Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: rosie__posie    15/12/2013    9 recensioni
John, orfano zoppo. Sherlock, giovane lord. Un amore impossibile in un'epoca in cui la sodomia era punita con la morte.
Lord Sherlock non aggiunse altro. Si limitò a fissarmi con quel suo sguardo enigmatico e indagatore, mentre io mi sentivo paralizzato, quasi incapace di respirare o addirittura pensare. Tuttavia, avrei giurato di sentire di nuovo quella sorta di connessione tra noi, come un invisibile filo di lana che qualcuno nel Cielo, magari un angelo dalle ali soffici e maestose, stava pian piano tessendo per unire la mia anima alla sua.
Note: AU!Medieval, hurt/comfort, amore proibito, accenni a stregoneria
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
ATTO XI. NELLE SEGRETE
 
L’indomani, quando l’alba iniziò la sua pigra ascesa su Grimpen, un timido raggio di sole fece capolino dagli scuri, solleticandomi gli occhi ancora addormentati. Mai ci fu risveglio più bello, quando mi decisi a sollevare le palpebre: il mio principe giaceva ancora assopito al mio fianco, i riccioli che solleticavano la mia spalla e il corpo ancora nudo e caldo che sfiorava il mio.
 
Sorrisi. Mi sentivo il dominatore del mondo, mentre mi domandavo se esistesse davvero qualcuno, lassù, che aveva preso a cuore le mie sorti. Se fosse stato davvero così, gli avrei fatto una sola, modesta richiesta: poter avere altri cento di quei risvegli. Non avevo grandi pretese, non ritenevo che potessi mai chiedere di più. Le mie spalle avrebbero ben volentieri supportato tutti i fardelli che il fato m’avrebbe riservato da quella mattina alla fine dei miei giorni se avessi potuto avere altre cento notti e altri cento risvegli accanto a Sherlock.
 
Un mugolio alla mia destra mi disse che il mio principe si stava svegliando. Alzai un braccio e lo passai sopra la sua testa, cingendolo per le spalle. Lo attirai a me, il mio respiro che era una carezza sul suo naso. “Benvenuto in questo nuovo giorno, mio principe” sussurrai al suo orecchio, prima di deporre un bacio reverenziale sulla sua fronte.
 
“Sono davvero desolato di contraddirti, ma sono semplicemente un molto onorevole, John” borbottò lui, con voce ancora impastata dal sonno. “Sai essere antipatico anche appena sveglio?”, dissi, prima d’abbandonarmi a una risata sentita. “Soprattutto appena sveglio” precisò lui, prima di aprire gli occhi e regalarmi la più magnifica delle visioni. Il suo sguardo brillava, di qualcosa che io non esitai a definire come felicità. Era radioso, brillante, era vivo. Era una memoria ancora presente dell’amore che avevamo vissuto quella notte, come se stesse accadendo di nuovo. Era uno sguardo che mi comunicava quanto fosse estasiato di trovarmi ancora lì.
 
Lo strinsi di più a me e affondai le mie labbra tra i suoi capelli. “Tu per me sei e resterai per sempre il mio principe” sussurrai. “E tu il mio cavaliere” soffiò lui contro il mio collo, facendomi rabbrividire. Rimanemmo abbracciati a scambiarci coccole e affetto fino a quando i raggi del sole divennero più insistenti. Fino a quando un insistente bussare non ci fece trasalire.
 
“Presto!” gridò Sherlock. Con movimenti rapidi e colpevoli, scostai le coperte e raccolsi le mie vesti sparpagliate a terra. Un attimo dopo, sparivo sotto il letto. Vidi i piedi nudi di Sherlock avvicinarsi alla porta, udii lo scatto della chiave, poi di nuovo i piedi che tornavano indietro. “Avanti” disse Sherlock, tornando a letto con un balzo. Poco dopo, due stivali fecero il loro ingresso nella stanza.
 
“Devo portarlo via” esclamò una voce conosciuta. Sherlock borbottò qualcosa a me incomprensibile. “Coraggio, piccolo Watson. Puoi anche rivestirti davanti ai miei occhi: non possiedi nulla ch’io già non conosca!” tuonò messer Moran.
 
Mi infilai a fatica i calzoni, stando semi-seduto sotto il letto, dopodiché uscii fuori. Con le gote infiammate di vergogna, notai Sebastian scoccarmi uno sguardo divertito e Sherlock darne uno a lui carico di disappunto. “Ciò che le mie parole intendevano, sire, è che John è un uomo come me. E come voi...” spiegò platealmente il mio cavaliere oscuro, con un inchino. Quanti significati erano racchiusi in quelle ultime tre parole, pensai. “Ti aspetto qua fuori mentre controllo il corridoio. Non tirate notte con l’ultimo bacio” disse poi, sparendo da dove era venuto.
 
Rimasti soli, mi rivestii di tutta fretta, quindi mi arrampicai di nuovo sul letto, accanto a uno Sherlock che si era tirato le coperte fin sopra il naso, lasciando fuori solo gli occhi e la fronte. Era imbronciato. Adorabilmente imbronciato.
 
“Ehi, lo sai che tra me e messer Moran... Sì, insomma...” esordii, tirandolo di nuovo tra le mie braccia e stringendolo dolcemente. Sherlock emanava un piacevolissimo tepore; se avessi potuto, non lo avrei più lasciato andar via.
 
