Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: _Lakshmi_    09/01/2014    3 recensioni
Se esistesse vita al di fuori delle mura? Se esistesse una civiltà evoluta?
Questa storia è incentrata sul personaggio di una giovane comandante, privata del proprio titolo, del proprio onore, delle proprie armi, capitata a Wall Rose per un maligno gioco del destino. Una ragazza che ha conosciuto il mare, da cui ha eredito la calma, ma anche l'impetuosità.
Una ragazza che ha conosciuto fin da subito il sangue, la morte e la freddezza della vita.
Dal capitolo quarto:
"[...] Ti immagini? Enormi animali, grandi quasi quanto dei Giganti, con lunghe zanne e grandi orecchie! Quando li abbiamo visti la prima volta eravamo rimasti un po’ spiazzati"
"Avete animali bizzarri..." commentò il Caporale con voce atona, non riuscendo ad immaginare l’animale appena citato.
"E voi attrezzature infernali" rise lei "Comunque gli Elefanti non sono nostri, ma di una tribù proveniente dall’estremo oriente, al di là delle altissime montagne. Sono uomini anche più bassi di te, sai?"

Al suo fianco ci saranno altri OC, alcuni dei quali comporranno una squadra molto particolare...
[...] Perché se esistevano persone così estroverse, talmente particolari da poter causare il suicidio di qualsiasi psichiatra, nulla poteva reputarsi infattibile.
Genere: Azione, Comico, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Rivaille, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Settimo Capitolo

Settimo Capitolo:

Πάγος

 

Un giovane uomo di circa trent’anni camminava su un campo ricoperto di cadaveri, dove qualche ora prima si era combattuta un’estenuante battaglia. Per la libertà. Per il dominio.
I suoi capelli mossi di un castano molto chiaro si muovevano lentamente nella leggera brezza notturna, pregna di un soffocante tanfo di morte e disfatta. I suoi occhi blu, profondi e cupi come il mare, scrutavano il paesaggio desolato, mentre sguinzagliava i soldati a cercare i superstiti.
Camminava con un’espressione preoccupata, urlando più volte il nome della bambina che il Comandante della prima falange gli aveva affidato.
L’alba stava per sorgere e il milite sapeva di per certo che, anche se l’avesse trovata, sarebbe ormai congelata a causa della gelida pioggia e del sibilante vento del nord. Sperava che uno di quei banditi che trafugavano i cadaveri l’avesse presa con sé, perlomeno avrebbe avuto la possibilità di continuare a vivere, seppur in un modo orribile.
Più per caso che per un’accurata vista, notò il corpicino rattrappito della bambina, avvolto da un mantello lercio. In un primo momento desistette dall’avvicinarsi, non volendo vedere il crudele fato che era spettato a una ragazzina così giovane; poi però si fece coraggio e, forte nella propria armatura cesellata, avanzò fino a inginocchiarsi vicino a quella creatura. 
Era già pronto ad intonare un canto funebre, ma desistette quando la fanciulla aprì stancamente gli occhi azzurri, arrossati per il lungo pianto.
<< Lachesi>> esclamò stupito l’uomo estremamente felice, tanto che l’abbracciò, prima di avvolgerla con il proprio mantello scarlatto << Lachesi, mi hai fatto preoccupare>> aggiunse, dandole dei caldi baci sulla fronte gelida.
Lei non rispose, limitandosi a stringere a sé il tessuto, assaporandone il poco calore. Era congelata, tanto che il Comandante per scaldarla la cinse in un abbraccio amorevole, quanto quello di un padre.
<< Ancora qualche ora e saresti morta>> fece un lungo sospiro, poi continuò a parlare << Andiamo via, hai bisogno di cure. Ora chiamo i medici della mia falange e...>>
<< Agápe, papà non si è ancora svegliato>> mormorò la bambina, muovendo debolmente le labbra screpolate per il freddo.
Agápe guardò il cadavere, rimanendo in muto silenzio carico di amarezza. Il suo vispo sguardo blu si spense un poco, prima d’infiammarsi di nuovo di nervoso, serrando i pugni con talmente tanta forza da mostrare le vene sottopelle. E lanciò infine un’occhiata di odio a quel Comandante che stava dando le direzioni ai soldati, non molto distante da loro, prima che la bambina lo frenò dall’urlargli contro.
<< Voglio diventare un soldato>>
L’uomo la fissò per lungo tempo, non riuscendo a capacitarsi di come volesse ancora perseguire il proprio sogno anche dopo aver visto la spietatezza della realtà. All’inizio pensò che fosse solo un momento di pazzia dovuto al terribile trauma, ma poi, quando vide negli occhi della bambina lo stesso sguardo determinato che un tempo ardeva il padre, allora capì che non era follia.
<< Ma non capisci? Rischierai di fare la stessa fine! Ti conosco da quando sei nata, ero grande amico di tuo padre e sinceramente l’ultimo luogo dove vorrei vederti è morta su un campo di battaglia!>>
<< Voglio diventare forte come mio padre. Così quando tornerà, sarà fiero di me>>
<< Ti prego, desisti...>>

