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Autore: Sef    03/03/2014    4 recensioni
Nathalie ha quasi diciassette anni, gli occhi color pece e un dono che sa di maledizione, il passo leggero e la tendenza a fuggire. Fragile e tagliente come il cristallo, gelida e invitante, ostile e accogliente, tornado e deserto, passioni e apatia, sempre sul filo del rasoio, sapendo che prima o poi dovrà cadere.
Convivevo con il mio segreto da troppo tempo ormai per pensare ingenuamente che sarebbe stato facile fingermi come tutti gli altri, nonostante gli innumerevoli anni di pratica, e sapevo che mi ero praticamente puntata una pistola alla tempia da sola.
Genere: Azione, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Flashback (or not?)
"Every second's soaked in sadness
Every weekend is a war
And I'm drowning in the déjà-vu
we've seen it all before."
Seen it all before, Bring Me The Horizon

“Na-Nathalie?”
Un ragazzo goffo e dinoccolato, in un paio di pantaloni color cachi e una felpa spiegazzata lunga fino alle ginocchia, mi venne incontro mentre uscivo dall’ufficio del preside. Se c’era una cosa che odiavo più dei discorsi di presentazione dei responsabili nelle scuola, quella era l’alunno, o l’alunna che fosse, che mi affibbiavano come guida turistica nel mio primo giorno di scuola, o meglio in uno dei miei troppi primi giorni di scuola.
“Sì, sono io.” Mormorai, senza prestargli troppa attenzione, mentre cercavo tra il plico incipiente di fogli da firmare che avevo tra le braccia quello con gli orari.
“Io sono Ben.”
Ben. Chissà perché dovevano sempre avere nomi scontati.
Sentendo che non proseguiva, alzai sul sguardo su di lui, e non appena incrociammo lo sguardo, lui divenne di un imbarazzante rosso pomodoro, “Devo … devo accompagnarti all’aula della lezione che hai ora.” Esclamò impacciato, dopo un lasso di tempo che sembrò durare qualche secolo.
Continuai a fissarlo, in attesa di una qualche annotazione aggiuntiva, ma lui restava zitto, la bocca leggermente spalancata e gli occhi dilatati, senza riuscire a scollarmi gli occhi di dosso.
Sembrava un chiaro segno divino del fatto che avrei fatto meglio a starmene segregata in casa, come avevo fatto nell’ultimo anno. La verità, però, è che mi sentivo sola. In tutto quel tempo, i miei unici contatti con il mondo esterno erano stati il fattorino della pizza e quello del cinese, oltre a qualche compagnia casuale, pescata a caso dal bar sottocasa, per le notti in cui la solitudine era davvero insostenibile. Soffocando tra quelle quattro mura, mi era sembrata una grande idea, quella di andare in qualche scuola lontana e remota, in un paese non troppo grande, a mischiarmi con i miei coetanei. Sarebbe stato sicuramente meglio che vivere da eremita, anche se 'vivere' non era il termine esatto. 
Solo che, vista la reazione di Ben, mi chiesi istintivamente cosa ci fosse dopotutto di così sbagliato nello stare rinchiusa nell’attico a fissare il soffitto e origliare le conversazioni altrui, oltre a sapere a memoria tutti i film e le serie tv che fossero mai stati prodotte. Soprattutto rispetto ad un qualunque adolescente brufoloso, goffo, e visibilmente abbagliato da me. Ok, forse quello non era colpa sua. Lo spirito di persuasione estremo usato con il responsabile per convincerlo ad accettarmi nonostante le parecchie irregolarità nei miei documenti, ancora mi avvolgeva come un’aura, e sapevo che guardandolo non gli semplificavo di certo la vita. Ma per la miseria, doveva solo accompagnarmi in un’aula e andarsene. Probabilmente ce l’avrei fatta anche da sola, ma al di là del solito fastidio era divertente vederlo tentennare alla ricerca di un vocabolario pressoché capibile.
Finalmente, si riprese. Trasformando il rosso pomodoro del suo viso in un viola melanzana, mi fece segno con il braccio di seguirlo.
