveva assicurato, mentendo, che i suoi piani avevano ricevuto la completa approvazione del Conte. Non aveva criticato oltre la sua decisione, ma con ogni constatazione null'affatto stupita delle difficoltà cui andavano incontro sembrava ricordare implicitamente di averle predette e di essere rimasto inascoltato.

Adikan si era costretto ad ignorare quei commenti con la grazia superiore che s'addiceva al figlio di un Conte Elettore, così tirò le redini, placandosi nell'imporre la propria volontà al cavallo innervosito dalle asperità della strada.

Scorgere Agorwal avvicinarsi al trotto lo infastidì ulteriormente: la sua mascella squadrata era serrata con forza rabbiosa e la sua figura energica, resa ancor più imponente dalla voluminosa pelliccia che portava sulle spalle, non nascondeva una certa rigidezza che preannunciava complicazioni e impedimenti a non finire.

Non chinò il capo, né si degnò di sprecare fiato in frasi di circostanza e, prima di concentrarsi sulle sue parole, Adikan non poté fare a meno di domandarsi se non fossero stati gli anni passati come scudiero del padre di Agorwal nella dimora dei Bongarten a strappare a Galoth i pochi brandelli di buona educazione che avesse mai avuto.

«Si sono azzoppati tre cavalli. Il Marchese di Lorser è livido come il cinghiale del suo vessillo: ha messo gli uomini a spingere i carri e ha ordinato agli ufficiali di procedere a piedi.»

Adikan fu sul punto di rispondere e ricordare ad Agorwal che non era un messaggero, incaricato di riportare i problemi al proprio generale, ma un comandante con il compito di risolverli. Non disse nulla, tuttavia, perché vi era nello sguardo del suo futuro cognato un'esasperazione secca tale da scoraggiare qualsiasi replica scortese.

«I miei uomini sono stanchi, sta scendendo la notte e gli esploratori riportano che tra poche miglia saremo di nuovo in salita. C'è uno spiazzo dove potremmo montare tende e palizzate senza troppi fastidi.»

Il Duca di Indekel assentì impercettibilmente a quella velata richiesta di accamparsi.

«Questo permetterebbe al signore di Chilt di recuperare i carri con le provviste senza restare separato dal resto delle nostre forze.»

Erano ragioni accettabili e prudenti, ma erano anche quelle strategie prevedibili che avevano reso anno dopo anno la lotta ai barbari sempre più difficile. Avevano bisogno di essere oltre i confini del Sirenmat prima che le tribù si radunassero per le invasioni primaverili, altrimenti non sarebbero riusciti a conseguire una vittoria abbastanza significativa da prevenire una spedizione l'anno successivo. Era passato troppo tempo dall'ultima sconfitta davvero memorabile inflitta dai Conti del Sirenmat alle genti oltre le montagne, e, anche se nessuno sembrava ascoltarlo, Adikan sapeva con irremovibile certezza che era necessario agire arditamente e colpire con durezza.

«Intendo proseguire per alcune ore dopo l'imbrunire. Il freddo gelerà la strada e potremo affrontare la salita senza l'impedimento del fango.»

Galoth lo fissò sgranando i suoi grandi occhi scuri e Adikan lo guardò a sua volta, sfidandolo a dire qualcosa, a tradire, per il solo gusto di contraddirlo, l'audacia temeraria che gli aveva conquistato l'amore del loro padre. Sorrise, osservando il suo stupore di fronte alla dimostrazione che poteva competere con lui e batterlo sul suo stesso terreno.

«Naturalmente se i miei signori concordano. Sarebbe un peccato, tuttavia, sprecare il tempo risparmiato sino ad ora.»

Non erano d'accordo, Adikan lo sapeva, ma negli anni aveva imparato a perfezionare il tono suadente e falsamente conciliante con cui aveva pronunciato l'ultima affermazione; sapeva che aveva un retrogusto di minaccia, una promessa di delazione e di ritorsione, che parlava della collera bruciante di suo padre e del rancore gelido di sua madre.

La scrollata di spalle noncurante con cui Galoth distolse lo sguardo portò sulla punta della lingua di Adikan il sapore dolce della vittoria.

«Come vuoi. Ma trova qualcun altro per dirlo al vecchio Terghil o giuro che questa volta gli mando la faccia quattro lame1 nel fango insieme a quel cazzo di carro.»

Lo disse ridendo, ma Adikan conosceva suo fratello abbastanza da sapere che, dietro la facciata di ironia bonaria da allegro amante dei bagordi, Galoth nascondeva a fatica una bestia violenta e iraconda non dissimile da quella che possedeva spesso il loro genitore. Non ebbe difficoltà ad immaginarlo trascinare giù da cavallo il signore di Chilt con le sue enormi mani, il volto arrossato dalla furia, le vene pulsanti sul collo taurino e fu tentato di mandarlo indietro a farsi un nemico e a mostrare ai soldati che lo idolatravano chi fosse davvero il loro beniamino. Agorwal, tuttavia, rispose prima che lui potesse risolversi, accostandosi a suo fratello con quell'amichevole confidenza che non aveva mai concesso a lui, il suo tono quello di un motteggio familiare e affettuoso.

«Preferisci riferire agli uomini che dovranno marciare ancora a lungo?»

«Qualcuno dovrà pur farlo.»

Non chiese il permesso di congedarsi, ma abbozzò un cenno con il capo mentre spronava il cavallo, mostrando per un istante un sorriso sghembo che Adikan sapeva non promettere niente di buono.