 

 
Poco distante dal Quartier Generale in disuso, dicembre, 851

 
Lachesi si accovacciò vicino ad una rudimentale croce fatta con due bastoncini legati insieme tra loro impiantati nella neve.
Le ferite si erano rimarginate, seppur il malanno che le aveva fatto salire la febbre non fosse guarito completamente; infatti di tanto in tanto starnutiva, passava minuti a tossire e la sua voce, avendo il naso chiuso, era alquanto comica, poiché tramutava quasi tutte le consonanti in labiali.
Eppure, anche con l’influenza, non aveva avuto l’intenzione di rinunciare a quel giorno e di restare a letto a riposarsi, bensì era uscita, sotto la nevicata, affrontando il freddo pungente.
Erano passati un paio di giorni dalla missione e molti membri della Legione Esplorativa si trovavano all’interno di Sina per partecipare al processo del Gigante-Orso. Soltanto pochi erano rimasti al Quartier Generale in disuso, tra cui anche Wilde, che per colpa della trasformazione in titano era caduto in coma; così per la ragazza fu semplice uscire inosservata, limitandosi a sorridere e affermare che la dottoressa le aveva ordinato di andare a prendere delle erbe medicinali per i feriti.
Era piuttosto brava a mentire, perché era previsto nel suo addestramento per diventare un soldato: aveva dovuto rubare, fingere, scatenare risse pur di sopravvivere, perché la vita era il dono più importante che gli Dei avessero concesso agli uomini. Ma lei aveva sempre messo in discussione il proprio regalo, preferendo sacrificare la propria esistenza per salvaguardare quella altrui, piuttosto che vivere pienamente come facevano gli altri Comandanti.
E le divinità l’avevano punita più volte per questa sua sfacciataggine, facendo continuamente crollare il suo mondo di carte. Il matrimonio, il dolore, lo sterminio: erano punizioni del Destino.
Ma ad ogni caduta, lei si era rialzata ed ora per la quarta volta si era costruita di nuovo un castello, ma anche quello era destinato a cadere. Prima o poi.
Si sedette davanti alla croce, osservandola a lungo in silenzio, non curandosi della neve che, lentamente, le stava biancheggiando i lunghi capelli castani, le ginocchia, persino il naso arrossato per il freddo pungente e per il raffreddore.
Restò lì a meditare, a riflettere su argomenti più vari e più diversi tra loro, mentre il suo corpo tremava leggermente, visto che la camicia e i pantaloni della divisa non erano adatti per le rigide temperature.
<< Ohi>> disse una voce alle sue spalle d’un tratto, dopo molto tempo, riportandola alla realtà.
<< Vattene>> sbottò lei, portandosi le gambe al petto e appoggiando il mento sulle ginocchia << Non voglio parlare con nessuno>>
<< Devi riposare>>
Levi le si avvicinò. Con una brutale pacca le scosse la neve dalla schiena e, con un secondo scappellotto, anche dal capo. Lachesi non si curò del proprio superiore, rimanendo per lunghi attimi con il viso chino.
<< Non voglio parlare, vattene>> ripeté, questa volta con un tono simile ad una supplica.
<< Il mio è un ordine, Thàlassa. Non me ne frega nulla se vuoi gelarti il culo qua fuori, tu devi riposare. Pesi morti in squadra non li voglio avere>>
A questa affermazione seguì un altro silenzio. Rimasero affiancati per parecchi minuti senza parlarsi, l’uno in piedi, l’altra seduta, osservando l’opera rudimentale e commemorativa.
<< Non dovresti essere a Sina?>>
<< L’orso è riuscito a fuggire per colpa delle guardie incompetenti>> rispose l’uomo, poi volse lo sguardo alla ragazza, la quale era rimasta ferma nella sua posizione iniziale << Perché sei qua fuori?>>
