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Autore: Dante_Chan    01/04/2014    0 recensioni
Questa storia parla di due ragazzini. Di un metallaro allevatore di ratti (o un allevatore di ratti metallaro?) che si innamora irrimediabilmente di un truzzo un po' particolare. La trama...beh, in realtà la scopro scrivendo, ma in generale il primo incontra il secondo, rimane colpito e tenta di ritrovarlo. Seghe mentali comprese nel prezzo :3
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alleluia alleluia, ultimo capitolo :P nulla da commentare, se non "dannazione, perchè i ratti marten sono così fighi e impossibili da trovare in Italia??"



Era il 9 settembre, e quel giorno era cominciato il nuovo anno scolastico; era un placido pomeriggio, con un clima ancora piuttosto caldo che manteneva vividi i ricordi estivi di tutti, studenti e lavoratori che volenti o nolenti erano costretti a riprendere le loro attività di routine dopo le vacanze. Già gli alberi avevano iniziato a ingiallirsi e le prime foglie cedevano alla forza di gravità, prendendo a formare cuscinetti giallognoli sotto le piante. Il sole era in parte coperto dalle nubi e sulla città una cappa di umidità rendeva l’aria ferma, anche se non soffocante come avveniva durante i mesi più caldi. Il ragazzo stava percorrendo una strada che sarebbe stata deserta se non fosse stato per una vecchia signora che portava a spasso un carlino nero; avanzava lentamente, quasi con circospezione, chiedendosi se quello che stava per fare sarebbe stata la cosa giusta: aveva paura di rivedere l’amico, non sapeva come avrebbe reagito. Aveva il timore che sarebbe stato respinto, ma sentiva che toccava a lui fare il primo passo per riprendere i contatti. Si fermò con indecisione a fissare una casa color salmone dall’altra parte della strada, restio ad attraversarla, e guardò quella che se non si sbagliava doveva essere la finestra della camera del suo amico: era aperta, per cui era probabile che fosse in casa. Una parte di lui aveva sperato che fosse assente, quindi dovette farsi coraggio per attraversare la strada e raggiungere il marciapiede di fronte. Non dovette, però, fare il grande sforzo di suonare il campanello: quando era lontano ancora una decina di metri dal cancello del condominio, sentì dei passi e, non molti secondi dopo, apparve proprio la persona che era venuto a cercare. Sobbalzò e, sentendosi ancora impreparato, si nascose dietro a una macchina parcheggiata. Dante gli apparì uguale a come l’aveva visto quella mattina a scuola, più grosso e coi capelli un po’ più lunghi rispetto a com’era l’ultima volta che si erano parlati; era palesemente cresciuto durante quei tre mesi, anche se da lontano non era in grado di quantificare. Indossava una maglietta rossa, non una delle solite t-shirt di bande metal a lui sconosciute, e sulla spalla aveva il suo ratto nero, quello che doveva avere il nome di Geko. Prese coraggio, fece un profondo respiro e mentre il ragazzo si avviava verso la parte opposta di quella dove lui era nascosto lo raggiunse, trotterellandogli dietro. «…Dante!» lo chiamò, affinché si fermasse. Udendo il suo nome l’altro si girò, facendosi scappare un’esclamazione di sorpresa quando individuò chi l’aveva chiamato. «Virgilio…ciao.» borbottò arrestandosi. Ecco, non doveva essere felice di rivederlo. Aveva preso uno sguardo quasi truce.
«C-ciao.» balbettò Virgilio, cercando di ricordarsi come aveva deciso di iniziare la conversazione. Non se lo ricordò, e la prima cosa che gli venne da fare fu chiedere all’altro come stava.
«Mah, non c’è male.» rispose Dante scrollando le spalle.
«T-ti disturbo? Stai andando da qualche parte?».
«Stavo solo andando in un parchetto qui vicino. Ci vado spesso quando non ho nulla da fare.».
Diavolo se era cresciuto. In tre mesi si era alzato di qualcosa come quindici centimetri; ora era alto circa come lui, anzi, forse addirittura un paio di centimetri in più. Ma proprio un paio, eh, non di più. L’avrebbe raggiunto e superato di nuovo un giorno, eccheccavolo!
«Senti…ti rompe se vengo anch’io? Vorrei parlarti un attimo…».
«…sì, va bene.».