“Lo so cosa siete” farfugliò lui, adagiando nuovamente il capo contro di me. Lo sentii respirare fortemente il mio odore. Mi piaceva. “Solo che non voglio…” “Che cosa non vuoi? Che io e messer Moran siamo qualcosa?” domandai io, affondando le labbra tra i suoi capelli. Il solletico che provai fu impagabile. “No, non essere sciocco!” continuò a lamentarsi il mio principe. Lo guardai senza capire. “Non voglio che tu te ne vada.”
 
Ebbi il timore che il mio cuore non avrebbe mai potuto reggere all’ondata d’amore che provai in quel momento. Mi morsicai il labbro inferiore perché non volevo abbandonarmi alle lacrime. Un uomo non avrebbe mai dovuto piangere; un cavaliere, non avrebbe dovuto nemmeno pensarlo.
 
“Sentimentale” fu il commento di Sherlock, al quale non erano sfuggite le mie emozioni. Pensai che a quella parola sarebbe seguita tutta una serie di lamentele al mio indirizzo, invece il mio principe mi sorprese, alzando il viso verso il mio e baciandomi le labbra, il naso, gli occhi.
 
Un colpo alla porta ci ricordò scomodamente che dovevamo sbrigarci. “Quando possiamo incontrarci di nuovo?” domandai, scivolando giù dal letto e infilandomi gli stivali.
 
“Stasera. Vengo io al fienile” rispose il mio amato, raggomitolandosi su se stesso. “Al tramonto?” feci eco io. “No, al calar delle fitte tenebre. È più prudente.”
 
Trasalii all’ultima parola: ero così immerso nella mia felicità da non essermi reso conto che ormai eravamo clandestini, che il nostro amore avrebbe potuto condannarci al rogo.
 
“Vai ora!” ordinò il mio principe. Ubbidii, dopo aver rubato un altro bacio alle sue labbra.
 
 
 
§§§
 
 
 
Mi ritirai nel fienile molto presto quella sera, subito dopo aver desinato. Non fu difficile evitare le mille domande ch’ero certo madonna Molly avrebbe voluto pormi.
 
Probabilmente perché aveva intuito già tutto. Probabilmente perché i miei occhi raccontavano già ogni risvolto dell’amore che stavo conoscendo.
 
La madonna intonò allegre canzoni per buona parte della sera, creando un’atmosfera di serenità che cullava tutti noi. Capivo che era felice per me e io non potevo ricevere regalo migliore.
 
Fu una serata splendida, dal clima teneramente familiare. Quasi come se tutti quanti – la madonna, il mastro e i piccoli – avessero voluto esprimermi il loro affetto, farmi capire che ero davvero uno di loro.
 
Come se avessero voluto salutarmi.
 
Quando Sherlock bussò al portone della stalla, mi pareva trascorsa un’eternità. Con un calcio, mi liberai della coperta e corsi ad aprire. Non stavo più nella pelle.
 
Lo afferrai per il polso destro e lo tirai dentro. Mi ritrovai con il corpo schiacciato al suo, contro la parete. Ci baciammo come se, per vivere, necessitassimo ognuno delle labbra altrui. Sentii le sue mani scorrazzare per il mio corpo con una sicurezza più matura di quanta non avessero avuto la notte precedente.
 
Ci adagiammo nel mio giaciglio e ci abbandonammo di nuovo all’amore, alternando momenti d’urgenza ad altri di estrema dolcezza.
 
Sherlock si lasciò andare al sonno nuovamente tra le mie braccia. Pareva quasi che l’intensità che dedicava all’amarmi lo prosciugasse di ogni sua forza, rimettendolo in discussione come un nuovo Sherlock Holmes. Uno più umano al pari mio.
 
Feci del mio meglio per non cadere addormentato, quella notte. Avrei voluto trascorrerla ad accarezzare i suoi riccioli, ad annusare la sua pelle, a cibarmi di lui addormentato tra le mie braccia.
 
Poiché c’era  qualcosa, qualcosa dentro me... Un piccolo e scomodo tarlo che mi stava sussurrando che non avrei più rivisto il mio amato principe.
 
Feci del mio meglio ma non ci riuscì.
 
Alla fine, caddi addormentato anche io avvinghiato a Sherlock. Dormii poco e male, fino a quando strani rumori mi svegliarono di soprassalto.
 
Aprii gli occhi con tutti i sensi del bravo cavaliere all’erta. Il buio che filtrava dall’abbaino sopra di me mi disse che non era ancora l’alba. Mi tirai piano a sedere, guardandomi attorno con circospezione. Determinai che il rumore che avevo udito era qualcosa di strisciante, seguito da uno scalpiccio simile a zoccoli.
 
D’improvviso, notai una flebile luce far capolino da sotto il portone. C’era qualcuno, là fuori. Mi chinai verso Sherlock con il cuore che mi moriva in gola.
 
Feci appena in tempo a donargli un ultimo bacio quando il portone si spalancò di colpo con un rumore sordo, sbattendo contro il muro e scagliando la spranga a terra.
 
Ebbi paura.
 
Intravidi appena dei cavalli e delle guardie fuori nel cortile. Sherlock si svegliò quando un altro paio di guardie si avvicinarono a noi.
 
Uno di loro gridava qualcosa di incomprensibile, mentre l’altro faceva minacciosamente oscillare davanti al nostro naso un tizzone ardente in una mano e una spada nell’altra.
 
Ci strattonarono per le braccia fino a farci uscire dal fienile, con le poche vesti che avevamo addosso. Ricordo che Sherlock protestava, rammentando ai presenti di chi fosse figlio, ma a quelli sembrava non interessare.
 