Lei non replicò inizialmente, limitandosi a fare un sospiro carico di rammarico. Tuttavia poi, quando si distese sulla neve per guardare la volta ingrigita, sbuffò e lentamente iniziò a parlare.
<< Sono due anni>>
<< Cosa?>> sbottò lui, studiandola con un’occhiata cupa.
<< Oggi mio figlio avrebbe dovuto compiere due anni. Le divinità l’hanno salvato da una vita con una madre degenere. Ma ti immagini? Io madre?>> rise, anche se il Caporale riuscì a notare che aveva i pugni serrati, come se fosse pronta a picchiare qualcuno.
Lachesi aveva sempre raccontato le sue battaglie, guerre, scontri; raramente però aveva avuto il coraggio di riferire di fatti malinconici e quando ciò accadeva, era solo con lui. Non capiva il motivo per cui riuscisse a essere così aperta con l’anello mancante tra l’uomo e l’iceberg. Forse il sapere di ricevere sempre una risposta schietta e sincera riusciva a renderla a suo agio.
Anche in quel momento attese a cuor sospeso uno sbuffo, una lamentela, anche una presa in giro da parte del suo superiore. Tuttavia, al contrario delle sue aspettative, lui non disse nulla, limitandosi a sedersi al suo fianco.
Allora decise di continuare a parlare, perché ogni parola che le usciva dalla gola era un peso in meno sull’animo.
<< Il mio matrimonio con Pólemos era da subito stato una merda, tanto che avevo perso completamente la forza di volontà di alzarmi dal letto e medicarmi le eventuali ferite non cicatrizzate, arrivando addirittura sperare di morire per un’infezione. Volevo combattere e cadere in battaglia, ma le guerre raramente si svolgevano in inverno e ancor più raramente richiedevano il sostegno delle falangi primarie. Così vivevo i giorni da perfetto soprammobile, rimanendo ore a osservare il soffitto. Finché non rimasi incinta. Al contrario delle mie aspettative però, fui felice, tanto che quella creatura che portavo in grembo diventò una nuova ragione di vita. Ricominciai a uscire, a parlare con gli altri Comandanti, a studiare nuove tattiche belliche e a ridere. Ma dopo quattro mesi, per decisione dei Polemarchi, dovetti abortire, perché temevano che il figlio di un Gigas potesse essere troppo potente. Sarebbe dovuto nascere nei primi di dicembre, così aveva detto la sibilla. Il tre dicembre, lo stesso giorno in cui è morto mio padre. Le divinità sono state a me sempre ostili, questo è un chiaro esempio>>
Si portò le mani sul freddo viso, come per impedire alle lacrime di scendere copiose. Lottò con se stessa, arrivando persino a raggomitolarsi per trattenere un sussulto, che mascherò con più colpi di tosse.
Non doveva piangere, non doveva mostrarsi debole un’altra volta davanti a lui. Non aveva la scusante dell’alcol, anche perché il tè che beveva ogni mattina non poteva reputarsi alcolico.
Fece per alzarsi e fuggire, ritornare al quartier generale a testa china come un comandante dopo una pesante sconfitta, ma qualcosa le prese saldamente il polso, impedendole di compiere un altro passo.
<< Piangi>> le ordinò Levi.
<< Sono stanca di dimostrarmi debole davanti a...>>
<< Piangi! Sei molto più debole se ti dimostri così ottusa!>>
Il cuore della giovane ebbe un sussulto, un muto gemito che le fece cedere la stabilità delle gambe, cadendo a ginocchioni sulla neve. Combatteva con tutta se stessa per trattenere il pianto, ma era una guerra che non avrebbe mai potuto vincere, perché era sempre stata impotente davanti alle proprie emozioni.

