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Autore: Shomer    20/12/2013    10 recensioni
Fine anni '80: in un paesino sulla costa della nostra penisola, un gruppo di amici si ritrova a dover percorrere il difficile cammino che porta alla maturità.
C'è chi è innamorato di qualcuno con cui è incapace di stare insieme, chi non ha idea di cosa fare della sua vita, chi da sempre ottimi consigli ma è il primo a non seguirli, chi non è corrisposto, chi ha un peso che finirà per schiacciarlo, chi cambia giro, chi non vuole cambiare mai. Ci sono le serate in macchina, i litigi per la musica da ascoltare, gli amori, le insicurezze, i ricordi, le decisioni che non si vorrebbero prendere e i segreti che in un modo o nell'altro vengono a galla.
C'è qualcosa che se ne va e non torna più. E il momento in cui ci si rende conto che ad alcuni errori non si può rimediare.
Questa storia si è classificata prima al contest "Quadri e Picche: il contest delle sorprese!" indetto da phoenix_esmeralda, Slappy e Gaea.
Prima classificata al contest "Il meglio di me" di Lilith in Capricorn.
[REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo otto
Voglio pensare che ancora mi ascolti e che come allora sorridi. - Francesco Guccini

 

 

 
Estate 1989

«Che cosa vuoi dire?» chiesi in un sussurro.
«Gaia è incinta» ripetè Janis, adesso rabbiosamente. «Io e Gaia aspettiamo un bambino.»
Sentivo il sangue affluire al mio volto e le guance pizzicarmi; senza rendermi conto di quello che facevo mi spostai dal centro della stanza e andai a sedermi su una sedia, chinando di poco la testa e cominciando a fissarmi le ginocchia, nella speranza che da un momento all’altro avrei cominciato a pensare lucidamente e mi sarei resa conto di qualche particolare che avrebbe reso tutta quella situazione impossibile. Perché un errore doveva esserci per forza.
«Non dici sul serio» mormorai, più a me stessa che a lui.
Il suo sospiro profondo giunse chiaro alle mie orecchie. «Dico sul serio» disse. «Non metterti a piangere.»
Sentii che il mostro somigliante a mio cugino che abitava nel mio stomaco cominciava a scalpitare. Le lacrime si stavano facendo strada pizzicandomi gli occhi e premendo per uscire.
Stavo piano piano realizzando la situazione, ma una parte di me si rifiutava di credere che tutto quello potesse succedere veramente, si rifiutava anche solo di immaginare che avrei trascorso il resto della mia vita senza Janis.
«Da quanto» dissi.
«Da quanto cosa?»
«Da quanto lo sai.»
«Da subito… due mesi, due mesi e qualcosa…»
Spalancai gli occhi e alzai la testa, cercando qualcosa sul suo volto che potesse ancora farmi pensare che tutto quello era un pessimo scherzo. Non trovai nulla. Alla domanda che gli avevo posto mi aspettavo una risposta decisamente diversa: avevo pensato che lo sapesse da qualche giorno, al massimo una settimana, perché altrimenti me l’avrebbe detto. Dopotutto avevo ogni diritto di essere informata riguardo ad una cosa del genere. Avevo il diritto di sapere che avevo perso una delle persone più importanti della mia vita. Era un suo dovere informarmi del fatto che da quel momento in poi non ci sarebbe più stato, che da quel momento avrebbe dovuto stare accanto ad un’altra ragazza.
«Due mesi…» ripetei confusamente. «Lo sai da due mesi e me lo stai dicendo solo adesso! Tra una settimana parto!»
«Avrebbe fatto differenza dirtelo prima?» sputò Janis, assottigliando gli occhi.
«Se non fossi venuta qui, oggi, chissà quando me l'avresti detto!»
«Te l'avrei detto più in là» confessò. «E non fare questa faccia. Ti ho aspettata per mesi! Non sei mai tornata, non mi hai mai telefonato… Febri era morto e io non sapevo cosa fare! Ero a terra! Ero solo.»