Una volta fuori, mentre una guardia mi bloccava i polsi dietro la schiena, i miei occhi riuscirono finalmente a vedere chi dovessimo ringraziare per tutto questo. Di fronte a noi, accanto alla staccionata dove solevo appendere il cuoio per farlo essiccare, se ne stava il bieco sceriffo Gregson in groppa al suo grigio destriero; poco più in là, nel suo sbuffo violaceo e raccapricciante, v’era il vescovo Milverton, che ci osservava imponendo su di noi il suo giudizio.
 
Non mi ci volle molto per rendermi conto di ciò che stesse accadendo, del perché stesse accadendo. Sopratutto, capii che cosa ci attendeva: il rogo.
 
Una delle guardie dello sceriffo fece salire Sherlock a forza su un cavallo e poi calò un cappuccio nero sulla sua testa, proprio mentre un altro individuo che non conoscevo e che vestiva abiti francescani prese a recitare le nostre colpe. Ovvero, il nostro amore.
 
In un guizzo di pazzo e insensato coraggio, tentai di liberarmi, sferrando un calcio all’indirizzo della guardia che mi aveva appena legato i polsi. Ma ciò che ottenni in cambio fu un pugno in pieno stomaco da parte dell’altra guardia. Poi coprirono anche me con uno spesso e scuro cappuccio, infine qualcuno mi sferrò un colpo secco in testa.
 
E tutto divenne buio.
 
 
 
§§§
 
 
 
Quando riaprii gli occhi, non ricordai subito gli ultimi accadimenti. Rammentavo solamente un’impietosa sensazione di disperazione che non voleva abbandonarmi.
 
Mi resi conto d’essere sdraiato a terra e quando cercai di rialzarmi una fitta terribile mi assalì al capo, a significare ch’ero ancora vivo. Per il momento.
 
Attorno a me regnava un buio raccapricciante. Mi trovavo in una cella piccola e sporca. Non v’erano né feritoie o abbaini che potessero lasciar entrare un qualche filo di luce in grado di dirmi se fosse ancora mattina. L’unica e modesta fonte d’illuminazione era data da due torce appese alla parete opposta alla cella. Per il resto, erano il buio e la solitudine più totali.
 
La circolarità dell’ambiente e la pungente umidità mi fecero supporre che mi trovassi nelle segrete a cui si accedeva dalla torre occidentale di Grimpen, regno indiscusso dello sceriffo Gregson, ove aveva allestito le sue prigioni.
 
Mi domandai se l’assenza di Sherlock fosse un bene o un male, oppure se lo sceriffo avesse semplicemente ritenuto che fosse più semplice separarci.
 
Alla fine mi alzai e cinsi le sbarre della porta della cella con entrambi le mani; poi, come uno stolto, presi a strattonarle con tutta la forza che avevo in corpo. Ma quelle ovviamente ebbero la sfrontatezza di non muoversi d’un solo pollice. Allora chinai il capo, appoggiando la fronte al freddo ferro, e sospirai rassegnato. “Stupido” sussurrai a me stesso.
 
Poi un gelido clink riempì la cella. Sollevai la testa e, sulla parete opposta, notai aprirsi una porticina di legno che prima non avevo notato e una figura a me tristemente familiare scendere i tre scalini. La mia gola si seccò improvvisamente.
 
“Bene, bene, bene! Chi abbiamo qui? Il bifolco John Watson, la prole del Diavolo! Che, domattina, tornerà finalmente in quegli Inferi da cui è stato sputato!”
 
Con il più sadico dei ghigni e nella sua armatura fin troppo scintillante, sir Anderson di Colquhoun si parò davanti a me, al di là delle sbarre.
 
Mi sentii fremere: perché, in nome del Cielo, non ero libero di fargli sparire quel ghigno a suon di pugni?
 
L’odioso fellone si massaggiò il mento. “Sai, amico, mi sono offerto volontario presso lo sceriffo per venire qua a controllarti prima che...” Una risata. “Beh, prima che tu domani venga arrostito davanti alla cattedrale!” Di nuovo quel prurito alle mani.
 
“Perché lo sai cosa ti capiterà domani, sì?” Continuò sir Anderson sgranando gli occhi. “Verrai arso vivo per spiare i tuoi peccati!” Era lampante come il sole assente in quel luogo quanto sir Anderson ci godesse, a parlarmi così.
 
“Sai, dicono che, per prima cosa brucino le palpebre. Un vero peccato... Non potrai abbassarle quando gli spettatori ti tireranno dietro uova, sassi e ogni altro regalo che vorranno farti!”
 
Abbassasi lo sguardo, strinsi i denti attorno al labbro e serrai i pugni. Se avessi dovuto essere condannato a morte per qualcosa, in quel momento avrei preferito fosse stato per la morte di quel fellone.
 
“Ma poi anche il resto del tuo corpo brucerà. Lembi di pelle si staccheranno pian piano l’uno dopo l’altro. Già, è così che morirai. Sempre che non lo farai prima, soffocato dal fumo!”
 
Ancora mi ostinavo a non guardarlo in volto, ma a quel punto capii che qualcosa era cambiato, che sir Anderson non stava più ghignando: l’intonazione della sua voce mi suggerì che s’era fatto improvvisamente serio.
 
“Vi ho visti” sibilò. “Ho visto lord Sherlock uscire con fare sospetto nella notte. E ho deciso di pedinarlo.” Seguì una risata raccapricciante. “È questo ciò che capita a chi pratica atti in vase indebito. A chi ama d’un amore infetto.” Non ci vidi più: di scatto, alzai viso e mani e, con movimenti così rapidi da non dare a sir Anderson il tempo di interpretarli, presi la sua testa con entrambe e gliela schiacciai violentemente contro le sbarre.
 
