Settimo Capitolo:
Πάγος
Un
giovane uomo di circa trent’anni camminava su un campo ricoperto di cadaveri,
dove qualche ora prima si era combattuta un’estenuante battaglia. Per la
libertà. Per il dominio.
I
suoi capelli mossi di un castano molto chiaro si muovevano lentamente nella
leggera brezza notturna, pregna di un soffocante tanfo di morte e disfatta. I
suoi occhi blu, profondi e cupi come il mare, scrutavano il paesaggio desolato,
mentre sguinzagliava i soldati a cercare i superstiti.
Camminava
con un’espressione preoccupata, urlando più volte il nome della bambina che il
Comandante della prima falange gli aveva affidato.
L’alba
stava per sorgere e il milite sapeva di per certo che, anche se l’avesse
trovata, sarebbe ormai congelata a causa della gelida pioggia e del sibilante
vento del nord. Sperava che uno di quei banditi che trafugavano i cadaveri
l’avesse presa con sé, perlomeno avrebbe avuto la possibilità di continuare a
vivere, seppur in un modo orribile.
Più
per caso che per un’accurata vista, notò il corpicino rattrappito della
bambina, avvolto da un mantello lercio. In un primo momento desistette
dall’avvicinarsi, non volendo vedere il crudele fato che era spettato a una
ragazzina così giovane; poi però si fece coraggio e, forte nella propria
armatura cesellata, avanzò fino a inginocchiarsi vicino a quella creatura.
Era
già pronto ad intonare un canto funebre, ma desistette quando la fanciulla aprì
stancamente gli occhi azzurri, arrossati per il lungo pianto.
<<
Lachesi>> esclamò stupito l’uomo estremamente felice, tanto che
l’abbracciò, prima di avvolgerla con il proprio mantello scarlatto <<
Lachesi, mi hai fatto preoccupare>> aggiunse, dandole dei caldi baci
sulla fronte gelida.
Lei
non rispose, limitandosi a stringere a sé il tessuto, assaporandone il poco
calore. Era congelata, tanto che il Comandante per scaldarla la cinse in un
abbraccio amorevole, quanto quello di un padre.
<<
Ancora qualche ora e saresti morta>> fece un lungo sospiro, poi continuò
a parlare << Andiamo via, hai bisogno di cure. Ora chiamo i medici della
mia falange e...>>
<<
Agápe, papà non si è ancora
svegliato>> mormorò la bambina, muovendo debolmente le labbra screpolate
per il freddo.
Agápe guardò il cadavere, rimanendo in muto
silenzio carico di amarezza. Il suo vispo sguardo blu si spense un poco, prima
d’infiammarsi di nuovo di nervoso, serrando i pugni con talmente tanta forza da
mostrare le vene sottopelle. E lanciò infine un’occhiata di odio a quel
Comandante che stava dando le direzioni ai soldati, non molto distante da loro,
prima che la bambina lo frenò dall’urlargli contro.
<<
Voglio diventare un soldato>>
L’uomo
la fissò per lungo tempo, non riuscendo a capacitarsi di come volesse ancora
perseguire il proprio sogno anche dopo aver visto la spietatezza della realtà.
All’inizio pensò che fosse solo un momento di pazzia dovuto al terribile trauma,
ma poi, quando vide negli occhi della bambina lo stesso sguardo determinato che
un tempo ardeva il padre, allora capì che non era follia.
<<
Ma non capisci? Rischierai di fare la stessa fine! Ti conosco da quando sei
nata, ero grande amico di tuo padre e sinceramente l’ultimo luogo dove vorrei
vederti è morta su un campo di battaglia!>>
<<
Voglio diventare forte come mio padre. Così quando tornerà, sarà fiero di
me>>
<<
Ti prego, desisti...>>
Poco
distante dal Quartier Generale in disuso, dicembre, 851
Lachesi si
accovacciò vicino ad una rudimentale croce fatta con due bastoncini legati
insieme tra loro impiantati nella neve.