 
Molto distante dal Quartier Generale in disuso, dicembre, 851

 
Wilde camminò scalzo sul gelido manto bianco, non curandosi delle pungenti sensazioni e continuando a marciare senza un’apparente meta. Gli alberi si fecero sempre più fitti man mano che progrediva, fino a raggiungere uno spazio circolare in cui al centro si trovava una lapide scritta con lettere in un alfabeto astruso.
Qui, vicino alla tomba, fece cadere un mazzo di fiori rosso cremisi e rimase in muto silenzio per parecchi minuti, mormorando un tenue canto funebre. Quando la melodia finì, fece per andarsene, accendendo un sigaro che aveva precedentemente trafugato a Elizabeth, ma per poco non si scontrò con una figura più alta di lui, dai lunghi e incolti capelli ramati e dall’altrettanto non curata barba, con il viso coperto da un cappuccio da cui trasparivano soltanto qualche lembo di pelle chiara e un bagliore dorato.
<< Non mi sorprende vederti in libertà>> disse l’albino, buttando poi fuori dai polmoni il fumo speziato.
<< Allora è vero che non ci vedi>> rise l’uomo, spostando il pensiero commemorativo davanti al piccolo monumento in pietra.
<< Devo ringraziare mio padre per la mia quasi totale cecità>> ringhiò Oscar, chinando poi lo sguardo.
<< Era l’unico modo per permettere a un figlio bastardo di vivere. La tua più grande sfiga è quella di essere stato riconosciuto come figlio di Pólemos, perché tua madre era una sua concubina>>
<< Sei molto informato>>
<< Mi piace impicciarmi delle faccende altrui>>
<< Tale madre, tale figlio>> fece un lungo sospiro, abbozzando un sorriso, poi alzò il capo in direzione del druido << Perché sei qui?>>
Gwydion non parlò, iniziando a girare nel piazzale come un avvoltoio su un cadavere in via di putrefazione, fermandosi soltanto quando un ramo ghermì un lembo della sua lunga tunica nera e logora.
<< Volevo semplicemente concludere il nostro scontro prima di dileguarmi>>
Wilde estrasse le spade del dispositivo della manovra tridimensionale, attendendo l’avversario. Quest’ultimo slegò un lungo bastone in legno, decorato finemente, appeso prima alla schiena, facendo un ampio ghigno. Dopo un attimo di esitazione in cui i due combattenti si studiarono, lui si lanciò all’attacco, fendendo l’aria.
Infatti Oscar aveva anticipato le mosse del nemico e, spiccando un ampio balzo, sparò un paio di colpi di pistola per poi riafferrare le proprie spade, atterrando saldamente su un ramo di un albero.
Il drudo un po’ si stupì della tremenda agilità del ragazzo che non sembrava curarsi del proprio deficit, ma non abbassò la guardia e respinse facilmente i proiettili, per poi svanire nell’ombra. Il giovane rimase in silenzio, immobile, ascoltando attentamente ogni singolo rumore, dal gorgogliare del ruscello al tenue respiro degli animali.
Quando Gwydion stava per infilzarlo con una daga, il soldato schivò nuovamente il colpo, cercando poi di fendere le difese dell’avversario. Le loro armi cozzarono più e più volte su quel precario ramo, finché l’uomo non riuscì a spezzare la lama di una delle due spade, sfregiando il viso del combattente.
Oscar riuscì a ferire la caviglia nemica con un potente calcio, facendo sbilanciare così il corpo. Ma il rivale non demorse e, compiendo un ampio slancio all’indietro, colpì in pieno viso il giovane, il quale scivolò giù dalla pianta.