Anche la sua voce era cambiata, era più profonda. Sul collo e sul mento aveva i primi accenni di barba, e anche i baffi e le basette gli si stavano scurendo. Le spalle gli si erano allargate e il volto aveva lineamenti meno morbidi. Finalmente dimostrava la sua vera età, e diavolo se la dimostrava bene! Virgilio non poté non notare che si stava facendo un bel ragazzo.
«Oh…ma io credevo che fosse il tuo ratto nero, invece è un altro.» disse per togliersi l’imbarazzo e prendere tempo, notando che l’animale non era Geko, mentre ricominciavano a camminare. «Ha gli occhi rossi! È il ratto che volevi, giusto? Non ricordo come si chiama…».
«Un Marten, sì. O Red Eyed Devil. Ma è l’unico che ho adesso, in verità.».
«Eh…? L’unico? Perché, che fine hanno fatto gli altri??».
«Li ho dati via. Venduti o regalati. A fine giugno mi è morto Dante. Era vecchio…aveva tipo due anni e nove mesi, è difficile che superino i tre…ma ci sono rimasto così male che non ho più avuto la forza di occuparmi degli altri, e piuttosto che occuparmene male…ho preferito darli via…».
«Mi dispiace…e quindi hai tenuto solo lui?».
«No. Li avevo dati via tutti. Questo qui me l’ha regalato una mia amica olandese quest’estate, quando sono andato a trovarla…sapeva che ne volevo uno e non sapeva che avevo smesso da poco di allevarli, me l’aveva preso per farmi una sorpresa e a quel punto non potevo rifiutarlo. Mi dispiace per lui, ma dovrà stare solo. Non ho proprio voglia di prenderne altri, al momento…».
«Non ti sei ancora ripreso dal lutto…? E come si chiama lui allora?».
«Mpf…potresti immaginarlo, in realtà…».
«Mh??».
«…lascia stare…».
«N-no, dimmi…!».
«Arrivaci.».
Oh, non che Virgilio non ci fosse arrivato. C’era arrivato subito. È solo che se avesse ammesso d’aver capito, dopo avrebbe dovuto affrontare l’argomento per cui era venuto a parlargli, e ancora non se la sentiva. Stette zitto finché non raggiunsero il parchetto, il solito parchetto di Dante con le porte da calcio senza rete, le panchine marce e il tiglio imboscato, verso il quale si diressero.
«…sì…lo so che devo averti fatto star male.» iniziò Virgilio una volta che ebbe raccolto il coraggio.
«”Fatto star male”? Virgilio, mi ci sono voluti due mesi per sopprimere la delusione e smetterla di piangere prima di addormentarmi.».
«M-mi dispiace…io, io-».
«Siediti.».
«Eh?».
«Siediti. Ci fermiamo qui.». Dante indicò la base del tiglio dov’era solito sedersi e attese che l’altro ebbe eseguito il suo ordine prima di imitarlo. «Ogni giorno ti pensavo e mi mancavi. E mi davo la colpa, ripetendomi più e più volte che ero stato stupido, che avevo rovinato la nostra amicizia con un solo gesto, che quella sera mi sarei dovuto controllare invece di buttare tutto a puttane, perché più che il tuo amore quello che mi mancava era la tua amicizia, il non poterti più vedere.».
«Anch’io ti-».
«E per quanto riguarda il resto…non posso vedere il mio cuore per cui non so dirti in quante parti si è spezzato, ma posso sentirlo e ti dico con sicurezza che ancora non sono riuscito a raccoglierle tutte. Ma quello…beh, in fondo non è colpa tua. Non posso pretendere di piacerti. Ho visto fin da subito che non sarei mai potuto piacerti, se ti piacciono quelli come quell’Emanuele ti so dire quante possibilità avevo…ma adesso perché, perché ti fai rivedere? Ero appena riuscito a rimettermi in piedi e spunti fuori dicendomi “so di averti fatto star male e gne gne gne”, che è, vuoi prendermi in giro?!».
«Dante, non hai pensato che se sono venuto a cercarti non è per prendermi gioco di quello che provi?!».
Dante ridacchiò sarcasticamente, ghignando: «Ohohoh, cos’è? Vuoi chiedermi scusa? Non devi chiedermi scusa, non hai colpe se io sto male, ma ti prego almeno di lasciarmi in pace e di non farti vedere da me! Abbi un minimo di di di, di sensibilità, ecco!».
«Sì che ti chiedo scusa, invece. Ti chiedo scusa perché potevo evitarti tutta questa sofferenza.».
«E come, sentiamo?».
