Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: Val_Ser    12/11/2013    0 recensioni
Tre storie brevi si sviluppano autonomamente seguendo le tracce dei colori primari.
Ad ogni colore è assegnato un corrispettivo Pantone. Ad ogni colore si legano una o più vite.
Robin e il rosso ardente. Hugo e il blu che nasconde. Hiroshi e il giallo per crescere. Paesi e situazioni diversi, momenti della vita -interiore e non- segnati tutti da una cromia determinante.
Rosso - Pantone 192: "Ma, alla fine, Robin creava le tele, vendeva le tele, abbandonava le tele. Harriet, in qualche modo, era sua. Non la creava, non la vendeva, meno che mai l’avrebbe abbandonata: Harriet era l’unica cosa che fosse mai stata realmente, sentitamente sua."
Blu - Pantone 541: "«Chi lo dice? Non possiamo avere qualcosa in comune? Siamo amici, no?» «Le persone non diventano amiche perché odiano i gatti.» «Ma potrebbero, se odiassero i gatti insieme.»"
Giallo - Pantone 121: "Erano quei colori accesi, quei tagli provocanti. I reggiseni imbottiti, le calze autoreggenti, i rossetti dai toni opachi. Erano quelli la felicità."
[Rosso - Pantone 192 ha partecipato al contest In una valle di lacrime di gunslinger_]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Giallo 
Pantone 121

            A tredici anni, gli erano successe tre cose: una curiosa, una terribile e una inimmaginabile.
            Era nel cortile della sua scuola. I suoi amici avevano indossato la divisa sportiva e si stavano rincorrendo in palestra, lanciandosi una palla da basket senza troppa coordinazione. Hiro non aveva i vestiti adatti. “Dimenticati”. Bene, forse aveva preferito scordarli e rimanere fuori dal fabbricato di mattoni gialli. Si era seduto per terra, le spalle contro il muro, sperando di non sporcarsi i pantaloni neri. Aveva tirato fuori dallo zaino un libro e l’aveva aperto. Dopo mezz’ora, non aveva letto ancora una parola.
            Pochi metri avanti c’era l’istituto femminile Yukimura, separato dalla sua scuola solamente da aiuole basse ben potate e una rete metallica ormai tutta arrugginita.
            I ragazzi più grandi solitamente si appoggiavano con leggerezza a quel reticolato di metallo scrostato, parlando con le ragazze dall’altra parte e mandando loro, attraverso le fessure, bigliettini ripiegati. Hiro non aveva intenzione di alzarsi e fare qualcosa del genere, anche perché Aimi era intenta a parlare con le sue amiche.
            Le ragazze dello Yukimura erano strane. Era il periodo in cui cominciava a capire qualcosa del sesso, con qualche compagno avevano sfogliato delle riviste nei bagni, e anche se non gli era ancora ben chiaro tutto, sapeva che c’era bisogno di un uomo e di una donna. Però quando guardava quelle studentesse non poteva che storcere il naso. Dalla più piccola alla più grande, sembravano solo interessate a parlare tra loro, ridacchiare, ammiccare un po’ ai ragazzi della sua scuola e lanciare di tanto in tanto dei gridolini eccitati.
            Aimi l’aveva incrociata una volta alla fermata della metro, dopo l’uscita da scuola. Era intenta a sistemarsi le calze bianche che continuavano a scivolare. Cosa gliene importava, poi: le lezioni erano finite, poteva anche lasciare che cedessero per un paio di centimetri.
            Aimi si era accorta di essere guardata. Alcuni uomini in giacca e cravatta le rivolgevano sguardi brevi e all’apparenza freddi, ma lei si era voltata con grande naturalezza verso Hiro, come se lo conoscesse da sempre.
            «Ce l’hai una spilla da balia?»
            Hiro l’aveva guardata per un attimo senza capire. «Una spilla?»
            «Non vedi? Mi sa che si sono scucite.»
            Aimi continuava a tirarsi su le calze, senza prestare la minima attenzione agli sguardi allibiti che stava attirando. Non era molto educato fare una cosa del genere in pubblico. Hiro si era chiesto se sedendosi davanti a lei, in tutti quegli sbuffi di gonne e di calze, le avrebbe visto le mutande. La sua sorellastra leggeva un manga con una ragazza dalle mutande stampate a fragoline.
            Aimi si era alzata improvvisamente quando un vagone si era fermato davanti a lei, raccogliendo lo zaino da terra.
            «Ah, be’, ci penserò a casa.» Si era voltata verso Hiro, sorridendo. «Io sono Kimura Aimi.»