Riuscì a riprendersi dalla caduta appena in tempo, evitando così un attacco ostile; tenne poi lontano il druido con una serie repentina di spari per riprendersi.
Le armi bianche si sfidarono ancora più volte, non riuscendo mai a prevalere l’una sull’altra, anche se il metallo delle spade di Wilde non poteva competere a lungo con quello magistrale della daga di Gwydion.
<< Chi l’ha forgiata?>> domandò il ragazzo, volteggiando ed evitando un affondo.
<< Vuoi veramente saperlo?>> gli chiese lui, avvicinandogli la spada per un secondo attacco diretto.
<< Sì>> rispose il giovane, fermando la lama con i palmi delle mani << voglio saperlo>>
<< Vi dirò tutto. A tempo debito>> concluse, dando un calcio in pieno stomaco ad Oscar.
Quest’ultimo barcollò, indietreggiando, vomitando saliva. Inaspettatamente la pedata era stata incredibilmente forte, tanto che per un momento gli aveva mozzato addirittura il fiato. Disarmato, arretrò sempre più, fino a non avere più vie di fuga, con il dorso contro il tronco di un albero e il bastone alla gola che premeva, lasciandogli soltanto la capacità di fare brevi e affannati respiri.
<< Perché non vuoi usare i tuoi poteri di Gigas?>>
<< Perché sarebbe come cedere a mio padre. E io non sono così. L’ultima volta mi sono trasformato per proteggere la squadra, ma non accadrà di nuovo>>
Gwydion allentò la presa, fino a lasciarlo libero, decretando così la fine dello scontro. Ma Wilde non voleva ancora arrendersi, così puntò alla fronte dell’uomo una pistola, poiché, per quanto veloce potesse essere, non avrebbe mai evitato un colpo così ravvicinato.
E fu allora che il soldato comprese di aver giocato troppo con il fuoco e di essersi completamente ustionato.
Sentì la possente mano del druido afferrargli l’esile braccio. La presa era talmente ferrea che non ebbe più nemmeno l’energia di premere il grilletto, lasciando cadere l’arma, mentre una scarica di dolore lo paralizzava e lo costringeva ad inginocchiarsi.
Tuttavia la punizione non si limitava a quello.
Infatti il ragazzo fu sollevato, sempre per lo stesso arto martoriato, e scaraventato contro le alte piante, le quali si spezzarono come se fossero state semplici ramoscelli. Sfondò all’incirca sei o sette tronchi, prima di cadere a terra. Indenne.
Un uomo sarebbe morto, con la colonna vertebrale spezzata; ma il suo istinto di sopravvivenza aveva prevalso, usando i poteri da Gigas per salvarsi.
<< Apri gli occhi, ragazzo>> disse Gwydion prima di andarsene, lasciandolo a riflettere sul gelido terreno.
Oscar imprecò apertamente, scaraventando contro un albero la propria attrezzatura per la manovra tridimensionale.
Gli faceva profondamente ribrezzo tutto quel mondo che ogni volta gli si presentava davanti, anche se lui cercava in ogni modo di dimenticarlo. Non aveva mai compreso il motivo per cui Elizabeth l’avesse salvato, impedendogli di bruciare in mezzo alle fiamme con la propria madre sventrata, com’era da tradizione per chi partoriva figli albini.
Essendo un neonato al tempo non poteva ricordare gli eventi, ma la dottoressa si era sempre presa il dovere di raccontargli chi era fin dal suo primo allenamento, non volendogli tenere nascosta la verità, seppur dolorosa.
Wilde si alzò e osservò il cielo, sentendo il battito d’ali di un corvo. Notò quella sagoma cupa che volava verso il sole, lontana da lui, lontana da tutta quella distruzione.

