Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Timcampi    04/02/2014    4 recensioni
Era quasi l'alba quando accadde.
Quando si svegliò di colpo, dopo aver visto Marco bruciare ancora una volta dentro la sua mente, non trovò la rassicurante presenza dei poster dei Led Zeppelin e di Blondie, né la sua amata lava lamp. C'era qualcosa, a ostruirgli la vista. Qualcosa che stava a cavalcioni sopra di lui, che lo sovrastava, qualcosa la cui vista lo paralizzò.
L'essere aprì la bocca.
«Chi sono io?»
Genere: Azione, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Christa Lenz, Jean Kirshtein, Marco Bodt, Un po' tutti, Ymir
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Volare

 

Jean impiegò un istante per recepire quella notizia.

«Che razza di stronzate vai farneticando, demonio che non sei altro?» ringhiò all'indirizzo dell'altra. Marco si rimise in piedi con un sospiro arreso, posando dolcemente una mano sulla spalla di Jean.

«Non sono stronzate. Ma per favore... Per favore, Jean, lascia che ti spieghi, posso ben immaginare cosa ti passa per la testa, ma ti assicuro che, se mi lascerai spiegare...!»

«Spiega, avanti. Che aspetti?» sospirò, incrociando le braccia al petto e guardandolo con un misto di rabbia e curiosità.

Marco non fece in tempo ad aprire la bocca, che lontani rumori li fecero trasalire: dapprima Ymir, che rizzò il capo e tese le orecchie, in un modo che a Jean ricordò una bestia braccata; poi Marco, che volse lo sguardo verso la botola; soltanto un istante più tardi, Jean fece caso ai rumori sommessi che provenivano dabbasso, passi pesanti che il silenzio della notte rendeva facilmente distinguibili, benchè ancora distanti.

«Merda» sillabò Ymir tra i denti, serrando i pugni. Jean sentiva il proprio cuore esplodergli nel petto, e si sorprese nel notare la placida destrezza che regnava sul volto di Marco.

«Non perdiamo la calma. Dobbiamo andarcene di qui» scandì quest'ultimo, spostando lo sguardo da Jean a Ymir e viceversa, in un debole tentativo di placare gli animi.

«Che... Che sta succedendo?» mormorò Jean, artigliando il polso dell'altro che, in tutta risposta, gli sorrise, prendendogli dolcemente il viso tra le mani.

«Ti spiegheremo ogni cosa quando saremo a casa, te lo prometto» dichiarò. Jean potè percepire chiaramente il proprio cuore... o qualcosa, qualcosa dentro di lui fare una piroetta, o un salto, quando le dita del ragazzo si posarono sulle sue guance ossute. Erano differenti, al tatto: una morbida, tiepida, e l'altra grinzosa, ruvida, pulsante, caldissima. Marco la ritrasse dopo un attimo, mordendosi le labbra. Era ben chiara, ormai, la sua intenzione di fargli conoscere il meno possibile di quel nuovo aspetto di sé che doveva odiare molto più di quanto il suo viso sereno e imperturbabile facesse credere. «Sarebbe troppo, Jean, chiederti di fidarti ancora di me?»

Jean inspirò a fondo, come se, tutt'a un tratto, l'aria intorno a lui e dentro i suoi polmoni si fosse rarefatta.

Probabilmente si trattava di una grande, titanica, colossale follia.

Alla quale, sciaguratamente o forse per sua stessa volontà, non poteva in alcun modo sottrarsi.

«Mi fido di te» affermò, con voce tremante e solenne, afferrando con i propri occhi quelli dell'altro, entrambi, del tutto incapace di compiere distinzioni tra ciò che Marco era stato e ciò che Marco era adesso.

Qualunque cosa fosse accaduta, chiunque fosse alle loro costole, qualsiasi disgrazia si fosse abbattuta sulla sua testa, lui si fidava di ogni singolo brandello di quel giovane uomo di nome Marco Bodt.

Un rauco colpetto di tosse alle spalle di Marco lo riscosse.

«Che ne dite di piantarla e di rimandare questo nauseante teatrino a dopo? Io vorrei filarmela, ora» gracchiò Ymir, additando la finestra della mansarda.

«Mi stai dicendo che...?»

