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Autore: Gatto Magro    25/11/2013    2 recensioni
Capitano. Grotta. Cera.
E tutto quello che avrò la malaugurata idea di scrivere, finché alla TV non fanno qualcosa di bello.
1. Ossequi, Capitano.
2. Ave Icarus.
3. All I wanna do is (bang-bang).
4. Sunday mo(u)rning.
5. Le Porte Spettrali.
6. Caro Bellamy,
7. I tuoi 23 anni, I miei 26 anni.
8. duemilasette – duemilatredici
9. Scritto sul muro con l'eyeliner.
10. "It's like being at Disneyland. On acid."
11. We go where we know. (RIPUBBLICATA "Ma le fragole hanno fatto la muffa.")
12. Come le patatine fritte (è sempre un buon momento per una torta al cioccolato).
13. Prima che fossimo come le patatine fritte: insanguinati sul pavimento. (A raccontarci bugie.)
14. Then the night fell on us.
15. The Queen is dead.
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Nonsense, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le vicende Ciglia Finte e altre cose di Superficie. '
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Capitolo Menodizero.
 
Il 25 marzo 2007 fecero un buffo errore all’ufficio che si occupava della pubblicazione delle epigrafi mortuarie. Ne affissero due ad un muretto dipinto di verde acido che sembrava stare al centro del nulla, per il semplice gusto di nascondere quello che c’era lì dietro.
Il ragazzo non riusciva nemmeno a visualizzare ciò che stava intorno a quel muretto, ma forse era perché tutta la sua attenzione era catalizzata da quei due rettangoli di carta plasticata, incorniciata da ghirigori di inchiostro nero e sottilissimo che si univano in complicate arricciature ai quattro angoli dei fogli. Le piccole fotografie in cima a ciascun foglio lo lasciavano allibito; le fissava ad occhi spalancati e increduli come se si aspettasse che i soggetti mutassero per un’improvvisa – e finalmente ragionevole- messa a fuoco.
Perché non era possibile.
- Quello sono io. – Mormorò il ragazzo a nessuno in particolare.
Non c’era alcun dubbio. I capelli neri, i tratti leggermente spigolosi del viso; il soggetto della foto aveva la sua faccia e perfino gli stessi occhi un po’ spalancati come li aveva lui ora, solo che le labbra erano stirate in un sorriso incerto. Sembrava dicesse: “Temo proprio di sì. Come diavolo ti sei cacciato in questo pasticcio?” con una certa indulgenza che strideva con le parole tracciate sotto la fotografia in un corsivo da bambino delle elementari. Alcune parole erano state addirittura cancellate con rabbiosi scarabocchi di penna biro, altre erano state aggiunte in caratteri minuscoli per stringersi nello spazio di due parole già scritte, e l’inchiostro era sbavato qua e là.
- Che cosa assurda. – Disse ancora.
- Non tanto, in realtà. – Si sentì rispondere. Non lo aveva affatto notato prima, ma alla sua sinistra c’era un altro ragazzo, che come lui osservava le due epigrafi appese al muro verde. Aveva i capelli di un rosso così fastidioso da guardare che rivolse di nuovo lo sguardo davanti a sé, e trasalì accorgendosi che era la stessa persona ritratta nella seconda epigrafe.
- Mia sorella ha scritto una cosa davvero carina, hai letto? – Fece il rosso con un cenno del capo. Sotto la sua faccia sorridente, c’era scritto in una bella calligrafia una frase che all’altro parve di aver già sentito. Non sei umano sei un miracolo. Di’ “cheese” tesoro, non esisti in questo mondo in saldo. Non aveva nessun senso. Il ragazzo si sentì stringere lo stomaco da una morsa; non sapeva bene il perché, ma trovava quella frase orribile, quasi spaventosa. Si concentrò per decifrare cosa stava scritto invece nella sua.
- “Guardi quella chitarra come se non sapessi cosa farci”. Che strano… me lo dice sempre un professore dell’Accademia.
Era irritante trovarlo scritto lì, dove chiunque avrebbe potuto leggerlo. Il ragazzo alla sua sinistra sospirò comprensivo.
- Io non sono affatto morto! Che cazzo di scherzo è questo? – Sbottò dopo qualche secondo. Leggeva e rileggeva quella frase tutta storta e il suo senso di oppressione cresceva con gli spazi troppo larghi o fastidiosamente inesistenti fra una parola e l’altra.
- Sì che lo sei. – Fece l’altro con voce piatta.
- No. – Si girò di scatto verso di lui, che lo guardava candidamente con le mani infilate nelle tasche del chiodo di pelle. Era perfettamente a suo agio; non capiva perché il ragazzo dai capelli corvini si scazzasse tanto.
- Oh, bello, sì.
- E tu chi diavolo sei?
- Non me lo ricordo.
Gli venne da piangere. E pianse, con il verde del muro che si consumava nel rosso del capelli dell’altro ragazzo.
 