Partì al galoppo scivolando giù dalla sella solo per lanciarsi piroettando dall'altro lato del cavallo dopo aver toccato il suolo con i piedi: era una manovra difficile, delle staffette e dei portaordini, e mentre Galoth la ripeteva avanzando, Adikan si avvide che i soldati levavano gli occhi dal fango per osservare il proprio capitano dare spettacolo alla luce del tramonto.

Quando, afferrato l'arcione fra le mani, fece mezza capriola in avanti e posò la schiena sul collo del cavallo per levare le gambe in alto2, nell'aria gelida cominciarono a risuonare grida divertite e il nome di suo fratello venne scandito con un entusiasmo troppo simile all'amore perché Adikan potesse trattenersi dallo stringere i denti con rabbia. Sapeva che, una volta allontanatosi dal suo sguardo, avrebbe portato il destriero al trotto e annunciato il proseguire della marcia in piedi sulla sella, proclamando la sua comprensione per le fatiche dei propri sottoposti e promettendo riposo e ubriachezza per il prossimo bivacco.

«Questa l'ha imparata da Sorot, immagino.»

Adikan si voltò verso Agorwal, sorprendendolo nell'atto di ridere benevolmente delle manie di protagonismo di Galoth.

«Il figlio dell'imperatore? Non sapevo fossero amici.»

«Sono molto legati.»

Lo stupore del Duca di Indekel minacciava di essere per Adikan il proverbiale fiocco di neve che dà inizio alla valanga, ricordandogli per l'ennesima volta quanto quel rapporto favorisse Galoth nella lotta per la successione al seggio del Sirenmat.

«Sono più che legati. Se potessero si entrerebbero sottopelle l'un l'altro.»

L'espressione del Duca Herrat si mutò in una maschera d'orrore. Agorwal, al contrario, lo fissò soltanto, a lungo e in silenzio: era uno sguardo freddo, giudice, carico della pesantezza di un'accusa mai pronunciata ad alta voce eppure mai messa da parte. Adikan sorrise, senza sforzarsi di nascondere nella soddisfazione per la propria impunità un'implicita ammissione di colpevolezza.

Nessuno parlò per qualche tempo e ad Adikan parve che l'ombra delle montagne approfittasse del silenzio per colmare il passo con le tenebre dell'imbrunire.

«Vado a dare la notizia ai miei ufficiali. Vedrò cosa posso fare per il signore di Chilt lungo la strada.»

Il Duca li lasciò senza aggiungere altro, senza un cenno né un'indicazione di quando sarebbe tornato, e Adikan rimase da solo con Agorwal, ad aspettare che l'espressione di condanna con cui lo guardava andasse a sedimentarsi nel suo algido biasimo.

«Perché ami così poco tuo fratello, Adikan?»

La domanda lo colse alla sprovvista; nessuno l'aveva mai posta prima e la possibilità che qualcuno potesse non conoscere da sé la risposta gli parve ridicola, quasi come l'idea di dover giustificare la propria incapacità di provare affetto per Galoth. Non lo amava perché non vi era nulla da amare in lui, non vi era mai stato; il bambino che aveva ricevuto un nome solo quando tutti avevano imparato a non parlare di lui aveva distrutto la sua famiglia, il ragazzo che infrangeva tutte le regole senza curarsi delle conseguenze gli aveva rubato anche le briciole dell'amore di suo padre, il giovane uomo adorato dall'esercito e innamorato della sua promessa sposa era sempre a un passo dal rubargli quanto era suo di diritto. Solo degli stupidi avrebbero potuto amare Galoth, ma il mondo, Adikan aveva dovuto constatarlo amaramente sin dalla prima infanzia, era popolato da stolti.

«La vera domanda è perché voi tutti lo adoriate così tanto.»

Agorwal non gli rispose, ma Adikan non se ne curò, lasciando che i rumori dell'esercito in marcia nella notte si infiltrassero nel silenzio teso e ostile che era sceso fra loro.


1É una misura di lunghezza. Tre dita fanno una lama, nove lame fanno una mezza pertica.
1 dito: 2 cm

2Circa i dubbi che possono sorgere sulla fattibilità della cosa rimando a http://www.youtube.com/watch?v=h9tbGARJZVk&list=PLf9cuGUmFBZHd25v0br98JrsmdEuesHc9 da 0:54 in poi. 


Note dell'autrice:
Come avevo anticipato ad alcuni il contest a cui questa storia partecipa obbligava a "partire dalla fine" quindi siamo tornati indietro nel tempo rispetto al prologo. Spero che la cosa non vi destabilizzi troppo.
Ho inserito delle note, nonostante sia di solito contraria. Perché? La prima nota l'ho inserita perchè avevo già usato le lame come misure di lunghezza e ho pensato di esplicitare e non esiste un modo per paragonare ques'unità di misura al sistema metrico decimale all'interno della storia perchè all'interno della storia il sistema metrico decimale non esiste! La seconda ha lo scopo di documentare il fatto che non sto "sparando in alto" e anche condividere le figate che possono fare alcuni rievocatori storici.

Ho fatto io anche questo banner: ho dovuto fondere due immagini (perchè quella che sarebbe stata perfetta aveva un grande carro a vapore rosso al centro e dell'esercito in marcia che rovinava tutto). ed è stato faticoso.Non sono riuscita ad aggiungere una luce ambrata, quindi questo è l'imbrunire che abbiamo verso la fine del racconto e non il tramonto con cui inizia. Abbiate pietà e ditemi che è bello! 
   
 
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