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Autore: Gaia Bessie    31/12/2013    2 recensioni
Qualcuno dice che, per Annabeth Castellan, la guerra non è mai finita. Lo s'intuisce dal sorriso carico di malinconia che dedica ai sottomessi della gerarchia di Crono, o dalle parole troppo dure che rivolge al marito. Siamo come estranei, Luke, estranei con dei ricordi. Eppure si dice che la vita non ci lasci mai cicatrici che non siamo in grado di sopportare. Oppure ci lascia sulla terra per essere trafitti con aghi d'acqua.
[Luke/Annabeth/Percy; OC | Post fine quinto libro alternativo| Mini long| Angst]
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Nico di Angelo, Percy Jackson, Rachel Elizabeth Dare
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Solo Zeus può capire la mia sofferenza in questo momento: è finita. Questo è l'epilogo, la conclusione di questa breve storia che ha accompagnato la mia estate e mi ha concesso di tirarmi un po' su. Ho ritardato tantissimo questo momento perché volevo un capitolo perfetto ma alla fine questo momento è arrivato. L'epilogo, la conclusione di questa breve parentesi di carta. Ancora non ho cominciato la stesura dei sequel perché mi sono incagliata in una long di un altro Fandom. Se volete ammazzarmi o altro, mi trovate su Facebook (Gaia Bessie Greengrass) o su Ask (Gaia Bessie; @BessieEfp). Non vi metto i link perché mi scoccia.
E, oddio, sto piangendo. Questa storia mi mancherà davvero tantissimo, così come mi mancheranno le recensioni e Luke e Annabeth che si ammazzano ogni martedì. E mi mancherà pensare a certe persone mentre scrivo, perché sono loro che mi buttano l'inchiostro addosso. Per quel che vale, questo è l'epilogo.
Spero che questa storia vi abbia lasciato qualcosa, anche se io stessa non saprei dirvi dove cercarlo, questo qualcosa. Magari tornerò presto con il sequel: sono troppo affezionata a queste parentesi per abbandonarle così. Spero che ci sia qualcuno ad aspettarmi, almeno per un po'.
Buona lettura e spero che quest'epilogo un po' nebuloso non vi deluda.
Bessie.
Piesse: Oggi è martedì. E non è solo il giorno in cui posto il capitolo, è anche il giorno in cui tento di non graffiarmi da sola pensando a qualcuno.



 

 
 
Mi dispiace.
Ma è finita.
(Forse).

 
 

Capisce che la guerra è cominciata, ancora e inevitabilmente, quando Nico le consegna un vecchio cofanetto che odora di polvere e ricordi. Un regalo riciclato e sul tramontare dei suoi giorni – ti accontenti di quel che resta? – che sembra morire in quel cigolio che rappresenta l'agonia della chiave che gira nel lucchetto e non trova mai requie. Il tempo sta cambiando rapidamente e muta da una pioggia senza fine a un sole che sembra voler sciogliere tutto quanto. E Annabeth indugia con le dita su quella scatolina di legno che, per dimenzioni, potrebbe benissimo essere vuota. Quando la serratura scatta, rivelando un foglio minuscolo, lei si sente quasi soffocare. È una farfalla di carta e inchiostro, minuscola, immobile, morta. Un regalo che t'impone di accettare quello che resta, che ti urla di rinchiuderti in un bozzolo con una farfalla morente sulla punta delle dita e un “ti amo” dolcissimo sulle labbra. Ma lei non lo fa, non potrebbe rimangiarsi le promesse e ritirar quel che rimane di lei.
Quando apre il biglietto, nota che Nico non si sporge per leggerne le parole né la guarda con aria impaziente né parla. Forse lo sa già, forse non gl'importa.
Legge velocemente con un sorriso evanescente sulle labbra, le mani piegate attorno a quel foglietto di carta. Nico somiglia a una statua di pietra, immobile, le armi sulle spalle e gli occhi completamente vuoti. Le tende la mano, esitante, e la tira su con uno sforzo assolutamente minimo. Non sorride mai.
«Dobbiamo andare, Annabeth» è tutto ciò che riesce a sussurrarle. Pensandoci, sembra quasi che sia sull'orlo delle lacrime. «Tu devi andare via, la nave ti aspetta».
Quando lei alza lo sguardo, sta piangendo. Stringe fra le mani il suo bigliettino, in silenzio, il volto striato di pioggia silenziosa. L'ha capito, finalmente.
Ha capito che Luke è morto: perduto, scomparso, dimenticato, niente. Nella sostanza, ha compreso che non lo vedrà più, che non sarà più accanto a lei per analizzare quel rapporto fragile e asimmetrico che le ha imposto. E qualcuno dice che la speranza è già morta – ma sente sempre un calcio, dentro: la speranza è lui.
Ma è troppo tardi per cullarsi nella sciocca illusione che lui possa tornare, essere ancora vivo. Luke è morto e al mondo esiste pochissima speranza, chiusa in un vaso.