È incredibile quanto faccia silenzio. In una scena del genere ci si aspetterebbe una baraonda infernale, rumori che stridono urlano grattano bruciano, fumo che impazzisce infilandosi ovunque mentre sale al cielo, metallo che prende vita in un tormento di gemiti e schiocchi di ossa che vanno in frantumi, spruzzi sonori di sangue mentre coprono la strada in rivoli già seccati dal disgusto, e occhi che escono dalle orbite e rotolano via per sempre, per non vedere, non aver visto, non saper dire. Lingue che si mordono e insultano ogni cielo. Mani che si alzano per strappare le nuvole e mani strappate che giacciono a terra.
E invece è il silenzio. Silenzio e pace.
La ruota della moto fuma e gira ancora; ci si aspetterebbe uno sfrigolio di gomma bruciata, ma non esce nulla dalle fauci metalliche della forcella storta e fusa dal calore. Qualcosa gocciola a terra. La bambina ferma sul marciapiede vede la piccola pozza scura allargarsi sull’asfalto, un buco nel motore forse, è troppo piccola per saperlo nel dettaglio; non c’è il suono delle gocce, eppure sono lì.
Non c’è stato nemmeno il rumore del parabrezza che si accartocciava. Né quello dell’esplosione di un qualcosa nell’automobile.
Il fuoco se né andato, forse quello che è successo gli ha spezzato il cuore e si è spento agonizzante sui pantaloni del ragazzo steso per terra, la metà inferiore del corpo schiacciata sotto la pesante motocicletta. Il suo torso si piega, la schiena riposa sull’asfalto. Sembra si stia sforzando per girarsi e vedere qualcosa; il braccio destro è teso e le dita dischiuse indicano ai suoi occhi dove guardare. Il collo si tende al massimo in quella direzione, sembra un quadro annerito questo ragazzo immobile, bruciacchiato e sporco un po’ ovunque, tranne per quella meravigliosa macchia rosso fuoco che sono i suoi capelli.
Qualcuno ha sicuramente gridato, o risucchiato l’aria improvvisamente, come un ultimo assaggio del sapore dell’ossigeno e della vita. Il camionista che ha aperto lo sportello ed è scivolato a terra prima di svenire, il ragazzo sotto la moto, oppure quello con la tempia appoggiata al volante dell’auto accartocciata, sbilenca in mezzo alla strada, il fulcro della scena.
O magari è stata la bambina immobile sul marciapiede, la signora al cellulare pochi passi davanti a lei, o l’uomo che ha visto tutto dall’amaca del suo terrazzo.
Mio dio, hanno mimato le sue labbra. Nulla di più.
Poi la sirena di un’ambulanza spezza il tempo, ed è insopportabilmente assordante.
 
Troppo caldo, troppo rumore che non riusciva ad identificare. Prima stava così bene, stava dormendo… no, era incosciente. Non stava sognando, stava delirando. Lo disse una voce, è cosciente adesso. Se era cosciente significa che prima era stato incosciente. Sognava di essere morto e di leggere la sua epigrafe su un muro che non aveva mai visto. Ma non era in grado di capire nulla. Era steso. Scomodo. No, aspetta, era morbida quella cosa su cui era steso. Ma c’era troppo rumore a premergli nei timpani. Avrebbe voluto strapparsi le orecchie per dormire in pace. Nel suo cervello si stava innescando l’implosione definitiva, poi sarebbe diventato acqua. I ticchettii che percepiva attorno a lui gli davano la nausea. Gli sembrava di star guardando giù da un grattacielo di centomila piani e contemporaneamente di star cadendo a una velocità lacerante verso il suolo. Si era gettato dal piano più alto? Era già atterrato? Il suo corpo era già diventato poltiglia di seguito allo schianto?
Lui, che non aveva mai avuto del fegato in vita sua, aveva paura della morte perfino dopo essere morto.
 