Quello gemette e reagì con un goffo tentativo di sferrarmi un pugno sul petto, ma io lo schivai prontamente spostandomi da parte.
 
“Cosa diamine sta accadendo qui, per Diana?” tuonò una voce.
 
Portai immediatamente lo sguardo nella direzione di provenienza di quelle parole e mi ritrovai di fronte un’altra visita inaspettata: sul primo dei tre scalini se ne stava il visconte Mycroft, circondato da due delle sue impassibili e impettite guardie personali.
 
“Il prigioniero ha osato colpirmi, milord” spiegò sir Anderson con voce ancora strozzata dal dolore. “E voi siete a conoscenza del fatto che alle guardie sia proibito rivolgere parola ai prigionieri?”  rincarò il maggiore degli Holmes, allacciando le mani dietro la schiena e scendendo i gradini con fare solenne.
 
Feci del mio meglio per non ridacchiare, ma mi fu impossibile. A un’occhiataccia di Mycroft tornai diligentemente serio.
 
“E ora sparite!” ringhiò il visconte all’indirizzo di sir Anderson, il quale s’affrettò a uscire continuando a mormorare le sue scuse.
 
Rimanemmo soli, a eccezione ovviamente dei due fanti, che apparivano ai miei occhi alla stregua di due fantasmi. Lord Mycroft mi osservò in silenzio per attimi interminabili, camminando avanti e indietro di fronte alla mia cella. Lentamente, molto lentamente. Mi guardò, mi scandagliò, mi analizzò, al pari – o forse meglio – di suo fratello. E io sostenni quello sguardo.
 
Infine, si bloccò di colpo e inarcò un sopracciglio. Ebbe molto di Sherlock, in quel frangente. “Tu non hai paura di me, ragazzo” constatò poi.
 
“Voi non mi parete spaventoso” risposi pronto. “Sire...” aggiunsi poi. Di certo, non avevo timore di un Holmes. Di un Milverton e dei suoi giochetti con le pire, invece...
 
Le labbra del visconte Mycroft si piegarono in un sorriso enigmatico. “Guardia!” Schioccò le dita e il basso soffitto sembrò tremare sotto tutta quella foga. Uno dei due fanti scese i gradini, s’avvicinò alla mia cella e mi lanciò la tunica che avevo lasciato nel fienile, quella mattina.
 
“Rivestiti” ordinò il visconte.
 
Obbedii, tenendo sempre lo sguardo fisso sul mio nobile interlocutore. Il visconte riprese a passeggiare lentamente, parlando soppesando le parole. “Dunque sei tu la persona per cui mio fratello...” Una pausa, in cui Mycroft sembrava alla ricerca dei termini più appropriati. “...ha scelto di passare sulla sponda dei perdenti.”
 
“Si possono dire tante cose di vostro fratello, tranne che sia un perdente! Sire” gridai io, accalorato. Dopotutto, non avevo molto altro da perdere. Il visconte arricciò appena le labbra. “È bello vedere come tu, ragazzo, possieda un cuore sincero. Non mi è ancora del tutto chiaro perché tu abbia scelto di farlo battere per mio fratello.”
 
Lo guardai senza comprendere. Come poteva non capire? Era suo fratello, dopotutto. Ma poi mi tornarono alla mente le parole di messer Sebastian e pensai che, forse, ciò che valeva per Sherlock e i sentimenti potesse valere anche per il visconte.
 
“Sono fiero che il mio cuore batta sincero per vostro fratello, sire, perché non conosco un umano più umano” dissi, mostrandomi fiero ed eretto. “Lui non si merita tutto questo!”
 
“Difatti non lo avrà” disse sbrigativo il maggiore degli Holmes. Lo guardai con le labbra dischiuse, senza comprendere. “Mentre parliamo, mio fratello sta negoziando la salvezza.” Uno strano sogghigno che aveva un non so che d’amaro si dipinse sul suo volto. “Dopotutto, come potevi pensare che un giovane di nobile rango potesse mai essere condannato al rogo? Sono i privilegi d’una certa condizione sociale. Una condizione che tu non hai.”
 
La mia testa si fece improvvisamente pesante, il mio corpo prese a tremare e gli occhi a pungere come se fossero stati improvvisamente trafitti da cento spilli. Il mio cuore fu felice di apprendere che Sherlock sarebbe stato salvo, ma una parte di me si sentiva ferita.
 
Lui era mille volte migliore di me; se mai fosse esistita una persona che meritasse di vivere quella era indubbiamente Sherlock Holmes.
 
Eppure, credevo di meritare qualcosa di più dal destino, mi sentivo migliore di tante persone che affollavano la contea di Dartmoor.
 
Quella, invece, era l’ennesima riprova che mi ricordava quanto la mia esistenza non avesse mai contato nulla. Ero sempre stato io il perdente; solamente da poco avevo imparato a conoscere una promessa di felicità e subito ecco che il fato veniva a reclamare il conto per quel poco che avevo ricevuto.
 
“Comunque hai ragione, Watson.” La voce del visconte mi riportò alla grigia realtà. “Sherlock è davvero diventato più umano da quando sta al tuo fianco.”
 
Strinsi i pugni, fino ad affondare le unghie nella carne. “Beh... È un vero peccato che non lo possa diventare ulteriormente” dissi con un fil di voce.
 