Le ferite si erano
rimarginate, seppur il malanno che le aveva fatto salire la febbre non fosse
guarito completamente; infatti di tanto in tanto starnutiva, passava minuti a
tossire e la sua voce, avendo il naso chiuso, era alquanto comica, poiché
tramutava quasi tutte le consonanti in labiali.
Eppure, anche con
l’influenza, non aveva avuto l’intenzione di rinunciare a quel giorno e di restare
a letto a riposarsi, bensì era uscita, sotto la nevicata, affrontando il freddo
pungente.
Erano passati un
paio di giorni dalla missione e molti membri della Legione Esplorativa si
trovavano all’interno di Sina per partecipare al processo del Gigante-Orso.
Soltanto pochi erano rimasti al Quartier Generale in disuso, tra cui anche
Wilde, che per colpa della trasformazione in titano era caduto in coma; così
per la ragazza fu semplice uscire inosservata, limitandosi a sorridere e affermare
che la dottoressa le aveva ordinato di andare a prendere delle erbe medicinali
per i feriti.
Era piuttosto
brava a mentire, perché era previsto nel suo addestramento per diventare un soldato:
aveva dovuto rubare, fingere, scatenare risse pur di sopravvivere, perché la
vita era il dono più importante che gli Dei avessero concesso agli uomini. Ma
lei aveva sempre messo in discussione il proprio regalo, preferendo sacrificare
la propria esistenza per salvaguardare quella altrui, piuttosto che vivere
pienamente come facevano gli altri Comandanti.
E le divinità
l’avevano punita più volte per questa sua sfacciataggine, facendo continuamente
crollare il suo mondo di carte. Il matrimonio, il dolore, lo sterminio: erano
punizioni del Destino.
Ma ad ogni caduta,
lei si era rialzata ed ora per la quarta volta
si era costruita di nuovo un castello, ma anche quello era destinato a cadere.
Prima o poi.
Si
sedette davanti alla croce, osservandola a lungo in silenzio, non curandosi
della neve che, lentamente, le stava biancheggiando i lunghi capelli castani,
le ginocchia, persino il naso arrossato per il freddo pungente e per il
raffreddore.
Restò
lì a meditare, a riflettere su argomenti più vari e più diversi tra loro,
mentre il suo corpo tremava leggermente, visto che la camicia e i pantaloni della
divisa non erano adatti per le rigide temperature.
<<
Ohi>> disse una voce alle sue spalle d’un tratto, dopo molto tempo, riportandola
alla realtà.
<<
Vattene>> sbottò lei, portandosi le gambe al petto e appoggiando il mento
sulle ginocchia << Non voglio parlare con nessuno>>
<<
Devi riposare>>
Levi
le si avvicinò. Con una brutale pacca le scosse la neve dalla schiena e, con un
secondo scappellotto, anche dal capo. Lachesi non si curò del proprio
superiore, rimanendo per lunghi attimi con il viso chino.
<<
Non voglio parlare, vattene>> ripeté, questa volta con un tono simile ad
una supplica.
<<
Il mio è un ordine, Thàlassa. Non me ne frega nulla se vuoi gelarti il culo qua
fuori, tu devi riposare. Pesi morti in squadra non li voglio avere>>
A
questa affermazione seguì un altro silenzio. Rimasero affiancati per parecchi
minuti senza parlarsi, l’uno in piedi, l’altra seduta, osservando l’opera
rudimentale e commemorativa.
<<
Non dovresti essere a Sina?>>
<<
L’orso è riuscito a fuggire per colpa delle guardie incompetenti>>
rispose l’uomo, poi volse lo sguardo alla ragazza, la quale era rimasta ferma
nella sua posizione iniziale << Perché sei qua fuori?>>
Lei
non replicò inizialmente, limitandosi a fare un sospiro carico di rammarico.
Tuttavia poi, quando si distese sulla neve per guardare la volta ingrigita, sbuffò
e lentamente iniziò a parlare.