- Non voglio morire. – disse fra le lacrime. Il ragazzo dai capelli rosso fuoco intanto si era seduto con la schiena contro il muretto, il mento appoggiato alle ginocchia.
- Siediti qui.
- Non voglio morire.
- È tardi adesso. Siediti.
Appoggiò la fronte al muro e prese a singhiozzare. Le sue lacrime fecero colare l’inchiostro dell’epigrafe in nastri lunghi fino a terra. La ghiaia divenne nera.
- Ecco, ora è illeggibile. Ti rovini perfino la morte. Lascia stare, siediti; c’è qualcosa che devi vedere.
Alla fine erano fianco a fianco, con le spalle al muro, uno con gli occhi socchiusi per la gran luce – se ne accorse solo in quel momento, – che li colpiva, l’altro con le guance lucide di pianto. Il ragazzo con il chiodo giocherellava con qualcosa che teneva in mano, un oggetto metallico piuttosto usurato, ma il suo sguardo era rivolto a ciò che avevano davanti.
Stavano fissando una cosa impossibile da definire. Al ragazzo di destra, quello che continuava a tirare su col naso, vennero in mente gli specchi. No, pensò definendo meglio l’idea, l’acqua.
La città davanti a loro sembrava il riflesso di una superficie liquida, quell’immagine tremolante che ti ritrovi a guardare quando ti sporgi da un ponte su un canale, o quando guardi la luna riflessa sul mare di notte. Era la stessa sensazione; come se la città respirasse, ma non fosse reale. Il ragazzo di destra pensò che l’originale, cioè la vera città dalla quale quel riflesso proveniva, si trovava dall’altra parte del muro. Realizzò che non poteva oltrepassarlo, così come prima, mentre leggeva incredulo le epigrafi, non era riuscito a scorgervi intorno alcunché; questo lo fece sentire immensamente triste e gli mozzò il fiato.
- Non voglio essere morto. – Sussurrò.
Il rosso scattò in piedi. – E allora vivi. – Gli sputò addosso quelle parole con uno sguardo furioso, poi si voltò verso la città, portandosi una mano davanti agli occhi per ripararsi da quella luce incredibile.
- E tu?
L’altro sembrò cedere. Le braccia gli ricaddero lungo i fianchi e c’era una nota di disperazione nella sua voce.
- Non mi rimane più altro.
Poi corse via. Il ragazzo seduto a terra rimase a guardare le proprie scarpe assorbire il nero colato sulla ghiaia perché la luce era troppo forte.
 
La sigaretta del ragazzo alla guida dell’auto gli è scivolata dalle labbra ed è caduta in mezzo alle sue ginocchia, spegnendosi sul tessuto del sedile. Il tempo di abbassare lo sguardo per ripescarla, e davanti a lui compare una moto in contromano che fila a 80 all’ora contro il suo parabrezza.
Il ragazzo afferra il volante e sterza così bruscamente che gli fa male la spalla. Le ruote slittano sull’asfalto, la gomma si stampa sul cemento mentre l’auto compie un’ inversione testa-coda.
Il camionista non fa in tempo a frenare. Il mezzo inghiotte l’auto e la risputa con la parte frontale accartocciata e distrutta. Rimbalza via tranciando la corsa della motocicletta, che si rovescia a terra con la fiancata aperta sulla scritta BORN FREE che la decorava. Il ragazzo in sella urta violentemente il terreno con la nuca. Il casco da cross schizza via, il suo collo si spezza.
I paramedici rianimano l’uomo alla guida del camion, praticamente illeso, che attacca a gemere non l’ho visto, ha girato di colpo, che cazzo è successo, non l’ho visto.
I due ragazzi muoiono.
Il motociclista è morto da quando ha toccato il suolo. L’altro, perde troppo sangue e non ha battito cardiaco, ma lo caricano lo stesso sull’ambulanza che parte a sirene spiegate.
- Mio Dio. Mio Dio. Mio Dio. – continua a ripetere l’uomo che guidava il camion. È steso su una barella accanto a quella del ragazzo, fissa fuori di sé il giovane volto coperto del sangue che scorre da una ferita sulla fronte. – Mio Dio. Mio Dio. Mio Dio.
Il paramedico stringe fra le mani il defibrillatore, ha già fatto otto tentativi per far ricominciare a battere il suo cuore.
- Mio Dio.
Non voglio morire.
- Mio Dio.
Non vede più l’altro ragazzo. La città l’ha inghiottito.
- Mio Dio.
Il muro sta inghiottendo anche lui. Non voglio morire.
Il corpo del ragazzo ha come uno spasmo, e viene colto da un accesso di tosse che copre i paramedici e l’altro autista di goccioline scarlatte. 
Respira, ma non apre gli occhi.
 