            «Tsukuda Hiroshi.» Hiro aveva balbettato ed era arrossito in maniera imbarazzante. Era una grande sfacciata, quella Kimura.
            «Lo so chi sei. Ci vediamo a scuola, Tsukuda!»
            Hiro l’aveva guardata salire sul vagone all’ultimo momento e scomparire. Scomparsa lei, scomparse le calze. Sospiro di sollievo.
            Da quel giorno, qualcuno disse a qualcun altro che disse ancora a qualcun altro che piaceva ad Aimi. Hiro, in un primo momento, era stato contento, poi non aveva avuto più occasione di parlarle. Era sempre per i fatti suoi o con le sue amiche. Non avrebbe saputo cosa dirle, figurarsi interrompere il corso della sua vita.
            Quella mattina, però, sembrava che Aimi fosse fatta per lui. Indossava degli scaldamuscoli rosa che le tracciavano il contorno sottilissimo dei polpacci. Nelle riviste, le donne che Hiro aveva visto avevano tutte un seno prorompente. Aimi aveva quasi le stesse forme di un ragazzo, ma ad Hiro non dispiaceva.
            «Sei in estasi da Shakespeare, Tsukuda?»
            Hiro alzò la testa verso Saito. Era un suo compagno di scuola, più grande di un paio d’anni. Uno di quelli che con le ragazze ci andava a parlare. Era amico della sua sorellastra e spesso veniva a trovarla a casa. Era simpatico, Saito, ma terribilmente imprevedibile.
            Saito si sedette accanto ad Hiro, tamponandosi i capelli con un asciugamano. Evidentemente la sua classe e quella di Hiro stavano improvvisando  una partita.
            «Non mi andava di fare ginnastica» disse Hiro brevemente, continuando a seguire Aimi con gli occhi, dimenticandosi di Amleto. Di tanto in tanto lei si girava verso di lui, sembrava volergli dire di avvicinarsi, poi una sua compagna la faceva ridere e lei continuava ad ignorarlo.
            «È per Kimura?» Era stato Saito uno dei primi a far circolare delle voci su di lei.
            Hiro scrollò le spalle, chiudendo il libro. «È carina.»
            «Tutte quelle dello Yukimura sono carine. Essendo solo femmine si influenzano tra loro, no? Quel genere di cose: vestiti, trucchi…»
            «A me non sembrano tutte uguali» mormorò Hiro, gli occhi bassi.
            «Perché ti piace Kimura. Hai occhi solo per lei, Tsukuda?»
            Hiro alzò le spalle di nuovo. «È un po’ strana. Qualche settimana fa era quasi mezza nuda in metro.»
            Saito rise di gusto e gli battè una mano sulla spalla. «Siamo già a questo punto? Non bisogna perdere tempo, allora. Vuoi che vada a parlarci?»
            Hiro lo guardò, indeciso sul da farsi. Ma sì, che male poteva fare. «Cosa le vuoi dire?»
            «Nulla, solo di parlare con te e che sei un ragazzo tanto carino.» Gli occhi di Saito brillavano e Hiro sorrise di riconoscenza. «Come hai detto che si chiama?»
            «Aimi, si chiama Aimi.»
            Saito si diresse verso la rete. Hiro sentiva il proprio cuore battere all’impazzata. Sarebbe stato bello parlare con Aimi di qualcosa. Era strana, ma non del tutto. Aveva i capelli liscissimi e setosi, ci avrebbe passato volentieri la mano per tutto un pomeriggio.
            Preso da queste considerazioni, ignorò quasi del tutto Saito ed Aimi che parlavano. Ad un certo punto Saito lo chiamò con ampi gesti delle braccia, mentre Aimi era totalmente nascosta da un cerchio di amiche. Il cuore di Hiro saltò un battito. Lasciò il libro a ridosso dei mattoni gialli e si diresse verso la rete.
            «Hiroshi!» esordì Aimi. Non l’aveva mai chiamato per nome, prima. In effetti, non si erano mai parlati per più di tre secondi, prima. Aveva le braccia dietro la schiena, sembrava così carina, una ragazzina degli anime che guardava la sera.
            «A-aimi» balbettò Hiro.
            «Saito mi ha detto tutto!»
            «Davvero?»
            «Certo. Quindi ti piace pensarmi nuda?»
            Saito e Hiro si guardarono. Impallidirono entrambi. Cosa? La bocca di Hiro era improvvisamente asciutta. Aimi sorrideva con gli occhi spalancati. Faceva quasi paura. Le sue amiche erano immobili dietro di lei, le braccia conserte.