(Eppure, anche se non lo dice ad alta voce, lei continua a credere che il pescatore fosse solo un pescatore e non un Generale. Lei lo sa che è ancora vivo).

«Andare dove, Nico?» è la domanda che gli rivolge, esitante, con un tremolio da invasata che la percorre. «La guerra è qui, ricordi?». Sorride, Annabeth.
«Sì, la guerra è qui» conviene Nico, una ruga d'esasperazione che gli scava la fronte. «Solo che tu non puoi combatterla».
Eppure qualcuno sostiene che è questa, la guerra delle donne: combattuta nel sotterraneo e con alleanze discutibili e prese di posizione. Vissuta in quello che resta e prosperata in un assenza che si protrae all'infinito. È cominciata, è finita, è cresciuta con i ribelli ed è diventata una ribellione. Finirà che si dovranno accontentare di quel che resta, ammesso che rimanga qualcosa dopo la distruzione più totale. È questa la guerra, è questa la morte. Questo è quel che succede quando miri troppo in alto.

(Non sempre riesci a sembrare ciò che vorresti essere, o a essere ciò che vorresti solo sembrare. E anneghi in quelle scorie che non sono poi niente. Ma rimangono).

«Non è una guerra, Nico» è la risposta meditata, sibilata, di Annabeth. È quel gusto un po' amaro che ti rimane in bocca dopo un bacio troppo dolce. «Rimane poco, della guerra, quando chi avrebbe dovuto combatterla non c'è o non può entrambi. La guerra è finita, Nico. Siamo noi che perseveriamo nel combatterne i fantasmi».
«Non puoi restare» risponde Nico, inflessibile. Gli cala sul volto una durezza che prima non c'era, mentre le sopracciglia scattano verso l'alto. «Mi dispiace».
Annabeth sorride, conciliante. E sembra un po' un'altra persona, ma Nico non ha il coraggio di ammetterlo, nemmenon con sé stesso. «Era proprio quello che temevo».
Sembra sdoppiarsi e mutare, due persone diverse, due concezioni diverse di una stessa sostanza. C'è qualcosa di strano nel sorriso che gli rivolge, una nota di malinconia un po' diversa, una speranza vagamente distorta della realtà. Nico non riesce a ricambiare il sorriso, non ci prova nemmeno, non potrebbe riuscirci. Era quello che temeva.
Proprio che quella guerra non contemplasse la sua presenza, lei che avrebbe voluto vedere cosa sarebbe stato del mondo. Lei che, se non fosse stato per qualcosa o qualcuno, avrebbe combattuto per morire nel modo più eroico e nobile possibile. Per giungere – nell'alto dei cieli – proprio dove avrebbe voluto o dovuto essere.
«Dovresti andare, Annabeth» dice lui, apatico, stanco. È presente quella disperazione che li sta divorando tutti, macchiandoli di rosso sangue. «Forse è meglio così».
«Perché me lo stai dicendo solo ora?» sventola la farfalla – morta – di carta come se fosse una bandiera: pace, speranza. Ma è macchiata di sangue in un angolo, anche se lei non se ne accorge, una macchia minuscola che potrebbe essere una ferita sul cuore o altro. Ma c'è. Una farfalla che sanguina anche da morta e non smette più.
«Sarebbe cambiato qualcosa?» domanda Nico, scrollando le spalle e spalancando gli occhi – le profondità dell'Ade. «Se te l'avessi detto subito, intendo dire».
Fondamentalmente, è quello l'interrogativo che la ossessiona: si chiede in continuazione se non casualmente non fosse esistita un'altra linea da seguire nello continuo procedere e accavallarsi di vicende e tempo mal impiegato. Se lo chiede ancora, guardando la sua farfalla di carta e ricordandosi che anche lei ha posto le sue condizioni.
Accontentati di quel che resta. Ma non ha detto a Jonathan che di lei resta così poco che è possibile chiuderla nel vaso di Pandora, insieme alla speranza.
«Non sarebbe cambiato nulla, Annabeth» risponde Nico, sorpassando quel succedersi di pensieri e parole. «In qualche modo riusciamo sempre a essere ciò che non siamo».
E lei è la dimostrazione pratica del corollario del figlio di Ade: per tutta la vita ha cercato di combattere dalla parte giusta, di amare la persona perfetta per lei, di camminare su un percorso non ben delineato. Ha fallito, proprio lei che ha vissuto nel male, sposata a un voltagabbana e traditore, lei che ha camminato dietro Luke per nascondersi da uno stormo di farfalle che non le lasciava scampo. E adesso vuole combattere. Una morte onorevole sarebbe meglio della vita che ha vissuto negli ultimi anni. Ma non lo dice ad alta voce (forse nemmeno lo pensa davvero) o lo dichiara quando si scruta le dita e nota due promesse attaccate fra il medio e il mignolo.
«E se invece fosse cambiato qualcosa?» sussurra Annabeth, facendo scivolare le dita sopra quel doppio cerchio dorato. «Se fossi rimasta, cosa sarebbe successo?».
L'unico rumore vagamente percepibile è un sussurro silenziosissimo di Nico, unito a una leggera smorfia che gli contrae il viso. La sua guerra è contro Annabeth, Annabeth-non-mi-arrendo-mai. Non lo fa. Si aggrappa alla convinzione di aver sbagliato tutto che è tipica dei bambini un po' insicuri, la certezza assoluta che in un altro tempo sarebbe andata molto meglio. Annabeth ci crede realmente, quando lo guarda e sostiene che avrebbe potuto arrivare ben più in alto.
«Forse Luke sarebbe ancora vivo» sussurra lei, aggrappandosi al braccio di Nico, spostando il peso su di lui per non crollare sul pavimento. «Forse sarebbe tutto diverso».
Stringe il bigliettino e la scatolina come farebbe una bambina con la sua bambola, appoggiandoli sulla guancia mentre cerca di stabilizzare il respiro. Chiude gli occhi.