Mi asciugai gli occhi con le mani, noncurante che da lì a poco sarebbero stati bagnati esattamente allo stesso modo. «Neanche tu mi hai mai chiamata.»
«Io non ti ho chiamata per rispettare la tua decisione!» urlò mio cugino, livido di rabbia. Era la seconda volta in tutta la mia vita in cui lo vedevo arrabbiato in quel modo. L’avevo visto quasi sempre felice, qualche volta triste e tormentato, raramente a terra, ma arrabbiato quasi mai. E faceva paura. 
«Che cosa credi, Mara? Credi che non avrei preferito mille volte stare con te? Credi che non mi sia costato nulla imparare a fare a meno di te? Ti sbagli!» gridò ancora, e ogni sua parola era come ricevere un’ulteriore coltellata. «Questo è stato l’anno più lungo della mia vita!»
Camminava velocemente per la cucina, con le mani nei capelli e un'espressione orribile, come se proprio in quel momento anche lui si stesse rendendo conto che ormai era tutto finito e che da quel momento in poi nella sua vita ci sarebbero state priorità differenti da quelle che aveva avuto fino a quel momento.
«La situazione è questa e io non posso farci nulla!» sbottò. «E la colpa è mia, Mara, ma lo è a causa tua.»
«Perché hai lasciato che ti baciassi?» chiesi, con un filo di voce.
Janis si voltò verso di me, facendo scomparire l’espressione rabbiosa e frustrata dal volto per far spazio ad una decisamente impotente e abbattuta. «Perché...» esitò. «Perché ti amo.»
Le sue parole ebbero l'effetto di destabilizzarmi a tal punto che mi alzai, andai da lui e cominciai ad urlare e a piangere con una tale violenza da rendermi probabilmente irriconoscibile ai suoi occhi. 
«Perché mi hai fatto questo?» gridai, sbattendo i pugni sul petto di mio cugino. «Perché?»
«Che cosa avrei dovuto fare?» urlò, afferrandomi i polsi per impedirmi di picchiarlo ancora. «Avrei dovuto continuare ad aspettarti?»
Sussultai, continuando a piangere disperatamente. Avvicinai il volto alle mie mani, strette dalla presa di mio cugino, e cercai di asciugarmi qualche lacrima senza risultato.
«Non mi importa nulla sapere che sei stato con un’altra ragazza. Ma perché l’hai messa incinta…» dissi tra i singhiozzi. Janis mi liberò i polsi e io mi coprii istantaneamente il volto con le mani. «Perché non sei stato attento?»
Mio cugino mi abbracciò e mi strinse forte a sé, accarezzandomi i capelli. Con questo gesto ottenne solo che i miei singhiozzi aumentassero. In quel momento mi sentivo tradita e abbandonata, non riuscivo in nessun modo a pensare al fatto che se tutto quello era successo la colpa era solo mia. Era mia perché avevo aspettato così tanto prima di far luce dentro di me, era mia perché avevo dato Janis per scontato. Mi ero sempre comportata come se lui per me ci sarebbe stato sempre e anche se avesse deciso di frequentare altre ragazze durante la mia assenza, avevo pensato che una volta che fossi tornata a casa sarebbe venuto dritto da me. E di fatto si era comportato così, ma quella sarebbe stata l’ultima volta. Per me non ci sarebbe stato mai più.
«Perché non sei stato attento…» ripetei, mentre Janis continuava ad abbracciarmi e ad accarezzarmi i capelli. Sentivo il suo cuore battere velocemente da sotto la sua camicia e ogni tanto il suo petto sussultava. Pensai che non avevo mai visto mio cugino piangere e che non era quello il momento giusto per farlo, quindi non alzai lo sguardo. Rimasi accucciata sul suo petto tenendomi le mani sul volto, continuando a chiedergli una spiegazione che naturalmente non esisteva, continuando ad incolparlo per qualcosa a cui non avrebbe potuto rimediare anche se avesse voluto. 
Aspettammo lì finché entrambi non ci fummo calmati e poi tornai come un fantasma a casa mia.