            Hiro non sapeva cosa dire. Non aveva detto questo. Non… Saito? Perché l’aveva detto? «Aimi io… non… non so cosa…»
            «Per te, sono Kimura.»
            Improvvisamente, Aimi gli lanciò qualcosa che passò attraverso i grandi buchi della rete. Hiro sentì di colpo il contatto con qualcosa di  morbido e caldo. Si portò le mani al viso, togliendosi quella cosa dalla faccia. Un gruppetto di ragazzi si era radunato dietro di lui e rideva senza fermarsi.
            Hiro spalancò gli occhi quando si rese conto di cosa aveva in mano. Era un paio di mutande. Erano ancora calde.
            Aimi era pazza. Alzò lo sguardo verso di lei. Sembrava trionfante, la regina dello Yukimura. Riluceva anche nel gesto osceno che aveva appena compiuto.
            «Così ti puoi divertire la sera pensando a me, pervertito.»
            Saito sembrò sul punto di dire qualcosa alla ragazza ma dovette fare del suo meglio per non crollare a terra. Hiro gli aveva appena tirato un gancio nello stomaco, lasciandolo senza fiato. La mano sinistra stringeva ancora le mutandine. Non ebbe il coraggio di fare qualcosa, lanciargliele indietro, sorridere e vantarsi di quella sorta di conquista deviata; non fece niente se non correre via.
            Pregò affinché un dio potesse ucciderlo in quel momento.
            Le mutande erano ancora nella tasca della sua divisa quando, dopo cena, rientrò a casa.
            Non disse niente, non salutò suo padre e la sua matrigna. Salì le scale rapidamente, senza neanche togliersi le scarpe all’ingresso, ma sulla soglia della sua camera lo aspettava la sua sorellastra.
            Nanami lo squadrò velocemente, l’accappatoio addosso e un asciugamano avvolto intorno ai capelli. «Fermo lì, Hiroshi.»
            Hiro la oltrepassò e si infilò nella stanza, chiudendo la porta a chiave.
            «Non voglio parlare con te!» urlò da oltre la porta. Se fosse stato possibile morire di vergogna, in quel momento sarebbe stato più che cadavere. Per tutta la giornata aveva tenuto le lacrime nascoste, ma ora, seduto sul tatami, poteva sfogarsi finché ne avesse avuto voglia. E questo, probabilmente, significava per sempre.
            «Saito mi ha chiamato al cellulare» disse Nanami a bassa voce. La porta era talmente sottile che poteva udirla benissimo. «Non urlare, o ci sentiranno. Sono di sotto.»
            «Vattene» disse Hiro. Aveva la voce disperata del ragazzino in lacrime qual era. «Il tuo amico è uno stupido.»
            «Ci sarà stato un malinteso, Hiro.» Nanami non stava molto in casa, però sapeva come prenderlo. «Secondo me dovreste parlarvi.»
            «Non parlo né con te né con Saito.»
            «Come vuoi, ma dovrai uscire da lì.»
            «Non lo farò mai, preferisco morire qui!» Hiro terminò la frase in un singhiozzo. Nanami non replicò. Dopo poco, sentì i suoi passi allontanarsi lungo il corridoio.
            Hiro fece un profondo respiro. Che stupido che era stato. E che merda era stato Saito. E Aimi… le ragazze facevano proprio schifo. Sembravano tutte carine e delicate, poi ti umiliavano come se ti avessero in pugno. Non capiva perché avesse dovuto farlo. L’aveva ridicolizzato davanti a tutti. Tutti i suoi compagni avevano riso. Probabilmente poteva cambiare scuola. Forse poteva andare a lavorare in una fattoria in Hokkaido. Era abbastanza freddo e abbastanza a nord che nessuno l’avrebbe trovato lì. Sicuramente lì ad Osaka non l’avrebbe visto più nessuno.  Forse poteva tirare un paio di sue mutande ad Aimi.
            Forse.
            Forse.
            Hiro si gettò sopra il futon. Appena steso, si ricordò di avere ancora le scarpe. Le tolse. A quel punto, era meglio spogliarsi, aprire la finestra e sperare di morire di freddo durante la notte. Non era una brutta idea.