(Hanno ripescato un pescatore annegato nel mare sconfinato del nuovo Nord, con la schiena martoriata e una cicatrice sul volto. Somiglia vagamente a Luke Castellan. È stato Nico Di Angelo a dirlo ad Annabeth Chase, con un biglietto piegato in due e sporco di sangue in un angolo. L'ha trovato nella tasca del pescatore).

«No, Annabeth» risponde Nico, scuotendo la testa con esasperata lentezza. «Non sarebbe cambiato nulla: anche ampliando il giro sarebbe finita così. Se è vero che la storia è fatta per ripetersi, è ugualmente vero che prima o poi la tua ripetizione ti centra comunque. Ti striscia vicino e ti avvelena con pensieri e parole e fatti. Ma arriva comunque. Non ha senso chiedersene il perché, sta di fatto che non importa quando faccia male: sarebbe arrivata comunque, anche contro la nostra volontà».
Le volta le spalle, lasciandola a barcollare sui suoi piedi, vittima di quella sferzata di parole che le ha gettato addosso, come una frustata violentissima. Come ciò che aveva subito la schiena martoriata di Luke, quando il martedì non riusciva nemmeno a muoversi. Quando lei s'inginocchiava accanto a lui e gli sussurrava un “no” che era un “sì” così silenzioso che non lo comprendeva nemmeno lei. Glielo lanciava addosso, ferendolo – per comprendere dopo troppo tempo che avrebbe voluto solo guarirlo.
«Come fai a esserne certo?» domanda lei, in un sussurro inudibile. «Come fai a non vivere nel dubbio?». Nel dubbio di non poter salvare nessuno.
Nico sorride. Sul fondo dei suoi occhi c'è quella luce strana, oscura, una candela spenta in una stanza buia. Non parla spesso né tanto, ma dice più di quanto dovrebbe.
«Non puoi esserne certa, lo sai» risponde, semplicemente. Annabeth non si accorge del tremolio che assume la sua voce. «Ma devi convincertene, se vuoi stare bene».

(Devi trovare qualcosa, qualcuno, a cui aggrapparti per non affondare nel nulla, devi farlo tu stessa. Non puoi invocare un aiuto quando succede così: o ti salvi da sola o non ti salvi. E se non ti salvi, non hai più scelta: muori.).

Annabeth annuisce, lentamente, come se temesse di perdere la testa in un semplice movimento.

«Non lasciare che ti uccida, Annabeth» mormora Nico, prima di aprirle la porta, ricordandole che la nave la sta aspettando. «Nè Castellan né Percy vorrebbero che tu ti lasciassi andare in questo modo» con la speranza nel vaso di Pandora. «Tocca a te portare avanti la sua – loro – battaglia». È la guerra delle donne.