 

 
Estate 1988


Mi sentivo morta.
Ero caduta in una specie di trance che durò per alcuni giorni. Non parlavo, non mangiavo, non pensavo. Ricordo che la mia mente era completamente annebbiata, i pensieri che mi passavano in testa erano pochi e terribili, e trascorrevo tutti i momenti liberi seduta sugli scalini del pianerottolo di casa mia a guardare il vuoto e a fumare. Ogni tanto Janis o Freddie venivano a sedersi accanto a me in silenzio e poi, dopo un po', si alzavano e andavano via. Gaia e Marco mi telefonarono, ma io li ignorai senza neanche sentirmi in colpa per non essermi preoccupata per loro. In quei giorni era come se le altre persone non esistessero, ero incapace di dire o fare qualsiasi cosa. Non riuscivo neanche a piangere.
Mia madre, con il solito tatto che la contraddistingueva, mi disse che era passato a trovarmi il figlio del dottor Serli e che avrei dovuto uscire con lui, se avessi voluto, per svagarmi un po'. Non ebbi la forza di arrabbiarmi e allora lo fece mio padre, per la prima volta da quando ero nata, dato che solitamente ignorava i comportamenti insensibili di mia madre per non litigare. Quella volta non riuscì a trattenersi.
Andai al funerale di Febri con Janis, Freddie, Marco, Gaia e Rob, ma non rivolsi la parola a nessuno di loro. Passai quell'ora in chiesa ascoltando i singhiozzi di Gaia mentre tenevo la testa appoggiata sulla spalla di Freddie che con la sua mano sana mi accarezzava il braccio.
I successivi tre giorni li passai seduta sul pianerottolo di casa mia. Freddie venne da me, una volta, e dopo momenti di silenzio cominciò a parlare, dicendomi che aveva scoperto tutto. Io lo ascoltai passivamente.
Venne fuori che ad aprile dello stesso anno Febri una sera era uscito con il figlio di alcuni suoi cari amici di famiglia ed era andato in città con questo ragazzo, dove aveva conosciuto i suoi amici. Freddie disse che sapeva che quelle persone erano tutte tossicodipendenti, quindi ipotizzò che quel giorno Febri si fosse fatto trascinare e per la prima volta avesse fatto uso di qualche sostanza; non sapeva di preciso quale. Da quel giorno in poi, anche senza quel suo amico, Febri aveva cominciato a vedere più spesso tutti quei ragazzi, finché loro non avevano iniziato addirittura a venire in paese qualche volta. La cosa che più mi stupì fu che però Febri era stato bravo a nascondere i segni fisici. Quelli comportamentali c'erano tutti: era diventato scostante, bugiardo e menefreghista. E nessuno di noi se ne era accorto. Il nostro amico era morto e nessuno aveva fatto niente per impedirlo.
Mi scossi da quella situazione di trance solo quando la madre di Febri telefonò a casa, chiedendomi se potevo andare da loro perché aveva un compito da affidare a me e Janis. Aveva la voce rotta dal pianto. Tempo dopo scoprii che suo padre, invece, non aveva pianto neanche una volta. Riuscivo a capirlo.
Quando entrai in casa di Febri mi voltai istintivamente a sinistra, dove c'era il salotto, aspettandomi di vedere il mio amico che come al solito stava sdraiato sul divano a leggere uno dei suoi libri classici con quelle canzoni romantiche a tutto volume che, alla fine, piacevano anche a me. Quando non lo vidi distolsi subito lo sguardo, socchiusi gli occhi e continuai a camminare sentendo un'improvvisa ondata di freddo nonostante settembre fosse appena cominciato.