            Si alzò di nuovo, si tolse la giacca, la camicia, la cravatta. Aveva uno specchio a parete molto grande, e guardò ogni movimento speculare che stava compiendo. Erano azioni di tutti i giorni e lui si vedeva per la prima volta. Si avvicinò un po’ allo specchio, si spettinò i capelli. Quando si sbottonò i pantaloni, nello sfilarseli sentì il bozzo nella tasca.
            Tirò fuori le mutandine di Aimi e le lasciò cadere per terra. Non le guardò nemmeno. Si tolse i pantaloni, restò in mutande. Con un calcio, spostò via i vestiti. Davanti allo specchio restavano lui, le sue mutande, quelle di Aimi.
            Le prese, le dispiegò, le guardò. Erano delle normalissime mutande, color crema, un fiocchetto in mezzo, forse un po’ strette sul retro. Ora che le guardava meglio, erano molto strette dietro. Si imbarazzò al solo pensiero che una quindicenne portasse della biancheria simile.
            Si imbarazzò ma… erano belle. C’era qualcosa di estremamente raffinato in quelle mutande, e qualcos’altro di volgare. Non sapeva decidersi. Ponderò per un momento l’idea di ‘divertirsi’, come aveva detto Aimi, ma l’umiliazione della mattina era stata abbastanza. Non le avrebbe dato questa soddisfazione. Lei non l’avrebbe saputo, ma Hiro preferiva avere la coscienza pulita. Sapeva che comunque avrebbero detto cose su di lui.
            Aimi non l’avrebbe avuta vinta.
            Senza neanche rendersene conto, però, Hiro fece qualcosa di assolutamente singolare. Lentamente, sfilò le sue, di mutande. Rimase nudo davanti allo specchio. Solo due anni prima, il suo era quello di un bambino. C’erano ancora molti, troppi tratti infantili in quell’involucro di carne. Hiro guardò con disprezzo il volto ancora tondetto, le spalle piccole, il busto magro, le gambe sottili, e quel pene che non era quello di un uomo, non ancora.
            Da seduto, ad occhi chiusi, infilò le mutande di Aimi. Sentì il cotone scorrergli sui polpacci, le cosce, toccargli poi i testicoli e coprire le sue nudità. Si alzò e le tirò su totalmente. Prima di aprire gli occhi, le senti un po’ strette. Non erano comodissime. Chissà come faceva Aimi a stare seduta su quel poco tessuto per tutte le ore scolastiche.
             Si guardò allo specchio. Stringevano leggermente sui fianchi ma, al di là di quello, erano perfette. Erano davvero belle. Erano mutande da donna, avevano un colore tenue, un fiocco, un taglio così diverso dalle proprie.
            Hiro si mise di lato, osservo la sua silhouette. Con quella roba addosso, non aveva più l’aspetto spaventato di un adolescente qualsiasi. Il suo corpo aveva un senso diverso. Era quasi bello. Gli stavano bene, ma non era tutto. Lo rendevano, in qualche modo, dolce e sensuale.
            Un momento, Hiro. No, sensuale no. Sei un uomo. Sei un uomo. Non va così, indossi abiti da uomo. Questa è perversione.
            Hiro quasi se le strappò di dosso, nella veemenza cadde per terra.
            Non disse niente, non battè ciglio, non si azzardò a piangere, no, neanche per scherzo.
            Gli uomini non piangono, Hiro. Gli uomini non piangono.
 
 
*
            Era quel brivido prima di farlo che lo lasciava senza fiato e pieno di aspettative. Non aveva mai dimenticato come si era sentito con le mutande di Aimi addosso. Ora lui, a sedici anni, non poteva più farne a meno, e lei non si vedeva in giro da un po’. Aveva lasciato la scuola.
            Hiro non riusciva davvero a trattenersi. Quando vedeva le ragazze vestite secondo la moda Lolita per strada, provava un’invidia fortissima. Doveva tornare a casa. Doveva vestirsi in quel modo. Aveva cercato su internet. Si chiamava crossdressing, quello che faceva lui, e che nella sua mente era solo ‘il piccolo segreto’.
            Nanami frequentava l’università a Tokyo, ma aveva lasciato qualche vestito a casa. Per l’esattezza, Hiro aveva potuto godere di due vestiti estivi, diverse gonne, una camicetta rossa e quasi tutte le sue scarpe con il tacco.
            Hiro aveva provato tutte le combinazioni, ma ce n’era una che lo faceva stare bene, ma bene davvero. Le decolleté nere, la gonna plissettata, il maglione azzurro. Da quando si era svegliato, quel giorno, aveva desiderato indossarli.