Il visconte mi dedicò una strana occhiata; sembrava quasi malinconica. “Già...” convenne. Poi mi voltò le spalle e mosse un paio di passi verso l’uscita, ma giunto al primo gradino si bloccò. “Ai condannati viene concesso un ultimo desiderio. Qual è il tuo? Un ultimo pasto? Oppure un incontro con una persona cara?” mi domandò, sempre voltandomi le spalle.
 
Un sorriso sbocciò speranzoso sulle mie labbra, ma venne ucciso immediatamente dal visconte. “Chiunque ma non mio fratello, beninteso” precisò. Chinai il capo e chiusi gli occhi. Il dolore che provai fu indicibile. Cosa avrei dato per rivederlo un’ultima volta! Cosa avrei dato per respirare ancora l’odore della sua pelle o salutare con le mie quelle labbra che tanto amavo!
 
Non avrei potuto dire addio all’amore della mia vita, all’altra metà di me stesso.
 
“Mia sorella, sire. Mia sorella Harriet; dimora presso sir Hudson” dissi infine, la voce strozzata da lacrime che non m’era permesso versare.
 
Mycroft Holmes annuì. “Buona fortuna, ragazzo” furono le sue ultime parole, prima di uscire scortato dai suoi fanti.
 
Rimasto solo, mi accasciai a terra, la schiena al muro e la testa tra le mani. Se fossi stato un vero cavaliere, avrei sicuramente trovato il modo di fuggire. Mi sentii davvero inadeguato, mediocre. Sin da bambino, avevo sempre creduto che la mia fine sarebbe stata quella: bruciare sul rogo e raggiungere la mia ascendenza. Forse, dopotutto, era giusto che fosse questo il mio destino. Il mondo avrebbe sopportato la perdita di uno zotico qualunque di nome John Watson.
 
Anche Sherlock, alla fine, sarebbe sceso a patti con la mia dipartita. L’avrebbe accettata, sarebbe andato avanti. Si sarebbe accasato con lady Kitty da cui avrebbe avuto un erede. E, magari, il suo cuore avrebbe conosciuto nuovamente l’amore.
 
Faceva male da morire. Forse più delle fiamme in cui di lì a poche ore avrei trovato la fine.
 
Credo trascorsero un paio di ore prima che la porta di legno s’aprì di nuovo. Un fante che non avevo mai visto lasciò entrare una spaurita e tremante Harry, che si guardava attorno con occhi sgranati. Balzai in piedi e lei corse verso di me. La chiamai per nome e lei chiamò me. Sporsi entrambe le mani al di là delle sbarre e la toccai: avevo un disperato bisogno di contatto fisico.
 
Harry scoppiò a piangere, il mio nome che frammentava i suoi singhiozzi e le sue lacrime che nascevano sul suo viso e finivano per rigare il mio.
 
“Come sta... Come sta la famiglia Stamford?” domandai con urgenza, stringendo mia sorella a me per quel che mi era possibile. Harry annuì, strofinando il naso umido contro il mio collo. “Stanno bene. Nessuna accusa è stata mossa contro di loro” la udii dire.
 
Affondai il viso tra i suoi capelli e presi ad accarezzarle teneramente la schiena: sarebbe stato l’ultimo calore che avrei percepito. Harry mi baciò fraternamente il collo una, due, tre volte. In silenzio, continuai ad accarezzarla e lei a baciarmi.
 
“Domani... Non venire” le intimai poi, quando ritrovai la forza di parlare. “Nemmeno la madonna e il mastro devono venire. Voglio che mi ricordiate...” Non terminai la frase, un singhiozzo che mi moriva in gola. Con urgenza, Harry si staccò da me e pose un dito sulle mie labbra.
 
“Non dire nemmeno ciò che stai per dire” disse grave. “Non dovete venire!” decretai con risolutezza. E allora Harry scosse il capo con veemenza, lo sguardo appannato da lacrime silenziose.
 
“Io sarò lì accanto a te. Ci sarò fino all’ultimo, proprio come ho fatto con nostra madre...”
 
La guardia, che sino a quel momento s’era tenuta in disparte, batté la lancia a terra per tre volte. “La visita è terminata” ci informò con voce resa quasi inumana per via dell’elmo calato fino a metà viso.
 
Allora Harry scoppiò in un pianto a dirotto, mentre mi baciava goffamente gli occhi, i capelli, le guance. La strinsi con forza a me: non mi capacitavo che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrei toccato qualcuno.
 
“Sono una pessima sorella!” si lamentò tra le lacrime, “dovrei darti forza, invece...” Le presi il viso tra le mani e la guardai intensamente negli occhi: “Sei stata la migliore delle sorelle, ricordatelo sempre” furono le ultime parole che le dissi.
 
Harry si staccò a fatica da me. Ricordo che allungò la mano e io feci altrettanto, lasciando che i nostri polpastrelli si sfiorassero sino all’ultimo. Con la guardia che la tirava per un braccio, continuò a camminare all’indietro, donandomi i suoi amorevoli occhi fino a quando la porta si chiuse dietro di lei e mi fu sottratta la sua vista.
 
Ero di nuovo solo.
 
Il senso di vuoto e la paura iniziò a strisciare verso il mio corpo e a farlo lentamente proprio. Mi accucciai in un angolo della cella, abbracciando le ginocchia al petto.
 
Mi sentivo così esausto che mi addormentai.
 