Un forte pugno della ragazza s'abbattè contro il vetro, mandandolo in frantumi e lasciando a metà la domanda di Jean. La mano di Ymir sanguinava copiosamente, ma quella continuò a rimuovere pezzi si vetro con aria assorta, la fronte aggrottata e le labbra serrate.

«Avresti dovuto lasciarlo fare a me» disse Marco, ma l'altra lo zittì bruscamente, scivolando nell'oscurità della notte ormai inoltrata senza il minimo rumore.

Marco si voltò a guardare Jean, la bocca semispalancata e lo sguardo fisso sul punto un cui Ymir era scomparsa dalla sua vista. Si accucciò quasi carponi sulla finestra, come una grossa rana in procinto di saltare.

«Jean, sali sulle mie spalle» comandò. Benchè il suo tono fosse delicato come di consueto, quelle parole suonarono come un vero e proprio ordine, che Jean si sentì decisamente troppo confuso e imbarazzato per eseguire.

«No. No, no. Non ci tengo, a sfracellarmi da qualche parte. E non mi sembra il genere di cosa che...»

Un rumore stridente l'avvertì qualcuno stava calando la scaletta: un attimo, un attimo soltanto e chiunque fosse alle loro costole sarebbe stato là. E se si fosse trattato semplicemente della polizia? Se fosse stato Marco, quello verso cui avrebbe fatto bene a nutrire timore?

«Jean. Fidati di me» implorò il ragazzo.

Non c'era tempo, pensare era un lusso che non poteva permettersi.

«Me ne pentirò» borbottò, issandosi sulle spalle di Marco e stringendo le gambe intorno alla sua vita.

Era caldo, più caldo di qualunque creatura vivente avesse mai toccato, e quella vicinanza accentuava spaventosamente quel piacevole tepore. Era come essere avvinghiati a un termosifone o allo sportello del forno.

Ringraziò il cielo che Marco non potesse vedere il rossore che sentiva diffondersi a poco a poco sul suo volto.

«Reggiti forte, Jean» ordinò Marco.

Benchè non potesse constatarlo, Jean seppe che l'altro stava sorridendo.

Nell'istante in cui una figura massiccia comparve dal varco d'accesso, spiccarono il volo.

Perchè era esattamente come volare.

Un appiglio su una tubatura, uno sulla grondaia, e furono in cima al tetto. Benchè l'edificio non fosse molto alto, il fatto di essere in bilico sulle spalle di Marco gli provocò un forte capogiro e un lieve attacco di nausea.

Marco correva.

Fendeva l'aria, la tagliava come un aereo di carta perfettamente aerodinamico, leggero, silenzioso come un'ombra sospinta dal vento.

Un davanzale, una tubatura, ed erano sulla cima dell'edificio accanto, attaccato per un fianco al loro punto di partenza.

Le mani di Jean, strette intorno alle spalle della sua insolita cavalcatura, sudavano a tal punto che mantener salda la presa si rivelò un compito sempre più arduo.

«Vuoi spiegarmi che diavolo significa tutto questo?!» ruggì. Nessuna risposta.

Ancora pochi metri, e sarebbero piombati nel vuoto.

Quando se ne accorse, stava già gridando, del tutto certo che si dì lì a un istante si sarebbero schiantati al suolo. Ma questo non accadde, perchè l'istante che seguì, al contrario, vide Marco atterrare come una immensa falena sul tetto più vicino, tanto leggero che Jean percepì a stento il contraccolpo. E poi, furono di nuovo di corsa.

Fu allora che, finalmente, la risposta arrivò.

«La Reiss Corporation non ha mai smesso di darti la caccia, Jean»

Per un attimo, Jean fu sul punto di lasciare la presa.

«Allora... Allora c'entra davvero. Maledetti figli di...»

«Devo proteggerti»

«Cosa c'entri, tu, con loro? Perchè hai appiccato l'incendio?» mormorò. «E perchè... Perchè questo, Marco?» domandò ancora, serrando le dita intorno alla spalla destra del ragazzo.

«Non è il momento, Jean, ti prego» esalò Marco, lanciandosi un'occhiata fugace alle spalle e accelerando il passo. Jean l'imitò: dietro di loro, tanto vicini che avrebbero potuto raggiungerli in poche falcate, se Marco si fosse fermato, c'erano due figure maestose, familiari sebbene avvolti dal buio, silenziose, leggere nonostante le loro notevoli dimensioni.

Berthold Fubar e Reiner Braun si facevano sempre più vicini.