In punta di piedi, alle undici in punto, quando suo padre e la sua matrigna erano già a letto da ore, si recò nella stanza della sorellastra, facendo attenzione a non urtare niente, a non accendere le luci del corridoio e, soprattutto, a chiudersi a chiave nella camera. Quando sentiva scattare la serratura, il gioco iniziava.
            Era un gioco, sì, ma era un gioco bellissimo ed estremamente serio. Era qualcosa di profondo dentro di lui. Quando metteva quei vestiti si sentiva un’altra persona. Si diventava di se stesso. Non era più Hiro, il ragazzo tranquillo e bravo a scuola, con pochi buoni amici e nessuna parvenza di relazione amorosa.
            Era Hiro. Splendidamente Hiro. Solo Hiro. Hiro e basta.
            Aveva i capelli corti, sì, ma un aspetto talmente androgino che rasentava i limiti di un erotismo di cui era l’unico usufruitore.
            Hiro ricordava cosa nascondevano i vestiti. Non si era scordato dei fianchi stretti, dei primi peli. Non si sentiva fuori luogo in determinati abiti o in altri. Riusciva ad essere entrambe le cose: uno studente di liceo e un crossdresser, ma quest’ultima opzione era la migliore.
            Rimaneva lì, a specchiarsi, ad accennare qualche movimento sexy. Non aveva inibizioni e non si poneva domande: sono gay? Ho qualche problema? Che diavolo farò di tutto questo fra cinque, dieci, vent’anni?
            Perché farsi domande quando il tessuto gli cadeva così morbido, così bello, unico sui suoi fianchi? Era la stessa stoffa a rendere Hiro altrettanto morbido e bello e unico.
 
 
*
 
 
            Le domande arrivarono. E furono diverse.
            Non gli bastava più il guardaroba scarso di Nanami. Non si azzardava a toccare quello della sua matrigna. Non per paura o per rispetto, semplicemente avrebbe significato andare oltre una certa linea. Hiro non avrebbe saputo definirla con chiarezza, ma non poteva più comportarsi come un ladro.
            Allora aveva deciso di comprare. Non c’era bisogno di tante scuse o di inventarsi storie troppo bizzarre: una fidanzata, una sorella, una madre. Era tutto estremamente plausibile. Hiro non faceva caso a quelle bugie. Non poteva dire che fossero per lui e ne aveva davvero bisogno, si trattava dell’unica soluzione.
            A casa, nascondere gli acquisti era relativamente semplice. In vecchie scatole di fumetti che non venivano mai spolverate, in fondo agli armadi,  qualche indumento intimo appallottolato nei cassetti: c’era sempre uno spazio nascosto pronto ad accogliere il suo segreto, e volersi responsabilizzare nel fare il bucato da solo era un’ottima copertura.
            Nessuno gli faceva domande. Aveva ottimi voti e buoni rapporti con i suo i compagni, parlava poco ma era sempre educato. Non si poteva pretendere niente di meglio da un ragazzo di sedici anni.
            Prima della fine dell’anno scolastico, si trovò una ragazza. Lo Yukimura era fuori discussione mentre Yuuko rimaneva nel territorio confortevole della sua classe. Una ragazza normale, forse mediocre, nessuna dote particolare se non la sua gentilezza estrema. Sembrava fosse quasi estranea a quello che era successo con Aimi, così avevano cominciato a studiare insieme per gli esami, unendosi quasi spontaneamente, e si erano ritrovati a baciarsi fuori dai grandi magazzini Daimaru, dopo un pomeriggio di svago.
            Hiro non pensava di dirlo a Yuuko. Non fece nemmeno un vago accenno. Un giorno successe di agosto successe, e basta.
 
 
*
 
 
            Nanami era tornata da poco, la casa era intrisa di una nuova vitalità. Hiro aveva cercato di riporre i suoi vestiti nello stesso identico modo in cui li aveva trovati e lei sembrava non essersi accorta di niente.
            Mentre di sotto si svolgevano amabili e ridondanti conversazioni, Hiro e Yuuko erano distesi sul letto, la porta chiusa. Yuuko aveva il capo reclinato sul cuscino, lo sguardo volto alla finestra. Hiro le accarezzava le braccia, meccanicamente.
            «Si vedono troppi palazzi da qui…» mormorò Yuuko a bassa voce.
            Hiro non rispose, si limitò ad annuire.