Trovai sua madre seduta al tavolo della cucina intenta ad accendersi una sigaretta con un'altra sigaretta e un posacenere strapieno davanti a sé. Mi disse che Janis era al piano di sopra e che mi avrebbe spiegato lui.
Non appena salii le scale, l'inconfondibile erre moscia di Guccini raggiunse le mie orecchie. Il volume era basso, quasi impercettibile, e veniva dalla stanza di Febri.
«Ed io ti canterò questa canzone, uguale a tante che già ti cantai... ignorala come hai ignorato le altre, che poi saran le ultime oramai» cantava. E, come al solito, le parole dello speaker alla fine, che ormai conoscevo a memoria: «e questa era Eskimo, grande successo del 1978...»
Io e Febri avevamo l'abitudine di registrare le cassette direttamente dalla radio, quindi non era raro che lo speaker cominciasse a parlare prima che la musica della canzone fosse finita e che noi lo registrassimo per sbaglio. Rimasi per un attimo ferma nel corridoio, in attesa che cominciasse la canzone successiva. Era di De Gregori.
«Da qualche parte dicono che vive bene, che relativamente non gli manca niente: può bere, camminare, scrivere e respirare... fantasma senza catene.»
Improvvisamente mi riscossi dallo stato di apatia in cui mi trovavo e feci qualcosa che, ancora oggi, mi fa venire i brividi ogni volta che ci penso. Mi misi a correre lungo il corridoio e spalancai la porta della camera del mio amico. Non so bene chi o cosa mi aspettavo di trovarci, ma quando vidi che seduto sul letto di Febri c'era Janis, la mia mano scivolò lentamente dalla maniglia della porta e fui pervasa da un'ondata di delusione.
«Sei tu» mormorai. «Certo. Lo sapevo.»
Janis mi rivolse uno sguardo strano, spento, come se non mi stesse vedendo per davvero. Si spostò dal centro del letto per andare a sedersi un po' più vicino al cuscino e farmi spazio. Mi accomodai vicino a lui.
«Non ti piacciono queste canzoni» sussurrai.
«Già» disse lui.
«Che cosa dobbiamo fare?»
«La signora Galea vuole che siamo io e te a scegliere la frase... sai, per la lapide.»
«Perché stai ascoltando queste cassette?»
«Non lo so.»
Appoggiai la schiena al muro contro il quale era posto il letto e Janis mi imitò, invitandomi con un gesto della mano ad avvicinarmi di più a lui. Mi sistemai in modo che le nostre braccia si toccassero.
«Continua a parlare, Lenticchia» disse.
«Che cosa devo dire?»
«Qualsiasi cosa. Non stiamo più seduti e in silenzio. Non voglio più che stai in silenzio.»
Parlai. Dissi a Janis le cose che mi aveva detto Freddie qualche giorno prima, gli raccontai di mia madre che aveva provato a combinarmi un appuntamento col figlio del dottor Serli e gli annunciai che nel giro di una settimana sarei partita per una città molto lontana. Janis interrompeva quello che dicevo ogni tanto per fare qualche considerazione e poi mi chiedeva di ricominciare a parlare, e allora io lo facevo, dicendo qualsiasi cosa, mentre le canzoni di Febri ci facevano da sottofondo.
Non dicemmo una parola su come ci sentivamo adesso che il nostro amico era morto, nemmeno una. Probabilmente ancora non eravamo pronti.
Poi, ad un certo punto, Janis la trovò. «E' questa» disse. «E' questa la frase che voglio scrivere. Porta indietro la canzone.»
Feci quello che mi chiedeva e ascoltai.
«Ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini

 
Estate 1989


Mancava un'ora alla mia partenza e ai piedi del mio letto c'era ancora una piccola valigia aperta. Di solito quella la usavo per mettere le cose più particolari come i miei libri preferiti o le cassette musicali, e l'anno precedente era rimasta mezza vuota. Non avevo voluto portare quasi nulla.
Quell'anno, invece, mi ritrovai a fare un giro della stanza per osservare attentamente ciò che tenevo negli scaffali, per decidere se valeva la pena portare qualcos'altro o no. Presi meccanicamente la scatola di legno chiusa da un lucchetto che conteneva il mio diario e la lanciai malamente dentro la valigia. Non scrivevo là sopra da circa un anno.
Poi presi una cassetta che Febri e Janis mi avevano regalato quando feci ventun'anni; insieme alla lista delle canzoni c'era una frase scritta con la calligrafia disordinata di mio cugino: “lascia perdere la roba sdolcinata che ha messo quello scemo e ascolta solo le cose mie”. Infilai anche quella nella valigia.
«Questa non la porti?»
La voce di Freddie mi riscosse dai pensieri che mi volteggiavano in testa. Era seduto sul mio letto e aspettava paziente che finissi di raccogliere le mie cose prima di accompagnarmi alla stazione. Era ora di pranzo e i miei genitori erano impegnati al ristorante e, dato che era domenica, non erano riusciti a liberarsi. Freddie aveva dovuto convincere suo padre a prestargli la macchina per accompagnarmi, sotto giuramento che almeno per quella volta avrebbe rispettato i limiti di velocità.
Aveva in mano la foto del compleanno di Febri e la guardava con un misto di nostalgia e tristezza. Distolsi lo sguardo dal suo viso per non scoppiare in lacrime. Quello che solo qualche giorno prima avevo creduto si potesse salvare, adesso era andato perso proprio come tutto il resto.
«Sì» dissi. «Mettila tu in valigia, per piacere.»
Feci un altro giro per la stanza e poi, rendendomi conto che non c'era nient'altro che volessi portare con me, andai a sedermi vicino al mio amico.
«Possiamo chiudere» decisi, facendo scattare le serrature della valigia.
Ci scambiammo un'occhiata rendendoci conto che quello era il momento dell'ultima sigaretta. Quando qualcuno di noi partiva, prima dei saluti avevamo quel nostro rituale che prevedeva una sigaretta in assoluti tranquillità e silenzio. Riusciva a rilassarci e a non pensare che saremmo stati lontani per molto tempo. Ma quella volta non poteva andare così. Io dovevo per forza capire.
«Tu lo sapevi?» gli chiesi, avvicinando il fiammifero acceso alla mia sigaretta. «Quando mi hai detto che non stanno insieme. Lo sapevi?»
Freddie mi guardò tristemente. «No, Mara, non lo sapevo» disse, ignorando il tono accusatorio con cui gliel'avevo chiesto. «Ho saputo della gravidanza solo ieri. Ma non mentivo, l'altra volta. Gaia e Janis non stanno insieme. Non più, almeno.»
«A questo punto dimmi tutto.»
«Sono stati insieme qualche mese d'inverno. Poi lui ha rotto, ma si sono visti qualche volta a giugno.»
Annuii. Rimanemmo in silenzio a fumare finché Freddie non si alzò e andò alla finestra.
«Janis è di sotto» disse, buttando la sigaretta ormai finita in un bicchiere che avevamo usato a mo' di posacenere. «Dovresti andare a salutarlo. Io intanto faccio un giro per controllare che tu abbia preso tutto.»
Mi alzai meccanicamente, gettai anch'io il mozzicone e andai di sotto dove ad attendermi fuori dalla porta c'era mio cugino appoggiato al muro, con Lenticchia Due che cercava di attirare la sua attenzione saltandogli addosso.
Mi chiusi la porta alle spalle e rimasi lì, in attesa che dicesse qualcosa. Notai che aveva messo gli occhiali scuri e mi sentii sollevata: non volevo guardarlo negli occhi.
«Che cosa ne vuoi fare del cane?» mi chiese, dopo un po' di silenzio, lanciando un’occhiata a Lenticchia che scodinzolava felice ai suoi piedi.
«Vorrei portarlo con me, se per te va bene» risposi.
«Non c’è problema. L'idea iniziale era questa.»
Pausa. Raccolsi quanta più aria possibile nei polmoni prima di parlare.
«Allora ci vediamo l’anno prossimo» dissi, passandomi una mano tra i capelli. «Oppure a Natale.»
Janis si sistemò meglio gli occhiali da sole sul naso. 
«Immagino di sì» disse, con un tono alto e sicuro. «Facciamo come l’anno scorso.»
«E cioè?» chiesi, alzando lo sguardo su di lui.
«Non ci sentiamo mai. Nemmeno una volta.»
Non mi si strinsero le viscere, non provai l’impulso di piangere e non mi arrabbiai con lui. Semplicemente annuii continuando a guardarlo in faccia e notai che strinse quasi impercettibilmente la mascella, prima di distogliere lo sguardo da me.
«Va bene» dissi. «Ti porterò sempre con me, nonostante tutto.»
«Anche io.»
Fu così che ci salutammo. E anche se io sapevo che ci sarebbe sempre stato qualcosa ad unirci, anche se lui sapeva che quello che era stato non l’avrebbe in nessun modo potuto cancellare e nonostante sapessimo entrambi che i ricordi ci avrebbero accompagnato per tutta la vita, quando ci voltammo per tornare a casa nessuno dei due ebbe il coraggio di girarsi.
Eravamo stati ingenui, spesso stupidi, e avevamo vissuto gran parte delle nostre vite con la convinzione che niente fosse irreversibile. E io magari lo sono ancora, perché spesso penso che quei momenti passati insieme, che all’epoca sembravano persi per sempre, possano in qualche modo ritornare. E spero che lo pensi anche lui.