(“E adesso che si fa” sembra chiedere lei, ricordando solo dopo una manciata infinitesimale di secondi che possiede già la risposta. “Adesso si muore”. Forse).

Annabeth esce velocemente, il cofanetto e la lettera stretti al petto, Nico che non la segue. In un fruscio di gonne è già fuori con l'aria che le accarezza il viso. Adesso si muore. Il mare è una distesa immensa, illimitata, in continua espasione nel mormorio delle onde che divorano la sabbia. La corteggiano e ci fanno l'amore. E poi la uccidono, semplicemente, lasciandola a salvarsi da sola. Annabeth si muove verso la nave ormeggiata, il tramonto – sarà per il colore del cielo, che Nico non l'ha accompagnata fuori? – che le colora di rosso il viso. E i capelli. Se si volta, vede solo il nulla che si protende per afferrarla – se si accontenta di quel che resta. Forse.

(Adesso si muore, adesso si vive. Sai dire, Annabeth, per quante volte la pioggia ti ha inciso le ossa del viso? Dovresti già essere morta. Ma non lo sei. Forse).

Sulla nave l'aspettano donne che non conosce o che conosce e finge di non vedere. Si culla in una solitudine completa che vede solo lei, perfino immersa in quel mare di donne che vorrebbero combattere e che non possono – imbavagliate con pensieri e parole. O sfregiate da aghi d'acqua – o magari non possono dire che non vogliono.
Quando si volta per guardare il Nord, per l'ultima volta (forse), il bambino comincia a muoversi. Annabeth sorride, una mano sul ventre. È un maschio, lei lo sa.
Un'onda accarezza il fianco della nave, facendola oscillare. L'unica a non muoversi è Annnabeth Castellan: sorride del suo sorriso da lupo e si accarezza il ventre prominente – ormai si vede chiaramente perfino da sotto la gonna – e probabilmente spera di morire. O ti salvi da sola o muori. Non urla e non prega o piange.
Non puoi ucciderti, ma puoi aspettare che qualcun altro provi a farlo. O potresti anche continuare a vivere, nell'eventualità che tutto si sistemi.
Ma la nave non si ribalta e la vedova Castellan rimane salda sul ponte – forse è il Fato che si fa beffe di lei, che le impone di vivere in un posto troppo basso per lei.
Un altro calcio la fa sobbalzare, ricordandole che il termine della gravidanza è così vicino da sembrare quasi tangibile. E suo figlio è battagliero come entrambi i genitori.
Ma lei sorride perché – lo sa, ne è certa – che sarà un bambino. Perché una bambina finirebbe per somigliarle troppo e lei non saprebbe come approcciarsi a una sua copia, non saprebbe salvarla: dovrebbe accontentarsi di quel che resta e si sarebbe dovuta salvare da sola. O sarebbe morta, di lunedì, nella vasca da bagno.
Ma sarà un maschio. Anche se Annabeth dimentica sempre che le guerre sono eterne e, questa, è la guerra delle donne.

 

***

 

Annabeth ha una raccolta delle lettere di Luke, nascoste in un cofanetto sfumato di celeste e che odora di gelsomino e cocco sintetico. Sono legate da un nastro rosa chiaro e tenute in rigido ordine cronologico. Cominciano tutte allo stesso modo: Annabeth. Non “amore”, “moglie”, “tesoro” o altro. Cominciano tutte con il nome di Annabeth Chase perché suo marito aveva la fama di essere totalmente privo di cuore e temeva di sciogliersi e cominciare con un appellativo che non rispecchiasse il suo stile gelido, la sua prosa rigida ma garbata che usava per scrivere lettere d'affari che non duravano più di una decina di righe. E chiama sempre sua moglie per nome (tranne in una lettera) e non comincia mai esprimendo a parole ciò che pensa realmente, non lo fa mai.

(Tranne in una lettera: comincia chiamandola amore mio. Non sembra nemmeno scritta da lui).

Solitamente prosegue con frasi scarne e impostate, frasi cominciate e troncate sul nascere da un punto che proclama la genesi di una serie di sottintesi che rimangono tutti sulla penna e annegano nell'inchiostro. E sono quasi tutte (tranne una) lettere fredde che mirano a sincerarsi sulle futilità di rito: come stai? Come procede? Le nausee persistono? Un'infinita sequela di domande che nascondo qualcosa che nessuno potrebbe mai leggere, poiché ogni membro della corte di Crono sa che Luke Castellan è senza cuore – e quel che aveva l'ha donato a sua moglie: lo dice, in poche parole, in una lettera indirizzata a Percy Jackson. L'ha bruciata nel caminetto dopo il pomeriggio del rogo: hai strappato il cuore a chi custodiva il mio. A sua moglie, Luke, non l'ha mai detto.