            Erano strani i silenzi con Yuuko. Nessuno dei due era appassionato di chiacchiere ma c’erano troppi giorni di stallo. Erano ormai tre mesi che stavano insieme. Hiro non l’aveva toccata. Yuuko non si era fatta toccare. Era una routine inquietante di silenzi, baci e teste chinate. Forse era una relazione un po’ strana, dall’aria troppo stantia anche per due sedicenni, ma cosa avrebbero dovuto aggiungere?
            Hiro non pensava di starle nascondendo qualcosa. Perché dirglielo, poi? Non avrebbe aggiunto nulla di particolare a loro due, al loro stare insieme. Lo aveva capito e accettato lentamente, non sentiva il bisogno di catapultare qualcuno nel suo mondo. Era confusionario, era difficile da spiegare. Anche se, neanche a dirlo, era gratificante e perfetto.
            «Hiro.»
            «Sì?»
            Gli occhi luminosi di Yuuko incontrarono i suoi. Hiro sollevò un angolo della bocca a formare un sorriso.
            «I tuoi non si offendono se stiamo chiusi qua? C’è anche tua sorella…»
            «Non importa» disse Hiro. «Ti conoscono ormai.»
            Yuuko annuì, tornando a guardare la finestra, al di là del vetro, al di là dei palazzi.
            «C’è qualcosa che mi vuoi dire, Hiro?»
            Il sangue si gelò nelle vene. Hiro sentì i muscoli tendersi sotto la pelle ma si impose un autocontrollo degno di un monaco buddhista.
            «Cosa intendi?»
            «Lo sai cosa intendo.»
            Hiro si mise a sedere. Yuuko guardò i suoi movimenti improvvisi, corrucciando le sopracciglia.
            «Perché ti stai agitando? Non ho detto niente.»
            «Non hai detto niente ancora» precisò Hiro. Storse la bocca in una smorfia. Non era possibile che sapesse. E se fosse stato quello il caso, perché lo tirava fuori così? Perché voleva tirare fuori la sua felicità più segreta in quella maniera?
            Yuuko sbuffò. «Almeno fammi parlare.»
            «Non ti capisco, Yuuko.»
            «Posso provare a spiegarti.»
            Yuuko si puntellò sui gomiti, giocando distrattamente con i bottoni della giacchetta che indossava. Poi disse qualcosa che spiazzò Hiro.
            «Non credi che tra noi manchi qualcosa?»
            Sì, credo che una cosa dovresti saperla ma è meglio di no, perché è mia, solo mia, tu non capiresti –o forse sì– e, per favore, non intendo ripetere l’umiliazione di tre anni fa.
            «Cosa credi che manchi?» chiese Hiro, lentamente.
            Yuuko si strinse nelle spalle. «A me piaci, ma ti sento distante.»
            Hiro meditò qualche secondo su quelle parole. «Distante… in che senso?»
            «Hiro!»
            «Sto solo cercando di capire.»
            Yuuko si raddrizzò, guardandolo dritto negli occhi. «Mi sfugge qualcosa di te, Hiro. Forse è una mia sensazione e basta, però sei sempre un passo distante da tutto e tutti. C’è qualcosa che non va? È per questo che fai così?»
            Hiro la guardò, senza capire.
            Cosa voleva? Dimostrazioni di felicità immensa in una vita monotona? Erano quei colori accesi, quei tagli provocanti. I reggiseni imbottiti, le calze autoreggenti, i rossetti dai toni opachi. Erano quelli la felicità. Erano i colori che Hiro non trovava da nessun’altra parte, non in un libro o in un’amicizia, nemmeno in Yuuko, a dirla tutta.
            Hiro rimase in silenzio.
            Yuuko vestiva in quella maniera, sempre. Yuuko usciva di casa e lasciava che le sue gonne le svolazzassero intorno al ginocchio e sembrava non onorare abbastanza quella fortuna. Hiro non sapeva se si sarebbe mai avventurato oltre la camera di Nanami o la propria, vestito da donna.
Sapeva quanto la sua estetica nascosta gli desse piacere.
Sapeva anche quanto non fosse accettabile, all’esterno.
Hiro era nella vastissima media di gente che conduce le proprie vite in silenzio, sorridendo, giostrandosi tra lunghi obblighi e svaghi brevi. In quei vestiti, Hiro si elevava. Hiro diventava speciale. Nei panni di una donna, Hiro era morbosamente e distintamente se stesso. Tornato nei pantaloni maschili e nelle camicie dai toni neutri, avveniva il processo inverso, un’involuzione.
Yuuko non lo voleva sapere davvero.
Hiro ne era sicuro.