 
Luogo sconosciuto, dicembre, 851

 
Pólemos distolse lo sguardo dalla volta cupa, notturna e si concentrò sulle proprie truppe, mentre queste compivano una strage in un villaggio che avevano incontrato sulla strada, saccheggiando, bruciando le case, strappando via le donne e sgozzando gli uomini e i bambini. I suoi occhi azzurro elettrico erano compiaciuti di quella distruzione, tanto che quasi non si accorsero di alcuni soldati nemici, i quali tentavano un’imboscata, non avendo più nulla da perdere.
Il Comandante fece un ghigno divertito, mostrando le proprie zanne, prima di voltarsi e studiare il piccolo drappello. Era disarmato, solo, non portava nemmeno la propria corazza, bensì una lunga tunica candida come se fosse prossimo ad andare a coricarsi. Quindi sembrava un bersaglio facile.
Niente di più sbagliato.
<< Tu morirai!>> urlò una guardia.
<< Mi avete colto di sorpresa>> recitò lui, fingendo di essere spaventato << non voglio morire>>
Ma appena uno del piccolo gruppo provò a colpirlo, questo si sentì incredibilmente pesante, non riuscendo più a compiere nemmeno il minimo movimento. Con estremo terrore notò che impiantato nel petto si trovava un’affilata daga e davanti a sé l’inquietante sorriso del Türannos, il quale estirpò l’arma come se niente fosse.
Gli altri, in un battito di ciglia, caddero tutti all’unisono con la testa troncata in un unico e armonico movimento del Comandante.
Pólemos leccò il sangue che gocciolava dalla propria spada, calciando poi divertito i capi mozzati. La sua velocità e forza era ineguagliabile, nessuno poteva competergli, tanto meno dei soldati di fortuna.
Stava per ritornare al campo quando sulla via incontrò un suo sottoposto in armatura, dal fisico perfetto, eppure terribilmente agitato, tanto che era ben visibile il sudore che gli scendeva copioso dalle tempie.
<< Mio Türannos... probabilmente la nostra arma non resisterà al gelo senza cibo>> balbettò, giungendo dall’accampamento posizionato poco distante.
<< Se le dai da mangiare, quella si prenderà tutto il braccio>>
<< Ma... mio signore... è da tre settimane che non tocca cibo>>
Il Comandante osservò la propria veste lorda di cremisi, facendo un sospiro seccato. Poi tornò a guardare il soldato, il quale ora stava visibilmente tremando di paura.
E ciò non gli piacque, perché dovevano avere il terrore di un solo individuo.
<< Va bene, vorrà dire che si mangerà uno dei cadaveri>>
<< Ma...>>
L’uomo mozzò il capo del proprio guerriero, ridendo sguaiatamente, poi afferrò il corpo per la corazza e lo trascinò giù per la ripida strada. Si fermò soltanto quando raggiunse una gabbia celata, al cui interno proveniva un rantolo animalesco, cupo.
A quel punto sorrise sinistramente, abbandonando nelle sgrinfie della creatura il cadavere, il quale venne smembrato brutalmente.

 
Fine settimo capitolo!

 
Nome Capitolo: Ghiaccio

 

Angolo dell’autrice:

 
Ciao a tutti! Innanzitutto volevo ringraziare tutti coloro che mi hanno seguito fino ad adesso. È una grande impresa, devo ammetterlo, quindi... grazie con tutto il cuore! Grazie per non avermi ancora mandato al manicomio per ciò che scrivo, mi rende felice!
Comunque oggi volevo ancora parlare di musica. Mi è sempre piaciuto associare le canzoni a personaggi, perché mi diverte e perché mi viene quasi spontaneo.

 
Quindi partiamo!

 
Lachesi: Sulle ali di mio padre, la Spada Magica; Memories, Within Temptation (sono entrambe canzoni che boh... mi sembrano azzeccate per un simile personaggio attaccato al passato);
Elizabeth: Shut me up, Mindless Self Indulgence (dedicato ai suoi momenti di parlantina);
Oscar: Figlio della Luna, Mecano (ok, la storia non è propriamente simile, però...); A Demon's Fate, Within Temptation;
Pólemos: Dangerous Mind, Within Temptation;
Agápe: Diary of Jane; Breaking Benjamin;
Gwydion: Satyros, Faun.

Per ora basta così XD
Comunque ringrazio ancora tutti! Grazie mille! Al prossimo capitolo!

  
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