<<
Sono due anni>>
<<
Cosa?>> sbottò lui, studiandola con un’occhiata cupa.
<<
Oggi mio figlio avrebbe dovuto compiere due anni. Le divinità l’hanno salvato
da una vita con una madre degenere. Ma ti immagini? Io madre?>> rise, anche
se il Caporale riuscì a notare che aveva i pugni serrati, come se fosse pronta
a picchiare qualcuno.
Lachesi
aveva sempre raccontato le sue battaglie, guerre, scontri; raramente
però aveva avuto il coraggio di riferire di fatti malinconici e quando ciò
accadeva, era solo con lui. Non capiva il motivo per cui riuscisse a essere
così aperta con l’anello mancante tra l’uomo e l’iceberg. Forse il sapere di
ricevere sempre una risposta schietta e sincera riusciva a renderla a suo agio.
Anche
in quel momento attese a cuor sospeso uno sbuffo, una lamentela, anche una
presa in giro da parte del suo superiore. Tuttavia, al contrario delle sue
aspettative, lui non disse nulla, limitandosi a sedersi al suo fianco.
Allora
decise di continuare a parlare, perché ogni parola che le usciva dalla gola era
un peso in meno sull’animo.
<<
Il mio matrimonio con Pólemos era da subito stato una merda, tanto che avevo
perso completamente la forza di volontà di alzarmi dal letto e medicarmi le
eventuali ferite non cicatrizzate, arrivando addirittura sperare di morire per
un’infezione. Volevo combattere e cadere in battaglia, ma le guerre raramente
si svolgevano in inverno e ancor più raramente richiedevano il sostegno delle
falangi primarie. Così vivevo i giorni da perfetto soprammobile, rimanendo ore
a osservare il soffitto. Finché non rimasi incinta. Al contrario delle mie
aspettative però, fui felice, tanto che quella creatura che portavo in grembo
diventò una nuova ragione di vita. Ricominciai a uscire, a parlare con gli
altri Comandanti, a studiare nuove tattiche belliche e a ridere. Ma dopo
quattro mesi, per decisione dei Polemarchi, dovetti abortire, perché temevano
che il figlio di un Gigas potesse
essere troppo potente. Sarebbe dovuto nascere nei primi di dicembre, così aveva
detto la sibilla. Il tre dicembre, lo stesso giorno in cui è morto mio padre.
Le divinità sono state a me sempre ostili, questo è un chiaro esempio>>
Si
portò le mani sul freddo viso, come per impedire alle lacrime di scendere
copiose. Lottò con se stessa, arrivando persino a raggomitolarsi per trattenere
un sussulto, che mascherò con più colpi di tosse.
Non
doveva piangere, non doveva mostrarsi debole un’altra volta davanti a lui. Non
aveva la scusante dell’alcol, anche perché il tè che beveva ogni mattina non
poteva reputarsi alcolico.
Fece
per alzarsi e fuggire, ritornare al quartier generale a testa china come un
comandante dopo una pesante sconfitta, ma qualcosa le prese saldamente il
polso, impedendole di compiere un altro passo.
<<
Piangi>> le ordinò Levi.
<<
Sono stanca di dimostrarmi debole davanti a...>>
<<
Piangi! Sei molto più debole se ti dimostri così ottusa!>>
Il
cuore della giovane ebbe un sussulto, un muto gemito che le fece cedere la
stabilità delle gambe, cadendo a ginocchioni sulla neve. Combatteva con tutta
se stessa per trattenere il pianto, ma era una guerra che non avrebbe mai
potuto vincere, perché era sempre stata impotente davanti alle proprie
emozioni.
Molto
distante dal Quartier Generale in disuso, dicembre, 851
Wilde camminò
scalzo sul gelido manto bianco, non curandosi delle pungenti sensazioni e
continuando a marciare senza un’apparente meta. Gli alberi si fecero sempre più
fitti man mano che progrediva, fino a raggiungere uno spazio circolare in cui
al centro si trovava una lapide scritta con lettere in un alfabeto astruso.