Yuuko si guardava le mani, impaziente. Alzò le spalle, scendendo dal letto. «Se c’è qualcosa che non va, vorrei saperlo. Dimmelo quando ti senti a tuo agio.»
Hiro sospirò, all’interno del suo cuore. Non si mosse minimamente. Rimandare questioni inesistenti lo lasciò sollevato, per il tempo di una frazione di secondo. Poi la vide.
C’era una scatola, piccola, che spuntava da sotto il letto. Maledisse il giorno in cui aveva preferito uno stile occidentale per la sua stanza, rinunciando al futon. Maledisse il foulard giallo, splendente come il sole, che aveva comprato due settimane prima. E maledisse se stesso per averlo lasciato lì, nascosto a malapena, strabordante, l’evidenza di se stesso. Perché non l’aveva notato prima?  
            Yuuko ci inciampò su. Non cadde, ma il cuore di Hiro ebbe un tuffo, come se l’avessero lanciato giù da una scogliera a strapiombo sul mare. Il coperchio volò via. Il foulard si distese sul pavimento, vergognosamente semplice e lì, immobile, ad indicare tutto.
            Yuuko lo guardò per un attimo, l’espressione stupita.
            Hiro attese.
            Yuuko alzò gli occhi ad incrociare i suoi.
            Hiro attese ancora.
            «Perché tieni un foulard in una scatola sotto il letto?»
            Era quello il momento. Il momento di mentire spudoratamente, senza ritegno, senza scomporsi, non un solo rossore sul viso, la voce sicura, nascondere, nascondere, nascondere senza esitare.
            «È mio.»
            Aspetta, Hiro. Quella è la verità. Hiro. Hiro.
            «Cosa?»
            «È mio» ripetè Hiro. Qualcosa si era appena rotto dentro di lui. Era come se le ossa e l’epidermide avessero deciso di fare l’amore, e le prime spingevano verso l’esterno, la seconda si assottigliava sempre più sui muscoli, cercando di trapassarli. Era un’esplosione mentale ed emotiva. Era liberazione e condanna. Perché, Hiro? Perché.
            Yuuko si sedette per terra, nello stesso punto dove lui aveva scoperto se stesso, qualche anno prima. Voleva quasi dirglielo. La lingua bramava le parole, una forza superiore la castigava al silenzio.
            «Vorresti spiegarmi?»
            La voce di Yuuko era irraggiungibile.
            Hiro doveva farlo. Si mosse, guidato dalla forma primitiva di quella mania, lentamente, accuratamente. Si sentiva di nuovo un tredicenne con niente più che un paio di mutande, uno specchio e l’orgoglio ferito. Prese tutto. Ogni cosa. Ogni vestito. Anche le scarpe. Gli accessori. Svuotò ogni cassetto.
            Nessuna fretta. Yuuko guardava in basso. Quel silenzio era confortante come due mani che lo reggessero sopra un baratro. Hiro sapeva che le dita si sarebbero presto dischiuse. Che lei capisse o meno, era importante: erano sue, quelle mani. Si fidava di Yuuko, ma ancora più si fidava di se stesso. In quella logica annebbiata, sembrava la cosa giusta da fare.
            Si mise a nudo. Si svelò nel profondo, mostrando quello che lo copriva di notte, quando nessuno poteva vederlo, protetto da quattro mura e una chiave girata.
            La sua mente era priva di considerazioni o pensieri.
            Il suo corpo fremeva e, in qualche modo, giaceva inerme, nonostante fosse ancora in piedi.
            Yuuko non disse niente. Accarezzò qualcosa, distrattamente, come se si trovasse dinanzi ad una svendita di vestiti. Hiro le prese una mano.
            «Io sono così, Yuuko.»
            Yuuko rimase ancora in silenzio. Non pianse. Non mosse un muscolo.
            C’erano solo  le loro mani, chiuse tra loro, e tutta la felicità di Hiro, lì, sul pavimento.
            C’era confusione e chiarezza estrema. C’era tutto quello che, per un motivo o per un altro, non era mai venuto fuori. Era incerto su Yuuko, ma non si aspettava nulla in particolare. Lei, in un gesto di comprensione o arrendendosi all’evidenza, non scostò la mano da quella di Hiro.
            Rimasero così per un po’.
            Da sotto, giungevano le risate di Nanami.
 
 
*
 
 
            Era entrato da un cancelletto laterale.
            Era tornato lì.
            Hiro si sedette, appoggiando la schiena al muro di mattoni gialli. Erano caldi dall’esposizione al sole della giornata. Il sole era già tramontato. Il giallo lo sostituiva.