- Tesoro svegliati.
Svegliati. Come avrebbe potuto farlo? Forse non lo voleva nemmeno. Dormire era così piacevole. Dormiva da una settimana, il ragazzo sul letto. E faceva sogni strani, che poi non ricordava più, coprendoli con altro sonno vischioso. Ma in quel momento cominciò a sentire tutti quei rumori, e non erano parte del sogno, non erano il ragazzo dai capelli rossi, né la città di riflesso, non le sue scarpe che assorbivano l’inchiostro…
Svegliati. Non voglio morire.
E allora vivi.
 
Aprì gli occhi.
 
 
 
Quando riacquistò la sensibilità alle dita, la prima cosa che toccò non fu la mano di sua madre, o di uno dei parenti che in quei giorni si erano stretti attorno al suo letto troppo alto e pieno di tubi – tubi ovunque, tubi erano le sponde e i paletti di smalto bianco che sorreggevano il materasso, tubi attaccati alle macchine che lo facevano respirare, dormire, mangiare, bere e delirare, la maggior parte dei quali si infilava dentro la sua pelle in punti che non riusciva a guardare.
Sfiorò invece la carta di un giornale dimenticato, o forse intenzionalmente abbandonato, sopra un ripiano accanto a lui. Era vecchio di qualche giorno, quasi una settimana; una settimana in cui lui aveva vagato del tutto inconsciamente in un’indistinta massa di sogni, attraversando le vie acciottolate di una città che pareva il puzzle dei suoi ricordi accatastati, ad inseguire con il cuore sul punto di scoppiare l’ombra liquida di un ragazzo dai capelli rossi.
Lo conosceva? In quel momento non riusciva a ricordarlo. Chiuse gli occhi cercando di riportare a galla qualche frammento delle visioni invocate dagli antidolorifici; affiora solo un suono, il rumore di un oggetto metallico che cade a terra. Il ragazzo dai capelli rossi li lasciava cadere ogni tanto, nei sogni, quasi per lasciare una traccia perché lui potesse raggiungerlo.
Scosse lievemente il capo, troppo debole per concentrarsi oltre. Sia la realtà sia il sogno gli si sfibravano fra le dita al troppo rincorrerli; si ritrovò a stringere il giornale troppo forte, spiegazzandolo tutto. Se lo appoggiò in grembo, e mentre tentava di spiegare per bene la prima pagina, i suoi occhi si allacciarono al titolo di un trafiletto che spiccava in una colonna centrale.
Morto sul colpo un diciassettenne.
Il cuore del ragazzo perse qualche battito, e questo dovette far suonare un allarme perché il suo letto fu di colpo circondato da una piccola folla concitata. Il giornale gli fu strappato di mano e sparì dalla sua visuale, sostituito dal viso leggermente sfocato di una donna.
Capì che non erano i suoi occhi a vedere male, ma quelli di sua madre ad essere pieni di lacrime.
- Stai bene?
- Sono morto?
- Che cosa? No, Cristo. Cosa? No. – Lei scosse il capo a scatti, il volto rigato di pianto.
- Lui dov’è? Il…- Aveva la bocca completamente secca.
- Non c’è più. Amore. Non… non pensarci. Non ha sofferto. – Guardò i suoi occhi diventare due fessure annegate nell’acqua. - È morto sul colpo. Non pensarci.
E forse avevano solo sbagliato a iniettargli qualcosa nel corpo per tenerlo in vita, oppure una parte di lui morì insieme a quel ragazzo, perché sentì un punto fra il cuore e lo stomaco staccarsi, e lo vide librarsi in aria per un secondo o due, simile a veli d’acqua sospesi così, per poi andare in briciole che gli piombarono addosso con il fragore del metallo che suona a vuoto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Questo è il prologo di una storia che non sarò mai in grado di scrivere, ma di farci un film, spero, sì.
Sono emozionata di presentarvi Duncan S e il suo mondo di fantasmi. Mi piacerebbe raccontarvi la sua storia, e magari avendo pubblicato questo pezzo mi verrà il coraggio di continuare a scriverla.
L’altra sera sono stata al concerto dei Sevenfold, e questo mi fa da giustificazione per pubblicare questo capitolo monco, perché anche se non lo sapete, siamo abbastanza in tema.
 
We brought daylight to the night
 
Gatto Magro
   
 
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