Qui, vicino alla
tomba, fece cadere un mazzo di fiori rosso cremisi e rimase in muto silenzio
per parecchi minuti, mormorando un tenue canto funebre. Quando la melodia finì,
fece per andarsene, accendendo un sigaro che aveva precedentemente trafugato a
Elizabeth, ma per poco non si scontrò con una figura più alta di lui, dai
lunghi e incolti capelli ramati e dall’altrettanto non curata barba, con il
viso coperto da un cappuccio da cui trasparivano soltanto qualche lembo di
pelle chiara e un bagliore dorato.
<< Non mi
sorprende vederti in libertà>> disse l’albino, buttando poi fuori dai
polmoni il fumo speziato.
<< Allora è vero che non ci vedi>>
rise l’uomo, spostando il pensiero commemorativo davanti al piccolo monumento
in pietra.
<< Devo
ringraziare mio padre per la mia quasi totale cecità>> ringhiò Oscar,
chinando poi lo sguardo.
<< Era
l’unico modo per permettere a un figlio bastardo di vivere. La tua
più grande sfiga è quella di essere stato riconosciuto
come
figlio di Pólemos, perché tua madre era una sua concubina>>
<<
Sei molto informato>>
<<
Mi piace impicciarmi delle faccende altrui>>
<<
Tale madre, tale figlio>> fece un lungo sospiro, abbozzando un sorriso,
poi alzò il capo in direzione del druido << Perché sei qui?>>
Gwydion
non parlò, iniziando a girare nel piazzale come un avvoltoio su un cadavere in
via di putrefazione, fermandosi soltanto quando un ramo ghermì un lembo della
sua lunga tunica nera e logora.
<<
Volevo semplicemente concludere il nostro scontro prima di dileguarmi>>
Wilde
estrasse le spade del dispositivo della manovra tridimensionale, attendendo
l’avversario. Quest’ultimo slegò un lungo bastone in legno, decorato finemente,
appeso prima alla schiena, facendo un ampio ghigno. Dopo un attimo di
esitazione in cui i due combattenti si studiarono, lui si lanciò all’attacco,
fendendo l’aria.
Infatti
Oscar aveva anticipato le mosse del nemico e, spiccando un ampio balzo, sparò
un paio di colpi di pistola per poi riafferrare le proprie spade, atterrando
saldamente su un ramo di un albero.
Il
drudo un po’ si stupì della tremenda agilità del ragazzo che non sembrava
curarsi del proprio deficit, ma non abbassò la guardia e respinse facilmente i
proiettili, per poi svanire nell’ombra. Il giovane rimase in silenzio,
immobile, ascoltando attentamente ogni singolo rumore, dal gorgogliare del
ruscello al tenue respiro degli animali.
Quando
Gwydion stava per infilzarlo con una daga, il soldato schivò nuovamente il
colpo, cercando poi di fendere le difese dell’avversario. Le loro armi
cozzarono più e più volte su quel precario ramo, finché l’uomo non riuscì a
spezzare la lama di una delle due spade, sfregiando il viso del combattente.
Oscar
riuscì a ferire la caviglia nemica con un potente calcio, facendo sbilanciare
così il corpo. Ma il rivale non demorse e, compiendo un ampio slancio
all’indietro, colpì in pieno viso il giovane, il quale scivolò giù dalla
pianta.
Riuscì
a riprendersi dalla caduta appena in tempo, evitando così un attacco ostile;
tenne poi lontano il druido con una serie repentina di spari per riprendersi.
Le
armi bianche si sfidarono ancora più volte, non riuscendo mai a prevalere l’una
sull’altra, anche se il metallo delle spade di Wilde non poteva competere a lungo
con quello magistrale della daga di Gwydion.
<<
Chi l’ha forgiata?>> domandò il ragazzo, volteggiando ed evitando un
affondo.
