Vittime di vita.
Non è nostalgia di baci e abbracci, sguardi e sorrisi.
E’ la nostalgia dell’essere amati ciò che schiaccia e soffoca.
E lei quella nostalgia la provava da sin troppo tempo, sin troppi anni; una tortura che nessun essere umano desidererebbe mai e poi mai provare.
La stazione come ogni notte accoglieva solo i suoi abitanti notturni: barboni che occupavano panchine, loschi figuri che osservavano il posto dagli angoli, come se fossero predatori alla ricerca di nuove prede.
In realtà, ciò che stonava con l’ambiente era proprio lei: schiena poggiata contro il muro e sguardo chino su un quaderno dalle pagine sgualcite, un cappello a falda larga per nascondere un volto giovane ma con una freschezza ormai quasi inesistente, divorata dall’eccessiva magrezza, da un eccessivo dolore che si era perpetuato sin troppi anni.
Oltre al suo volto, erano i suoi occhi che tendeva a nascondere, grandi e azzurri: lei sapeva benissimo che quei due occhi erano il suo personale specchio che rifletteva le cicatrici del suo spirito.
Nessuno osò importunarla, nessun barbone si avvicinò per chiederle qualche spicciolo, nessun giovane le si avvicinò per molestarla: era come se tra sfortunati ci fosse una strana intesa, era come se ci si comprendesse veramente. Ciò che ricevette furono solo sguardi comprensivi e la coscienza che un’altra anima, proprio come loro, era rimasta vittima della vita.
Lacrime. Furono la seconda cosa che ricevette da tutti coloro che lì erano stati abbandonati da Dio, obbligati ad osservare una giovane anima volare via, gettatasi sotto un treno come sino a quel momento era stata gettata via dalla felicità e dalla stessa vita. Lei, ormai, non esisteva più.
Lacrime.
Lacrime versate per una compagna di sventura,
lacrime versate per l’incapacità di combattere la vita.
Lacrime per lei, lacrime per ognuno di loro.
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