«Ti sto rallentando»

«A casa saremo al sicuro» assicurò Marco. Benchè certamente facesse del suo meglio perchè Jean non vi facesse caso, la sua voce era innegabilmente incrinata.

«Nessuno ti ha chiesto di salvarmi la vita, Marco!» ribattè, mentre volavano ancora una volta da un tetto all'altro. Questa volta, fu per un pelo che giunsero dall'altra parte.

Quando si voltò, non si sorprese nel constatare che anche i loro inseguitori avevano superato quell'ostacolo, e che il loro fiato sul suo collo si faceva sempre più pressante.

«La porta di casa non li fermerà!»

«Sì, invece!» dissentì Marco. «Devi fidarti di me!»

In tutta risposta, Jean assicurò la presa. Mancava poco a casa, e mancava poco al sorgere del sole: lo si intuiva dall profilo dorato delle case che popolavano l'orizzonte e della strada oltre di esse, là dove la città terminava. Ancora pochi isolati, e sarebbero stati a casa.

Sentiva le membra di Marco lievemente affaticate, i suoi passi appesantirsi fino a che non riuscì a notarne la sottile irregolarità. Si domandò se provasse dolore, se la fatica gli procurasse una sofferenza più grande di quanto gli lasciasse intendere, ma non osò fare domande.

Dietro di loro, i passi di Reiner e Berthold si facevano sempre più vicini. Ora, la fioca luce dell'alba rischiarava appena i loro volti, tesi e concentrati, imperscrutabili. Sembravano due ombre grosse e mute, quasi due automi, in perfetta, spaventosa sincronia.

«Ci siamo» sentenziò Marco.

In un balzo furono sul marciapiedi. Le dita e le gambe di Jean erano convulsamente strette intorno al suo corpo, ma Marco non osava lamentarsene, e Jean quasi trovava tedioso il pensiero di doversene separare.

Quando furono sulla soglia di casa, Jean si voltò: alle loro spalle, in bilico su un cornicione, le due sagome li osservavano, impotenti. Benchè non riuscisse ancora a comprendere le dinamiche di quell'assurda vicenda, realizzò che Marco aveva ragione.

Il ragazzo si chinò per permettergli di scendere, e Jean vide per qualche attimo il mondo girargli attorno vorticosamente, quando posò nuovamente i piedi al suolo. Marco fece per bussare, quando la mano di Jean intercettò la sua, a pochi centimetri dal campanello.

«Tutto a posto, Jean?» domandò, accorato. «Stai bene?»

Jean annuì bruscamente.

«Sì, sì. Sto bene, non preoccuparti. Solo...»

«Sì?»

Jean si morse l'interno di una guancia. Non era il momento per i convenevoli. Erano nel bel mezzo di una guerra.

«Sono felice che tu sia sano e salvo. Tutto intero. Vivo, ecco. Sì, sono felice di rivederti» mugugnò. Marco non tentò di nascondere il rossore che si allargò sulle sue guance tempestate di lentiggini.

Entrambe le sue guance.

Ogni suo gesto, ogni sguardo coinvolgeva il suo corpo nella sua interezza: poco importava quel che pensava o affermava, per Jean non c'era nulla, nel suo aspetto, che non gli appartenesse, che sembrasse essere estraneo.

Marco restava Marco, e il pensiero d'avere di nuovo di fronte il giovane sulla cui tomba aveva versato tutte le sue lacrime era tanto potente da rimuovere ogni traccia di paura dal suo cuore.

Dentro di lui, c'era spazio soltanto per la voglia di lottare, quella che aveva serpeggiato sul fondo del suo animo fin dall'inizio, fin da quando il suo destino era stato stravolto per la prima volta, a Trost, e che ora pretendeva spazio e attenzioni.

«Ehi, credevi davvero che me ne sarei andato, con un debito da farti saldare?» ribattè Marco, scuotendo platealmente il capo e afferrandogli amichevolmente un braccio.

Poi, suonò il campanello.

Fu in quel momento, quello in cui aveva il braccio di Marco stretto intorno al proprio, e in cui quel suono si unì alla debole eco di se stesso che riaffiorò dai suoi primi ricordi di Sina, che uno strano pensiero colse Jean, un pensiero che riuscì a farlo sorridere.

Ancora una volta, la sua vita stava ricominciando.

 

   
 
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