Eppure, in una lettera riesce a non essere freddo è distaccato e non fa domande o altro. La chiama amore mio e, in poche parole, pochissime riesce a dire tutto ciò che ha tenuto in bocca finché non ha avuto la certezza assoluta che sarebbe morto: l'ha scritto su carta e ha conservato le parole in un cofanetto, affinché qualcuno le leggesse e le portasse ad Annabeth Chase. Nessuno gli ha detto che quelle parole avrebbe dovuto pronunciarle prima, insieme a quel “sì” incastrato fra i denti che rivolgeva a sua moglie per non darle l'eccessivo potere di una certezza assoluta. Dimmi che mi ami. Avrebbe riso, se solo avesse saputo che sua moglie avrebbe finito per imporre a qualcuno di accontentarsi di tutto quel che resta – e cosa resta? Ossa divorate dalla pioggia, ossa che hanno trafitto il cuore di un Generale. Resti, scorie, il nulla. Adesso si muore.

Luke non firmava mai le lettere col suo nome. Le ha firmate tutte con la sua sigla “Generale Castellan, G.C.” e mai col suo nome di battesimo o con una nota melensa e un po' sdolcinata che usano gli amanti con le amate. E non conclude mai con un “ti amo” perché non vuole esaudire una richiesta (tranne una volta, nell'ultima lettera. Ma nemmeno allora riesce a scriverlo a dirlo esplicitamente) che sua moglie non gli pone mai. La prosa scarna, arida evidenzierebbe quell'affetto che vorrebbe riversare fra le pagine. Non lo fa mai. Forse, teme che qualcuno affermi che Luke Castellan ha sempre avuto un cuore ben funzionante, che gli sconquassa il petto quando sua moglie lo guarda e scuote la testa e gli medica le ferite. È stato bello, ma non ti amo. Qualcuno continua a sostenere che Luke Castellan ami sua moglie con tutto il cuore, anche se lui non ce l'ha proprio, un cuore. E lei continua a essere fredda come una regina di ghiaccio anche quando lui la bacia e le dimostra che l'ama ancora, sempre. È stato bello. Lei non gli sorride mai e ogni martedì getta un fiore blu su una tomba senza nome o corre nelle prigioni o piange sempre. Ma non ti amo.
Annabeth ha sempre risposto a tutte le lettere che lui le ha mandato (tranne una) con lo stesso stile ampolloso e distaccato che rende perfettamente la freddezza che si è imposta nei rapporti coniugali, nei martedì infiniti che ha odiato per un bel po'. E poi li ha amati quando ha capito che, oltre le belle parole c'era anche altro. Un cuore. E lei l'ha cercato a tentoni finché non l'ha sfiorato con la punta delle dita e ne ha compreso la posizione e la forma, e ha capito che forse Luke l'aveva sempre avuto.
Luke ha sempre piegato con cura le sue lettere (tranne l'ultima: è piegata malamente e sporca di sangue in un angolo) come farfalle minuscole e intangibili. Le ha sempre pogiate sul cuore prima di spedirle e le ha condite con parole e pensieri mai espressi. Tranne l'ultima: è il prototipo di lettera perduta, dimenticata. Dice tutto ciò che non si può dire ad alta voce, perché è così ovvio che non si può palesare o esternare in alcun modo. Eppure, Annabeth non se n'è mai accorta nel suo demolire ogni tentativo di approcciarsi a lei che avrebbe dovuto avere solo un cuore. Ma forse era lei quella gelida, nei modi in cui gli spezzava gli ultimi brandelli di sentimenti o lo rifiutava con quelle parole troppo dure, da conoscenti, usate per marcare una discrepanza fra lui e Percy Jackson. Va tutto bene, ma non ti amo.
L'ultima lettera di Luke sono solo poche parole e uno schizzo di sangue, pochissime parole e nessun inizio o conclusione o preludio o lettera in quanto tale. Poche parole, due soltanto che riprendono un concetto per lui vecchio di mesi ma mai espresso. Forse, non ne ha mai avuto il coraggio, di dirlo a voce alta o di scriverlo. Forse non importava, forse ha aspettato di non avere altra scelta se non vomitare tutto ciò che teneva in quella bocca perennemente piena come la caverna dei fantasmi o il vaso di Pandora prima di essere scoperchiato. L'ultima lettera di Luke giace, come una promessa infranta, sotto il nastro rosa e sfilacciato. Sembra un rimprovero muto, come quell'inchiostro un po' sbavato che in certi punti si confonde col sangue fino a creare un nuovo miscuglio. Due lettere soltanto. Amore mio. C'è un minuscolo “addio” alla fine della pagina, ma non si riesce a leggerlo.