 
 
§§§
 
 
 
Un rumore mi svegliò di soprassalto. Non capii immediatamente che cosa fosse, ma quando mi resi conto che si trattava della porticina di legno che s’apriva, il mio cuore balzò in gola.
 
Pensai che fosse giunto il momento, che fosse già arrivato il nuovo giorno – quello in cui avrei dato addio a questo mondo. Mi ripetei che avrei dovuto essere coraggioso, che un cavaliere non avrebbe avuto timore della morte. Mi dicevo questo mentre mi avvicinavo alle sbarre attendendo il mio destino.
 
Ritenni di trovarmi di fronte uno degli uomini di Gregson, ma mi sbagliai.
 
“Hai preparato il tuo fardello, piccolo Watson? Leviamo le tende!” Trasalii alla vista del mio cavaliere oscuro. “Siete… siete venuto a farmi fuggire, sir Moran?” domandai io incredulo, le mani ben salde attorno alle sbarre. “Se avessi dovuto farti evadere, non sarei di certo passato per la porta principale” ghignò Sebastian, “ma avrei piuttosto aperto uno squarcio nella torre!” Poi prese a  guardarsi attorno, domandando a gran voce dove fossero quelle fottute chiavi. Infine, trovò l’anello, appeso a un chiodo in alto alla parete accanto alla porticina di legno.
 
“Nessuna evasione. Te ne vai ufficialmente da questo lugubre posto” mi spiegò, mentre sfilava il mazzo ed esaminava minuziosamente ciascuna delle chiavi. Io mi sentivo sempre più confuso. “Sono… sono libero?” domandai con un fil di voce. “Mhm, mi raccomando, piccolo Watson: contieni il tuo entusiasmo!” commentò sir Moran con il suo solito sarcasmo, “è accaduto che lord…”
 
Ma il mio cavaliere oscuro non ebbe il tempo di concludere la frase. Si udì un secco sprank: la porta si aprì sbattendo con tutto il suo fragore e sir Anderson comparve nelle segrete. “Per Diana! Cosa sta succedendo? Cosa ci fate qua voi?” tuonò.
 
“Orsù, non vi agitate, Col-chi-oun, altrimenti vi verrà sangue da naso” commentò imperturbabile Moran, infilando una chiave a caso nella toppa. Non era quella giusta. E io iniziai ad agitarmi.
 
“Si pronuncia Ca-uun” sibilò l’altro, avvicinandosi. “State facendo forse evadere il prigioniero? Questo ragazzo sarà arso vivo domattina ai dieci rintocchi!” Gli occhi di sir Anderson saettavano veleno a destra e a manca. “Non sto facendo evadere nessuno. La condanna è stata revocata. Informatevi!”
 
Una seconda chiave, ancora sbagliata. “Lo vedremo… Guardiaaaa!” tuonò sir Naso Grosso. E poi si scatenò l’inferno.
 
Ho ricordi alquanto confusi e affannosi di ciò che accadde. Sir Anderson sguainò la sua spada e Moran fece altrettanto, proprio mentre una guardia arrivava a dar man forte a quel fellone e il mazzo di chiavi scivolava a nascondersi nella paglia, lontano da me. Mi accucciai a terra e allungai il più possibile la mano fuori dalle sbarre, nel disperato tentativo di prendere il mazzo.
 
Sopra la mia testa echeggiavano i clink clank delle lame che si urtavano a vicenda. Alzai appena lo sguardo e vidi Sebastian che sferrava un calcio alla guardia, buttandola a terra. Ma Anderson non desisteva. Allora schiacciai il più possibile la mia faccia contro le sbarre e, finalmente, le mie dita sfiorarono il mazzo di chiavi. Lo agguantai con mani tremanti e mi tirai in piedi. Tutto il mio corpo tremava, invero.
 
Infilai la prima chiave nella toppa: sbagliata. Intanto Moran era riuscito a mettere non so come le mani sullo scudo della guardia sconfitta e, avvalendosi del suo riparo, schivava brillantemente i colpi sferrati da sir Anderson.
 
Al secondo tentativo, la chiave girò. Ero libero.
 
Vidi sir Sebastian compiere con il busto un semicerchio in senso orario, far scattare le braccia rapidamente in avanti e colpire con il forte della sua lama la spada del suo avversario, facendola rovinare a terra. I due uomini si guardarono per un attimo negli occhi, ansimanti. Anderson piegò un ginocchio e un braccio a terra, lanciando un’ultima occhiata di sfida all’uomo di fronte a sé. “Avanti, fatelo. Finitemi...” disse. Senza battere ciglio e con la fierezza della tigre dipinta sul viso, Moran alzò la spada perpendicolarmente sopra la sua testa, pronto a colpire per un’ultima, inesorabile volta.
 
“No!” gli intimai, bloccando per il braccio. “Non uccidetelo.” Messer Moran si voltò verso di me, accigliato. “Non merita che tu ti macchi del suo sangue” spiegai, “e poi causerebbe solo dolore a Mary.”
 
Sir Sebastian non ribatté, ma dai suoi occhi non mi fu difficile intuire che ritenesse che il mio cuore fosse troppo incline alla debolezza. “Come desideri...” borbottò e, con un gancio ben assestato, tramortì sir Anderson.
 
Poi udimmo uno scalpiccio di passi che s’avvicinavano correndo a noi. Per una frazione di secondo, ebbi paura che si trattassero di altre guardie dello sceriffo Gregson, ma poi vidi Sherlock mettere piede nelle segrete con aria inquieta e allarmata e mi fu impossibile non trattenere ulteriormente le lacrime.
 