Sospirai di sollievo, mentre mi accodavo al suo passo caracollante nei corridoi ampi della McShort’s School, rimuginando su me stessa e chiedendomi cosa ci fosse di sbagliato e tanto masochista nel mio cervello. Mentre passavo accanto a tutti quegli studenti accalcati, percependo fin troppo chiaramente il calore della loro pelle, mi si affollavano alla mente tutti i motivi per cui l’anno prima l’idea della reclusione mi era parsa così buona e sensata, andando a oscurare quelli che mi avevano spinta a fare un altro tentativo. Convivevo con il mio segreto da troppo tempo ormai per pensare ingenuamente che sarebbe stato facile fingermi come tutti gli altri, nonostante gli innumerevoli anni di pratica, e sapevo che mi ero praticamente puntata una pistola alla tempia da sola. Non avevo problemi a fingermi timida e dimessa, ma il mio aspetto non passava inosservato. Non lo faceva mai. Fissavano i miei lunghi capelli corvini e ribelli, i miei occhi neri, in cui non si riusciva a vedere l’iride, le mie labbra carnose e il corpo perfetto. Vedevano in me la bellezza ideale e non riuscivano a non guardarmi (o almeno non avevo ancora incontrato nessun umano che resistesse anche solo al dare un’occhiatina.) O mi invidiavano o mi amavano alla follia, fino a diventare molesti e insopportabili in entrambi i casi. Mi vedevano minuta e fragile, ignorando le mie capacità e quanto in realtà fossi poco vulnerabile. La loro stupidità mista ad ingenuità mi faceva tenerezza, ma difficilmente sopportavo a lungo la pressione che queste situazioni sviluppavano nei miei confronti. Ad un certo punto capivo di essere giunta al limite, smettevo di frequentare la scuola, tagliavo i pochi ponti creati e ricominciavo da zero, cancellando completamente le mie tracce. Sapevo che c’era gente che avrebbe pagato per essere al mio posto, ma a volte desideravo solo essere normale e non aver addosso il macigno di un segreto che non avrei mai potuto rivelare a nessuno. La prima volta che qualcuno ne era stato a conoscenza era stata anche l’ultima, oltre a segnare drasticamente la fine della mia vita e l’inizio di questa, che era molto più simile ad una sopravvivenza.
Fortunatamente mi resi conto di quale brutta piega stesse prendendo la mia mente giusto un attimo prima che il volto dei miei genitori vi irrompesse, portando con sé i ricordi che avevo dell’ultima volta che li avevo visti, prima che finisse tutto.
Mi scrollai di dosso all’istante quei pensieri troppo dolorosi, cercando di scorgere Ben in mezzo alla massa che mi circondava, e ringraziando il cielo quando riconobbi la sua testa arruffata e la sua falcata. Le sue gambe lunghe gli permettevano un passo molto più spedito del mio, oltre al fatto che nemmeno si girava a guardarmi, cercando di portare a termine la sua impresa senza farsi distrarre da me. In fin dei conti questo gli faceva onore e, in minima parte, alzava la mia stima nei suoi confronti, rispetto all’imbarazzante gaffe di poco prima.

Questo, insieme all’inesorabilità di ciò che avevo scelto di subire, mi fece sperare che magari questa volta sarebbe stata quella buona. Anche se, più che una speranza, nella mia testa suonava molto più come una preghiera.
 



Non mi sembra ancora vero di essere riuscita a pubblicare il primo capitolo di questa storia su EFP.  Unicorni, lettori, lettrici, gatti, potterhead, tributes, fan-di-qualsiasi-fandom, se vi va potete lasciare un commento per farmi capire se vi piace, vi ispira, se c'è qualcosa che cambiereste ecc.. qualsiasi idea è ben accetta e probabilmente vi amerei tanto tanto! (ovviamente per chi lo fa c'è in premio un biscotto virtuale lol)
Sperando che vi piaccia, vi abbraccio tutti fortissimo.
Al prossimo capitolo (che prometto sarà più lungo)
S.
 
  
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