 

***

 

La fanno distendere e lei non sembra nemmeno lì, con gli occhi sognanti e persi in un altro tempo e in un altro luogo, le mani strette attorno a quel bigliettino con sole due parole e una riga cancellata dal sangue. Amore mio. Una mano dura, spigolosa e piena di geloni le tira indietro i capelli, avanti e indietro sulla fronte sudata. Il dolore lo sente appena, così come il lento oscillare di una nave senza meta. Annabeth respira pianissimo, gli occhi chiusi, come se galleggiasse in un mare immenso.
Le dicono di urlare, se la fa stare meglio, di rilassarsi perché è la prima volta e andrà per le lunghe. Ma a lei non importa, quanto durerà, non le importa più niente.
È scivolata in una sorta di torpore silenzioso, dove le urla le arrivano attutite e non fa nemmeno così male. Sente a malapena la freschezza della pezzuola che le passano sulla fronte, il profumo delle erbe sparse sul pavimento, il mormorio concitato delle altre donne. Povera piccola, dicono di lei, povera piccola.
Perchè tutti ricordano che quel bambino le è stato instillato in grembo con la forza, che lei non voleva quel figlio, che lei non voleva niente. A sedici anni voleva salvare Luke, a diciassette avrebbe voluto ucciderlo, a venti avrebbe voluto morire lei stessa. A ventuno è rinata a metà, con la voglia di vivere e combattere dei sedici anni stemperata dalla malinconia prorompente dei venti. Ha una nebbia davanti agli occhi, quando il dolore s'intensifica. Amore mio. Bisbiglia un nome e nessuno la sente. Urla ma non ha voce, stringe mani di cui non indentifica la provenienza. Amore mio e l'ultima riga della lettera, quella parola che non riesce a leggere. Le sue urla squarciano il silenzio. Addio. Ce n'è un'altra ancora. Speranza.

 

***

 

La battaglia infuria, concentrata proprio davanti al palazzo di Crono: ha costretto i ribelli a scoprirsi e ad addentrarsi nel territorio del nemico, passando in svantaggio palese. Jonathan e Nico guidano la carica, infrangendo le barriere, sollevando un gran polverone: menano colpi di spada, sbraitano ordini e cercano di non morire.
Jonathan non vuole morire per conquistare quel che considera al pari di un bottino di guerra. Annabeth Chase lo aspetta nel secondo covo dei ribelli – con una ribellione – con un figlio che sta per nascere e il ventre pronto per ospitare altre creature, poiché la prima verrà prontamente esiliata perché figlia del migliore Generale di Crono.
Nico non vuole morire per conquistare qualcosa. Salvare qualcuno, ma questo non lo ammetterà mai. Quando evoca i morti sobbalza sempre, come se si aspettasse di vedere una brutta parodia di zombie dai capelli rossi saltar fuori e aggredirlo. Ma non succede. È la guerra delle donne, ma loro non combattono più.
Crono è completamente scoperto: crede che vincerà, ancora, come la prima volta. Ha perso dei Generali, una manciata di Tenenti e qualche basso manovalente che aspirava a un lavoro di più ampio prestigio. L'assenza di Luke Castellan comincia a farsi sentire nel lato scoperto e in balia dei ribelli, nella ruga che si forma sulla fronte del Titano.
Rachel Elizabeth Dare resta sullo sfondo, fra i ribelli e i Generali. Sussurra una preghiera, sottovoce, rivolta a una divinità che non esiste più. Apollo sta combattendo – amore mio, lasciami almeno un addio – dalla parte sbagliata, sta perdendo, potrebbe morire. Solo se trovassero qualcuno disposto a far scomparire un Dio, ma ormai i limiti sono stati superati ampliamente, come quelli delle tradizioni e dei cuori. È stato bello, ma non ti amo.
Jonathan si è ricoperto di sangue non suo e gloria, tantissima gloria. Ha ucciso e ormai non rimane quasi più nessuno – c'è chi ha mutato schieramento e chi è morto e non può mutare nulla, se non la composizione del suo corpo che si lega per sempre alla terra.
Aspetta di poter ritirarsi, mentre uccide e assapora il sangue. E sorride, perché ha la certezza assoluta di vincere. Peccato che gli abbiano sottratto la possibilità di uccidere il ben famoso Generale Castellan, si dice. Se lo figura sempre con un pugnale piantato nel petto e sua moglie che assiste, in silenzio. Non ti amo.
Nico combatte contro Crono, il tempo che sembra rallentare per entrambi, la fatica che comincia a farsi sentire. Un pugnale che sgretola il corpo del Titano, i morti che l'assalgono. Nico si volta e vede solo gli occhi verdi di Rachel. Mi dispiace, ma non ti amo.