"Non pensarci e perdonami se ti ho portato via un poco d'estate
con qualcosa di fragile come le storie passate. Forse un tempo poteva commuoverti,
ma ora è inutile credo perché ogni volta che piangi e che ridi
non piangi e non ridi con me."
Farewell - Guccini



Informo tutti i poveri sventurati che sono arrivati fino a questo punto, che ho pubblicato due capitoli di epilogo. Ecco Ragazzo Sorriso e Lenticchia: l'epilogo di un viaggio iniziato male! (e finito peggio, aggiungo io) http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2675155&i=1

Ci siamo. E' finita. E' la seconda volta che concludo una storia qui su EFP quindi mi sento un po' strana... come se se ne andasse un pezzetto di me! Allora, partiamo con ordine: non ho mai nutrito grosse speranze per questa storia, sono consapevole del fatto che è confusionaria, che io sono distratta e quindi non è perfetta, ci sono errori (che ho corretto, me li hanno segnalati in un concorso), ci sono frasi strane eccetera, ma ogni volta che cerco di modificarla in qualche modo non ci riesco. Ho cominciato a scrivere questa storia verso maggio e l'ho finita un paio di mesi fa, più o meno, e in tutto questo tempo ho cambiato tantissime cose e adesso non riesco neanche a modificare una frase! Dico a voi quello che ho detto alle organizzatrici del contest: la riprenderò in mano tra un annetto e vedrò cosa ne uscirà fuori. Magari la ripubblicherò, o non la vorrò vedere mai più, non lo so. Ma per il momento è questa.
Per quanto riguarda la fine... la storia ha avuto questo finale per due motivi: perché le cose non sarebbero in nessun modo potute andare diversamente e perché uno dei miei obblighi nel concorso era farla finire male (botta di culo, perché davvero non avrei mai potuto immaginare un finale diverso da questo). So che a molte di voi non piacerà e vi dirò la verità: anche io avrei voluto che Janis e Mara stessero insieme, ma non era possibile.
Ho scritto questa storia lasciandomi ispirare, oltre che da tutte le cose riguardanti la mia vita e tutte quelle sottoelencate, da due canzoni in particolare che sono Farewell e Quattro Stracci di Guccini. Se non le conoscete vi consiglio di ascoltarle :)

E ora passiamo ai chiarimenti:
  • La frase scritta sulla lapide di Febri appartiene alla canzone “La collina dei ciliegi” di Battisti;

  • il soprannome “Rob” sta per “Roberto”;

  • il soprannome “Lenticchia” è un omaggio a mio padre che tra i tanti soprannomi da piccolo aveva anche questo, sempre per le lentiggini.

  • i genitori di Mara sono un riferimento a quelli di Elizabeth in Orgoglio e Pregiudizio;

  • l'attaccamento di Janis alla sua macchina è un riferimento a Dean Winchester in Supernatural;

  • la frase “gli uomini sono arroganti o stupidi, e se sono amabili si lasciano condizionare al punto di non essere consapevoli di sé” è una citazione da Orgolio e Pregiudizio;

  • la frase “era compito mio insegnare al mio fratellino come si fa” è una citazione di Supernatural;

  • registrare lo speaker alla fine delle canzoni alla radio è una cosa che, per distrazione, faceva sempre mio padre da giovane, quindi questo è un altro omaggio a lui;

  • il nome “Sottomarino” è un riferimento alla canzone “Yellow Submarine” dei Beatles, e tutto il locale, Rob compreso, sono ispirati al posto di ritrovo mio e dei miei amici;

  • la frase “smettila di fumare così tanto, che sei in età fertile” è della madre della mia ex coinquilina; gliela ripeteva praticamente in ogni telefonata.

Poi poi poi... i ringraziamenti! Ringrazio infinitamente tutte le persone che hanno messo la storia tra preferiti, ricordati e seguiti :) ringrazio in particolare holls e ale93 che mi fanno sempre sapere cosa ne pensano <3
Ringrazio phoenix_esmeralda, Slappy, Gaea e darllenwr che hanno messo su dei giudizi ricchi e precisi :)
E ringrazio tutti i lettori silenziosi!
E niente... metto qui il banner del contest :)
Vi informo intanto che tornerò presto con una storia sovrannaturale e che ho in mente di scrivere un seguito di Ragazzo Sorriso e Lenticchia! 
A presto!




   
 
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