<<
Vuoi veramente saperlo?>> gli chiese lui, avvicinandogli la spada per un
secondo attacco diretto.
<<
Sì>> rispose il giovane, fermando la lama con i palmi delle mani <<
voglio saperlo>>
<<
Vi dirò tutto. A tempo debito>> concluse, dando un calcio in pieno
stomaco ad Oscar.
Quest’ultimo
barcollò, indietreggiando, vomitando saliva. Inaspettatamente la pedata era
stata incredibilmente forte, tanto che per un momento gli aveva mozzato
addirittura il fiato. Disarmato, arretrò sempre più, fino a non avere più vie
di fuga, con il dorso contro il tronco di un albero e il bastone alla gola che
premeva, lasciandogli soltanto la capacità di fare brevi e affannati respiri.
<<
Perché non vuoi usare i tuoi poteri di Gigas?>>
<<
Perché sarebbe come cedere a mio padre. E io non sono così. L’ultima volta mi
sono trasformato per proteggere la squadra, ma non accadrà di nuovo>>
Gwydion
allentò la presa, fino a lasciarlo libero, decretando così la fine dello
scontro. Ma Wilde non voleva ancora arrendersi, così puntò alla fronte
dell’uomo una pistola, poiché, per quanto veloce potesse essere, non avrebbe
mai evitato un colpo così ravvicinato.
E
fu allora che il soldato comprese di aver giocato troppo con il fuoco e di
essersi completamente ustionato.
Sentì
la possente mano del druido afferrargli l’esile braccio. La presa era talmente
ferrea che non ebbe più nemmeno l’energia di premere il grilletto, lasciando
cadere l’arma, mentre una scarica di dolore lo paralizzava e lo costringeva ad
inginocchiarsi.
Tuttavia
la punizione non si limitava a quello.
Infatti
il ragazzo fu sollevato, sempre per lo stesso arto martoriato, e scaraventato
contro le alte piante, le quali si spezzarono come se fossero state semplici
ramoscelli. Sfondò all’incirca sei o sette tronchi, prima di cadere a terra.
Indenne.
Un
uomo sarebbe morto, con la colonna vertebrale spezzata; ma il suo istinto di
sopravvivenza aveva prevalso, usando i poteri da Gigas per salvarsi.
<<
Apri gli occhi, ragazzo>> disse Gwydion prima di andarsene, lasciandolo a
riflettere sul gelido terreno.
Oscar
imprecò apertamente, scaraventando contro un albero la propria attrezzatura per
la manovra tridimensionale.
Gli
faceva profondamente ribrezzo tutto quel mondo che ogni volta gli si presentava
davanti, anche se lui cercava in ogni modo di dimenticarlo. Non aveva mai
compreso il motivo per cui Elizabeth l’avesse salvato, impedendogli di bruciare
in mezzo alle fiamme con la propria madre sventrata, com’era da tradizione per
chi partoriva figli albini.
Essendo
un neonato al tempo non poteva ricordare gli eventi, ma la dottoressa si era
sempre presa il dovere di raccontargli chi era fin dal suo primo allenamento,
non volendogli tenere nascosta la verità, seppur dolorosa.
Wilde
si alzò e osservò il cielo, sentendo il battito d’ali di un corvo. Notò quella
sagoma cupa che volava verso il sole, lontana da lui, lontana da tutta quella distruzione.
Luogo
sconosciuto, dicembre, 851
Pólemos distolse
lo sguardo dalla volta cupa, notturna e si concentrò sulle proprie truppe,
mentre queste compivano una strage in un villaggio che avevano incontrato sulla
strada, saccheggiando, bruciando le case, strappando via le donne e sgozzando
gli uomini e i bambini. I suoi occhi azzurro elettrico erano compiaciuti di
quella distruzione, tanto che quasi non si accorsero di alcuni soldati nemici,
i quali tentavano un’imboscata, non avendo più nulla da perdere.