 

***

 

Hanno vinto. Glielo sussurrano a bassa voce, scuotendola da quell'angolo silenzioso in cui si era rifugiata. Una donna dai capelli precocemente grigi le sorride, un fagottino in braccio e tante buone notizie che si perdono nella bocca. Hanno vinto, hanno smembrato Crono e l'hanno rinchiuso nel Tararo. Gli Dei torneranno presto.
Eppure, lei si sente ancora incompleta, come se le mancasse qualcosa. O qualcuno. Un peso sul cuore che non svanisce mai – addio.
«E' una bambina bellissima» le sussurrano, porgendole quel fagotto delicatissimo. «Sta bene ed ha gli occhi dello stesso colore del mare all'alba».
Le porgono una bambina minuscola – una bambina, non un bambino – dal corpicino caldissimo, gli occhi chiusi e una delicata peluria bionda sulla testa. È bellissima, le dicono una bambina bellissima. Capelli filati nell'oro, occhi color del mare, la figlia della guerra, la figlia della pace e della speranza. Speranza.
«Elphis» mormora Annabeth, stremata. Se la stringe al petto, divorata dalla preoccupazione di doverla proteggere da quei pericoli che lei stessa teme. «Si chiama così».
Elphis significa speranza. E un giorno lei se la appoggerà sulle ginocchia e le racconterà di come con suo padre si erano inseguiti, irretiti e forse anche amati.
È stato bello, ma non ti amo. Glielo racconterà in un sussurro strozzato in gola, giocando con i boccoli indomabili, sorridendole dolcemente. Le mostrerà il portagioie dove tiene tutte le lettere di Luke (meno una, che tiene a contatto col cuore) legate con un nastro rosa e sfilacciato. Forse le dirà anche di quei martedì e mercoledì in successione, dei lunedì passati sul bordo della vasca, della promessa che conserva fra il mignolo e il medio. Le dirà che c'era un tempo dove non c'era posto per la speranza, ma Luke l'aveva cercata e voluta e gliel'aveva anche imposta. Si promette di essere sincera con quella bambina così piccola, s'impone di esserlo con sé stessa. Con Luke non ha più – mai – avuto la possibilità di esserlo. Non è stato bello, ma ti amo.

 

***

 

Tornano tutti. I ribelli – anche se ormai sono dalla parte dle giusto e non hanno più bisogno della loro ribellione – sono tornati a riprendere donne e bambini. Jonathan è tornato a chiamare la sua promessa, dispersa fra il mignolo e il medio di Annabeth Castellan. Trova anche un bambino e la speranza nascosta nel vaso scoperchiato di Pandora. Una bambina minuscola, che potrebbe somigliare a lui se non fosse che è la copia esatta e in miniatura di Luke Castellan, ma con la tranquillità rassegnata di sua madre. Un'infante bellissima, ma lui non riesce nemmeno a guardarla. Qualcuno mormora che Jonathan possieda la stessa potenziale assenza di cuore che era di Luke Castellan. Qualcun altro sostiene che forse sono la stessa persona.
Rachel Dare ha tenuto in braccio la bambina solo per pochi secondi. Ha sorriso, complice al Dio che ha voltato le spalle al suo schieramento per tre volte. Apollo verrà costretto a lasciarla, probabilmente, ma lei sorride. È stato bello, ti amo. Sulla bocca ha probabilmente il sapore di un addio non voluto. Fra i denti, un “addio” non pronunciato. Nico le ha sussurrato una promessa, senza imporla fra il medio e il mignolo. Speranza e il vaso scoperchiato di Pandora. E Rachel, l'Oracolo, è rimasta immobile e ha ammesso di averlo promesso durante la negoziazione di quei termini così svantaggiosi per lei. Ma gli ha lanciato un messaggio silenziosissimo.
Accontentati di quel che resta. Nico l'ha compreso troppo tardi, che resta così poco perché la speranza l'ha rapita tutta Apollo sul suo carro del sole. Potrà anche essere bello, ma non credo che sarò mai in grado di amarmi. Forse a lui sta bene qualsiasi cosa, pur di racimolare anche un minuscolo “sì” preso controvoglia.
Le due donne sorridono, la bambina gorgheggia felice. La guerra è finita. Anche se alcuni non hanno fatto in tempo a vederla.