«…Dante…tu mi piacevi.».
«Cos-??».
«Sì! Mi piacevi! Il fatto è che…mi piaceva anche Ema.». Virgilio sospirò, si passò le mani sugli occhi e poi riprese: «Ema mi piaceva dal maggio dell’anno scorso. L’avevo notato all’ultima assemblea d’istituto, ed era stato un colpo di fulmine. Non avevo motivi per farmelo piacere, a parte il fatto che fosse bello, bello, bello, e non sapevo assolutamente come avvicinarlo, anche perché in queste cose sono timidissimo e impacciato tanto quanto una foca nella foresta pluviale. Hai visto tu stesso, non so come muovermi. Quando ti ho conosciuto…mi hai subito colpito, infatti se ricordi sono venuto a cercarti a scuola il lunedì dopo che ci siamo conosciuti. Insomma, un giorno ti vedo assieme a metallari cerca-rogne e un altro ti trovo in discoteca…era curioso. E più approfondivamo la conoscenza più mi affezionavo a te, finché non mi sono accorto che forse l’affetto che sentivo significava qualcosa. Ma era diverso da quello che sentivo per Ema. Lui, se ci pensavo mi faceva palpitare il cuore, tremare le gambe, vederlo mi faceva arrossire e mi seccava la gola. Per te era un affetto quasi fraterno, era un sentimento più calmo ma più intimo, più difficile da comprendere. Essendo meno forte a livello fisico, ho iniziato ad aver paura che mi stessi piacendo solo perché non potevo avere Ema. Per rimpiazzarlo. E quando, quella sera…mi hai baciato…beh, a parte che mi hai preso proprio di sorpresa perché non avevo affatto capito di piacerti, non sospettavo nulla. Ma non ho voluto usarti. Non volevo rischiare di mettermi con te solo per consolarmi.».
«…d-dici davvero?». Dante stava tremando.
«Davvero. Sapevo che avresti sofferto, ma…era meglio farti soffrire così che darti false speranze prima per far finire la storia poco dopo.».
«…».
«Ma sono stato io a essere stupido. Una settimana dopo già non stavo più male per Ema. Era tutto fumo e niente arrosto, evidentemente. Ma ho iniziato a pentirmi di aver buttato via l’occasione di stare con te.».
Dante non riusciva più a parlare. Batteva i denti dall’emozione e aveva gli occhi lucidi; sembrava quasi che fosse tornato ad avere il faccino da dodicenne di pochi mesi prima, aveva le guance color porpora e le labbra serrate, sottili. Guardava il ratto che aveva in grembo senza vederlo.
«So che chiederti un’altra possibilità è chiederti troppo. Ma volevo perlomeno che lo sapessi. Non so se è il caso di tornare a essere amici, a questo punto…hai ragione tu, è meglio se non mi faccio più vedere, è più semplice e rispettoso nei confronti di entrambi.». Sentendo  questa frase, Dante afferrò il polso di Virgilio e scosse forte forte la testa. «Perché dovremmo essere così stupidi? Perché dovremmo farci del male da soli?» chiese poi, con tono disperato. «Siamo qui, siamo insieme, vogliamo entrambi la stessa cosa! Che senso ha lasciar perdere??».
«…Dante, io credevo che tu non volessi più sape-». Virgilio non riuscì a terminare la frase: Dante l’aveva preso per la maglia e con uno strattone l’aveva fatto praticamente cadere su di sé, chiudendogli la bocca con un bacio, il secondo, che stavolta non venne rifiutato, ma anzi accolto con calore. Una volta che le loro bocche si furono separate Virgilio fece per tornare seduto, con l’intenzione di continuare il discorso, ma Dante lo trattenne e gli fece intendere che non aveva intenzione di proseguire la conversazione: le parole rovinano solo certi momenti, quando sono di troppo; e allora si diedero un altro bacio, poi un altro, e un altro ancora, e finirono per darsene così tanti che quando si divisero avevano le labbra screpolate. Ai baci si aggiunsero le carezze, e con le carezze i sospiri e i brividi, in un climax di piacere che avevano entrambi atteso per mesi, ignari uno del desiderio dell’altro. Una piccola felicità si creò in quel parco abbandonato e squallido, che ai loro occhi divenne improvvisamente il luogo più bello e piacevole del mondo.
Mentre tutto ciò succedeva, il Marten di nome Virgilio prendeva e, completamente dimenticato, scappava via.

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