Un attimo dopo, lord Sherlock era tra le mie braccia. La mia voce sussurrava confusi Stai bene? Stai bene?; la sua, gemiti sconnessi e rochi che al mio orecchio suonavano, tuttavia,  come la più bella delle melodie.
 
Il mio principe era tornato a prendermi e io ero stato così stupido da dubitare di lui.
 
“Se non vi dispiace, piccioncini, gradirei uscire di qui prima che arrivi altra gente che non conosce il significato della parola revoca” sentenziò Moran, separandoci non troppo gentilmente con le sue mani e mettendo per primo piede fuori dalla porticina di legno. “Via libera!” ci comunicò.
 
Moran si precipitò correndo su per le scale e Sherlock lo seguì, prendendomi per mano e trascinandomi dietro a lui.
 
“Hai... Hai negoziato anche la mia vita, nel tuo accordo?” domandai più a me stesso che a lui, mentre salivamo le scale.
 
Sherlock si bloccò di colpo quando non eravamo nemmeno a metà strada. “Hai dubitato di me?” I suoi occhi, non li dimenticherò mai: erano feriti. Lo guardai con aria colpevole.
 
“Tuo fratello ha detto...” “Oh, ho capito, hai ricevuto una visita da Mycroft!” Sul suo viso si dipinse un’aria più sollevata all’udire quel nome. “A lui piace rendere tutto più drammatico ma ti posso assicurare che gli vai a genio” tagliò corto, riprendendo a salire.
 
Questo non toglieva che mi sentissi ancora colpevole per aver dubitato di lui. Di noi. Per non aver creduto che il suo accordo includesse anche me.
 
Accordo...
 
Fui io a bloccarmi di colpo, questa volta.
 
“Un momento, Sherlock. Se hai fatto un accordo, che cosa hai concesso in cambio?” chiesi, allarmato e affannato. Sentii la sua mano irrigidirsi attorno alla mia. “Usciamo nelle stelle” rispose evasivo, senza cercare i miei occhi.
 
Quando mettemmo piede fuori dalla torre, notai che era ancora piena notte. Un fante con lancia in resta salutò Moran con un cenno del capo e un inchino nei confronti di Sherlock.
 
“Che cosa hai concesso in cambio?” gridai, incurante di tutto e di tutti. Era evidente che qualcosa non andava. Lasciai andare la sua mano, ma lui continuava a muoversi imperterrito davanti a me. “Sherlock!” gli intimai. E finalmente si fermò e mi guardò.
 
Il suo bel viso era solcato da due evidenti occhiaie e il suo sguardo era spento. Sospirò e poi tornò sui suoi passi, cercando le mie mani. “Mia madre, lady Violet, è in accordi con il vescovo Milverton. Lo è sempre stata e sempre lo sarà, temo.”
 
“In accordi per che cosa?” Chiesi io, stringendo le sue mani. Erano fredde e tremanti. “Per qualsiasi cosa: protezione, agio, potere...” Scrollò le spalle. “Ti renderai conto che l’aver trovato il figlio minore in atteggiamenti... compromettenti, beh non costituisce esattamente la miglior espressione di fedeltà.”
 
Sentii le lacrime salire prepotentemente agli occhi: sapevo dove stesse andando. “Così, mi stai dicendo addio...” sussurrai.
 
“Non è per sempre, John!” I suoi occhi tornarono a scintillare, il suo labbro inferiore tremò e strinse le mie mani con forza. “Alla morte di mio padre, Mycroft sarà il nuovo conte di Dartmoor e allora metteremo in atto il nostro piano, che stiamo già iniziando a tessere, per far spodestare Milverton e mettere al suo posto padre Lestrade!”
 
Lo guardai con una profonda tristezza: la sua idea non mi piaceva per niente. “Ma perché non far semplicemente finta che ci siamo lasciati? Potremmo sempre incontrarci di nascosto!”
 
“No!” proferì Sherlock con decisione, “perché tu mi distrai...” aggiunse, mettendo nell’ultima parola tutta la dolcezza di cui un Holmes era capace. Il mio cuore scalciava in protesta dentro al petto. “Ma potrebbero volerci mesi, anni prima che tuo padre muoia...” continuai a ribattere. Feci scivolare il mio sguardo sulle sue mani: mai mi erano parse così belle.
 
“Vederci di nascosto sarebbe troppo pericoloso, John. Devi stare il più possibile lontano da me e da Grimpen. Un’altra sola, piccola distrazione e Milverton ti arrostirebbe per davvero questa volta. E io non posso, non voglio...” mi attirò a sé e mi abbracciò goffamente,  ”perderti.”
 
Affondai il viso nella sua spalla e respirai forte l’odore della sua pelle. Chissà quanto tempo sarebbe passato prima che avessi potuto sentirlo nuovamente.
 
“Dove... Dove andrò?” dissi, staccandomi da quel porto sicuro. “Lui si prenderà cura di te per tutto il tempo” rispose, facendo un cenno con il mento. Mi voltai incuriosito nella direzione indicata da Sherlock e lo vidi: in sella a un magnifico stallone bardato, sotto la volta della porta occidentale della città e rischiarato dai pallidi raggi di luna, se ne stava lord Henry, arciduca di Baskerville.
 
“È una persona fidata e ci darà una mano.” Ebbi la sensazione che ci fosse dell’altro, che non potessi rimanere tutto il tempo a Baskerville Hall, luogo che lady Violet frequentava, ma non feci domande, essendo già abbastanza sconvolto da ciò che avevo appena appreso.
 