 

***

 

C'è qualcosa di strano, in Annabeth Castellan: qualcosa che stordisce e depista, un aggettivo insito in lei che svia da una qualunque supposizione. Perché succede che, quando qualcuno si ferma a guardarla, nota solo l'alone sbiadito di malinconia che l'avvolge e il secondo dopo lei è già sparita.
E qualcuno dice che è il suo sorriso, che si è riscaldato con gli anni e con l'ausilio di frecce infuocate che hanno scoperchiato il vaso di Pandora – così si dice – ed è stato in grado di stregare il Generale Castellan e Jonathan senza cognome, entrambi privi di cuore. È stato Luke Castellan a raccoglierla e a portarla via dalle rovine del campo di battaglia, strappandola dalle grinfie di un fato troppo duro per lei, e poi sposata con il benestare di una divinità che può essere corrotta solo con il sangue, poiché è di sangue e disperazione che si nutre. È stato Jonathan a imporle una promessa fra il mignolo e l'indice, un cerchietto d'oro che ha significato condanna.
C’è qualcosa di strano, in lei, anche mentre si muove attorno al dondolo, la mano persa in quella della figlia: Annabeth Chase porta un vecchio biglietto a contatto col cuore. Amore mio, addio, speranza. Il vaso scoperchiato di Pandora. Ma succede che suo marito, ogni volta che la guarda, rimane pietrificato: come una storia che si ripete ogni volta, appena la piccola Elphis sorride e una cicatrice invisibile sembra volerle dividere in due il volto. È cresciura simile al padre, diversa dalla madre, figlia di guerra e pace. Elphis Castellan non ha mai conosciuto le battaglie e il sorriso malinconico di sua madre, i martedì a fossilizzarsi sul dondolo e i lunedì nella vasca piena d'acqua e sangue. Si stringe a sua madre e la guarda riporre le sue lettere in un portagioie sfumato nel celeste, tranne quell'unico biglietto sporco di sangue che tiene sempre sopra il cuore. E qualcuno dice che, per Annabeth Chase, la guerra continua ancora.

 

 

 

Hanno tolto la speranza dal vaso scoperchiato di Pandora e hanno messo al suo posto una farfalla di carta.

(Amore mio, addio).







Ringraziamenti:


 

Siamo arrivati alla fine, come succede per tutte le cose, se non belle, che piacciono a qualcuno. E a me è così piaciuto scrivere questa storia che mi sento tremendamente vuota e non so come riuscirò a scrivere questi ringraziamente. Ma per amore delle persone che sto per elencare, ci proverò.
Le prime persone da ringraziare sono Silvia e Isabella, rispettivamente la mia compagna di sclero e mia sorella. Se non mi avessero torturata, bastonata e bacchettata, nonché riempita di cuscinate, questa storia non ci sarebbe. O, meglio, sarebbe nel primo documento word. Quello che il mio pc ha divorato e ora si trova nell'iperuranio.
Segue la mia fantastica beta, fantastica nel combinare guai e incasinarmi la vita sentimentale. Se non si fosse unita anche lei al bacchettamento, probabilmente la storia sarebbe rimasta nella sua bella cartella. Giuls Malfoy, senza di te sarei persa. Ma avrei meno problemi sentimentali, ma ti tengo lo stesso.
Ovviamente devo ringraziare anche BeeMe per il suo grande ritorno, mi era mancata tantissimo, insieme a tutti quelli che hanno recensito. 
Un doveroso ringraziamento va alle 8 persone che preferiscono questa storia, alle 7 che la seguono e a chi la inserirà fra le ricordate.
Infine ringrazio la Summer del mondo reale. Senza di lei non sarei stata male abbastanza per scrivere questa storia. Stesso discorso vale per il mio Luke che mi ha fatta completamente uscire fuori di testa. Ovviamente lo odio abbastanza per fargli fare una simile fine.
Grazie a tutti, davvero, spero di poter scrivere di nuovo in questo fandom.

   
 
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