Il Comandante fece
un ghigno divertito, mostrando le proprie zanne, prima di voltarsi e studiare
il piccolo drappello. Era disarmato, solo, non portava nemmeno la propria
corazza, bensì una lunga tunica candida come se fosse prossimo ad andare a
coricarsi. Quindi sembrava un bersaglio facile.
Niente di più
sbagliato.
<< Tu
morirai!>> urlò una guardia.
<< Mi avete
colto di sorpresa>> recitò lui, fingendo di essere spaventato <<
non voglio morire>>
Ma appena uno del
piccolo gruppo provò a colpirlo, questo si sentì incredibilmente pesante, non
riuscendo più a compiere nemmeno il minimo movimento. Con estremo terrore notò
che impiantato nel petto si trovava un’affilata daga e davanti a sé
l’inquietante sorriso del Türannos, il quale estirpò l’arma come se niente
fosse.
Gli altri, in un
battito di ciglia, caddero tutti all’unisono con la testa troncata in un unico
e armonico movimento del Comandante.
Pólemos leccò il
sangue che gocciolava dalla propria spada, calciando poi divertito i capi mozzati.
La sua velocità e forza era ineguagliabile, nessuno poteva competergli, tanto
meno dei soldati di fortuna.
Stava per
ritornare al campo quando sulla via incontrò un suo sottoposto in armatura, dal
fisico perfetto, eppure terribilmente agitato, tanto che era ben visibile il
sudore che gli scendeva copioso dalle tempie.
<< Mio
Türannos... probabilmente la nostra arma non resisterà al gelo senza
cibo>> balbettò, giungendo dall’accampamento posizionato poco distante.
<< Se le dai
da mangiare, quella si prenderà tutto il braccio>>
<< Ma... mio
signore... è da tre settimane che non tocca cibo>>
Il Comandante
osservò la propria veste lorda di cremisi, facendo un sospiro seccato. Poi
tornò a guardare il soldato, il quale ora stava visibilmente tremando di paura.
E ciò non gli
piacque, perché dovevano avere il terrore di un solo individuo.
<< Va bene,
vorrà dire che si mangerà uno dei cadaveri>>
<<
Ma...>>
L’uomo mozzò il
capo del proprio guerriero, ridendo sguaiatamente, poi afferrò il corpo per la
corazza e lo trascinò giù per la ripida strada. Si fermò soltanto quando
raggiunse una gabbia celata, al cui interno proveniva un rantolo animalesco,
cupo.
A quel punto
sorrise sinistramente, abbandonando nelle sgrinfie della creatura il cadavere,
il quale venne smembrato brutalmente.
Fine settimo
capitolo!
Nome Capitolo:
Ghiaccio
Ciao a tutti! Innanzitutto
volevo ringraziare tutti coloro che mi hanno seguito fino ad adesso. È una
grande impresa, devo ammetterlo, quindi... grazie con tutto il cuore! Grazie
per non avermi ancora mandato al manicomio per ciò che scrivo, mi rende felice!
Comunque oggi
volevo ancora parlare di musica. Mi è sempre piaciuto associare le canzoni a
personaggi, perché mi diverte e perché mi viene quasi spontaneo.
Quindi partiamo!
Lachesi: Sulle ali
di mio padre, la Spada Magica; Memories, Within Temptation (sono entrambe
canzoni che boh... mi sembrano azzeccate per un simile personaggio attaccato al
passato);
Elizabeth: Shut me
up, Mindless Self Indulgence (dedicato ai suoi momenti di parlantina);
Oscar: Figlio
della Luna, Mecano (ok, la storia non è propriamente simile, però...); A
Demon's Fate, Within Temptation;
Pólemos: Dangerous Mind, Within Temptation;
Agápe: Diary of Jane; Breaking Benjamin;
Gwydion: Satyros, Faun.
Comunque ringrazio
ancora tutti! Grazie mille! Al prossimo capitolo!