“Ehi, piccioncini, dolente di portare nuovamente scompiglio, ma sarebbe opportuno metterci in viaggio. Vostro cugino si stanca molto facilmente, come sapete” ci interruppe sir Sebastian, comparendo quatto alle nostre spalle.
 
“È mio cugino di secondo grado, per l’esattezza” lo corresse Sherlock sbuffando. “Fate ancora l’insolente con me e vi stacco la lingua a morsi” sibilò Moran, alzando un dito. “Va tutto bene, arrivo subito” intervenni io, nella speranza di riportare la pace. Eravamo tutti stanchi e provati, dopotutto.
 
Il mio cavaliere oscuro mi guardò, annuì e si voltò per raggiungere lord  Henry, ma poi Sherlock lo bloccò chiamandolo per nome.
 
“Moran?”
 
Una pausa stizzita. “Sì?”
 
“Abbiate cura di John...” disse, con un’intensità tale da farmi girare la testa. E il cuore.
 
Dio, quanto lo amavo...
 
Messer Sebastian sorrise: fu la prima e unica volta che lo vidi sorridere a Sherlock. “Lo proteggerò come se fosse sangue del mio sangue, milord” e così dicendo raggiunse lord Henry e montò a cavallo.
 
Le parole di Sebastian fecero tremare la mia anima già abbastanza scossa. Quante persone stavano facendo del loro meglio per permettermi di vivere, quella notte? Non ero sicuro di meritarmelo.
 
Riportai il mio sguardo sul lord Sherlock; il suo era indecifrabile. Cercai di memorizzare ogni più piccolo dettaglio del suo viso: le sfumature delle iridi, il profilo del naso, il colore della ciglia, i piccoli nei sul collo, la forma dei suoi riccioli...
 
Poi lo vidi frugare nella tasca del suo mantello. “Io non credo nella stregoneria” iniziò. Cercai i suoi occhi ma quelli scapparono da me. Una lieve sfumatura color cremisi tinse le sue gote. “Ma staremo lontani per troppo tempo per non provarci...”
 
Tra le sue lunghe dita ora stringeva un mazzolino di rosmarino: mi sovvenne alla mente che quel giorno, in occasione del nostro primo incontro agli olmi gemelli, mi raccontò della storia di questa erba officinale, di come maghi e streghe la usassero per preservare l’amore.
 
Mi prese una mano con fare incerto, mise il mazzolino sul palmo aperto e lo richiuse. Lo strinse forte, lasciando la sua mano attorno alla mia, come se non volesse più farla scappare.
 
Non sono capace di descrivere ciò che provai – provammo – in quegli ultimi istanti: paura, smarrimento, angoscia, amore, vuoto... Io me ne stavo andando da lui e lui se ne stava andando da me. Forse per anni, forse per sempre.
 
Quanto sarebbe passato prima che le mie orecchie si sarebbero di nuovo rallegrate al suono della sua risata cristallina? Quanto sarebbe passato prima che i miei occhi avessero potuto di nuovo dialogare con i suoi? Quanto, prima che le mie mani potessero di nuovo accarezzare la sua pallida pelle?
 
Quanto?
 
Lo strinsi forte a me, così forte che i miei sospiri si mescolarono ai suoi e i palpiti dei cuori divennero un tutt’uno.
 
“Promettimi che mi aspetterai...”
 
“Prometto.”
 
“Promettimi che non ti unirai con quella Kitty. Qualsiasi cosa, ma non questo...”
 
Ebbi quasi vergogna della mia voce implorante, assai poco nobile. Alla mia ultima richiesta, Sherlock si aggrappò di più a me, le sue unghie che graffiavano i miei abiti e la mia pelle.
 
Non disse nulla per attimi che mi parvero infiniti e io interpretai il suo silenzio come un “non posso prometterlo”. Il mio cuore si riempì di tristezza. Alzai lo sguardo verso la porta: Sebastian e l’arciduca erano in groppa ai loro destrieri; accanto a loro era comparso uno splendido cavallo bianco. Che sarebbe stato mio.
 
Poi sentii le labbra fredde di Sherlock sfiorare il mio orecchio. “Io credo di... amarti” sussurrò con un fil di voce. Annaspai in cerca d’aria. “Non ne sono del tutto certo... Non sono cose ch’io abbia mai provato prima, ma ho fatto molte ricerche e penso si tratti proprio d’amore.”
 
Per la prima volta, in quella lunghissima giornata, mi abbandonai a una risata di sollievo. Sentii lord Sherlock stringersi di più a me, mormorando un deluso “Ho detto qualcosa di sbagliato?” Strofinai il naso umido contro il suo collo.
 
“No, al contrario, hai detto la cosa più giusta di questo mondo inclemente...” Mi staccai da lui; con mani tremanti, presi il suo viso e donai a quelle amate labbra un ultimo, malinconico bacio. Poi, stanco, appoggiai la mia fronte alla sua. “Credo di amarti anche io...” bisbigliai.
 
Ci stringemmo ancora l’un l’altro, respirando l’altrui profumo fino a quando il nitrito dei cavalli non ci disse che era tempo.
 
“Ora vai” mi intimò il mio principe. Io annuii. Fu la prova più difficile, quella. Gli accarezzai una guancia, abbassai lo sguardo e mi voltai. A passo spedito, raggiunsi il mio cavaliere oscuro e l’arciduca. Montai in sella al mio nuovo destriero e strattonai le briglie.
 
Sparimmo nella notte senza più voltarci indietro.
   
 
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: rosie__posie