            Voltò lo sguardo, diversi metri a sinistra. La rete con i buchi. Lo Yukimura era lì, così serio in confronto al colore sgargiante della propria scuola. Allora le cose belle, le cose allegre, la luce può confondersi, vivere e respirare nel mondo esterno?
            In fondo, non faceva del male a nessuno.
            Forse a Yuuko.
            Forse alla sua famiglia.
            Forse a se stesso.
            Ma no. No, Hiro. Non c’è nulla di male. Non hai commesso un reato, se non quello di trovare un modo per essere felice. Solo la gente crudele disprezza chi riesce ad essere felice senza far male a qualcuno.
            Puoi essere felice, Hiro.
            Fallo.
            Sei venuto qui, abbi il coraggio.
            Non riusciva a staccare lo sguardo dall’istituto femminile. E forse era meglio così. Era l’inizio di ogni cosa. Si chiese come sarebbe stata la sua vita se avesse avuto una spilla da balia e meno pensieri per la testa. Diversa, o forse uguale. Oltre il suo travestirsi, il suo mascherarsi, il suo diventare, la vita scorreva come sempre.
Dallo zaino, lentamente, senza guardare, estrasse il foulard. Odorava di Yuuko, lo sentì subito. Se lo pose intorno al collo, le dita strinsero appena un fiocco elegante. Il tessuto leggero gli riscaldò la pelle. Solleticava appena. Inspirò a fondo.
            Era lì.
            Nella sua umiliazione precedente. Nella sua estrema sincerità. Hiro, hai avuto il coraggio. Dove ti porterà, forse non lo sai ancora. Non negarti, Hiro.
            Questo è un mondo che nega, un mondo che strazia e un mondo che ti vuole felice nella tristezza collettiva.
            Hiro non voleva rinunciare ad una vita comune e, in fondo, non c’era nulla di anormale in lui. Poteva prendersi con gioia il fardello della mediocrità, cullarlo e farlo suo, vivere sempre un po’ più lontano, un po’ più distante, ma sempre in mezzo alla gente, in mezzo a tutti, come tutti.
            L’avrebbe fatto senza pensarci due volte, se non avesse saputo quanto e come poteva splendere.
Hiro voleva splendere. Voleva essere il sole. Giallo su giallo, seta su mattoni. Avrebbe avuto anni per piegarsi. A trenta, quarant’anni, avrebbe chinato la testa, avrebbe accettato i compromessi. Probabilmente si sarebbe scordato di tutto quello.
L’avrebbe ricordato con amore, nostalgia, pentimento. No, non c’era una reale possibilità di scordare qualcosa.
Perché pensare al futuro, poi? Non l’aveva mai preso in considerazione, prima di allora, e sapeva che c’erano molti più angoli bui di quanti ne potesse immaginare. Gli ultimi raggi del tramonto sembravano dirgli che quegli angoli sarebbero spuntati fuori, sì, ma non era ancora il momento di preoccuparsene. Poteva gioire della semplicità di qualcosa di complesso ancora per un po’.
            Tra il freddo vento della prima sera, non c’erano mezzi termini, non c’erano battaglie da portare avanti, né contro la gente, l’opinione altrui o contro se stesso.
            Appoggiato a quel muro, Hiro era sole.










A/N: E Giallo è finito. Deo Gratias. Questa storia è stata un parto, semplicemente perchè mi è venuta in mente senza troppi dettagli, senza niente se non l'idea di un 'doppio' giallo. Seta e mattoni. Volevo parlare di un adolescente crossdresser e lo volevo fare in Giappone, dove c'è un codice rigido di società ma allo stesso tempo si trovano le più forti contraddizioni possibili.
Non volevo fare qualcosa che avesse quasi un'impronta documentaristica (i giovani fanno questo, gli adulti quest'altro, poi mangiano sushi tutti insieme e blablabla) così ho deciso di prendere solo il punto di vista di Hiro, la sua vita, la sua adolescenza.
Spero vi piaccia. É la storia che ha richiesto più impegno, forse la meno spontanea di Primari ma anche per questo la più ragionata.
Grazie per essere arrivati fin qui, e grazie alle mie amiche di tastiera e dysagioh, Aika, babyjenks e Kaite, che stanno contribuendo a Primari e Complementari (più alla stesura di nuove cose) fornendomi il supporto psicologico di cui ho disperato bisogno, perchè  sono pazzah e piena di fisime.
Vale atque vale, dudes <3
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Val_Ser