Nono Capitolo:
Βυθός θάλασσας
Una
bambina dai corti capelli castani impugnò una pesante spada a due mani dalla
lama corvina come la notte. Anche se non aveva la forza necessaria per poterla
usare efficientemente in combattimento, lei non si arrese, preferendo subire
pesanti colpi dal suo istruttore piuttosto che abbandonare l’arma e sceglierne
una alla sua portata.
L’uomo
si scostò una ciocca bionda dal viso e osservò quel gracile corpo con i propri
occhi azzurro elettrico, prima di sferrarle un pesante calcio nello stomaco che
la fece cadere dolorosamente a terra e rigettare sangue.
Ma
anche se sofferente, la giovane non lasciò l’elsa della spada e si rialzò,
usando la lama impiantata nel suolo come sostegno. Ansimava, tossiva cremisi e
sentiva le ferite bruciarle internamente, però rimaneva salda sulla pianta dei
piedi, non volendo per niente al mondo cedere.
Il
caldo sole primaverile l’affaticava ancor di più, come se non fosse già
abbastanza in difficoltà. Sentiva la gola secca, con uno sgradevole sapore
metallico che le provocava unicamente un senso terribile di nausea.
Raccogliendo
le ultime forze che le erano rimaste, corse verso l’avversario, tentando un
affondo, ma questo evitò facilmente il lento colpo e contrattaccò con un pugno,
il quale riuscì a staccarle quattro denti da latte.
<<
Pólemos!>> esclamò allarmato un altro uomo, poco più basso
dell’insegnante e con una muscolatura meno sviluppata, seppur la corazza dorata
e il mantello gli donassero una maggiore importanza << Basta! Ha solo
otto anni! Se continuerai così, la ucciderai!>>
L’interpellato,
che portava soltanto una gonna in cuoio borchiata e dei calzari aperti, si
voltò fulmineo verso l’interlocutore e lo fulminò, anche se poi gli diede
un’occhiata più dolce, quasi divertita per quella presa di potere.
<<
Agápe, non sapevo che riuscissi ad indossare i pantaloni davanti a me>>
lo schernì acidamente, prima di concentrarsi nuovamente sulla bambina, la quale
si era a fatica rizzata in piedi, seppur la stabilità non fosse delle migliori
<< Io sono il suo istruttore, così hanno ordinato i Polemarchi. Quindi
non ti azzardare più a importi con me. Non ne hai il potere, né di giorno, né
tantomeno di notte>>
Agápe
fece un ringhio sordo, prima di avvicinarsi al campo di addestramento e calpestare
la sabbia screziata di cremisi.
<<
I Polemarchi hanno detto di allenarla, non di ucciderla. Quindi se non farai il
tuo lavoro, sarò costretto a denunciarti davanti a loro>>
<<
Ci tieni tanto alla mocciosa, ma molto meno alla tua vita>>
<<
Ho promesso a suo padre che l’avrei protetta a ogni costo. E almeno questa
promessa la voglio mantenere>>
I
due Comandanti erano terribilmente vicini, prossimi allo scontro, ma un tremendo
e fulmineo fendente bloccò ogni possibile combattimento.
La
pesante spada corvina, con un lesto attacco, tranciò di netto il braccio
sinistro di Pólemos e ustionò anche la parte di pelle circostante, causando un
dolore indescrivibile all’uomo. L’elsa mortale era stata condotta dalla
bambina, la quale faceva lunghi respiri.
Il
ferito, in un impulso di ira, fece per afferrarla al collo per spezzarglielo,
ma Agápe fu più veloce a prenderla e portarla lontano.
Seguì
un lungo minuto di silenzio, dove i presenti rimasero a fissarsi l’un l’altro
attendendo una possibile reazione. Che non avvenne.
<< Prendila pure tu in
custodia>> rise infine Pólemos, togliendo la mano dal taglio << Io
le insegnerò quando sarà capace a tenere decentemente una spada in mano>>
Accampamento,
febbraio, 852.
Il cielo era cupo,
la luna e le stelle erano velate da una spessa coltre di nubi che insieme
all’aria ricca di tempesta annunciavano la pioggia. Tutt’intorno
all’accampamento regnava il silenzio più totale, colmato unicamente dalle voci
di soldati ubriachi.
Illuminate dalla
tenue luce delle torce, all’estremità del campo si trovavano diverse guardie
nerborute, più simili per stazza a creature mitologiche che a comuni esseri
umani. Fermi, immobili osservavano il buio con sguardo attento, non lasciandosi
sfuggire nemmeno un rumore.
Al centro invece
era posta una tenda più lussuosa delle altre, più ricca di oggetti e più
confortevole. Al suo interno, vicino a una tavola sepolta da mappe e carte, si
trovava Lachesi, raggomitolata e singhiozzante, con visibili lividi non coperti
dalla corta veste da schiava che indossava.
Stringeva i pugni
con talmente tanta veemenza da mostrare addirittura i tendini sottopelle.
Avrebbe voluto uccidere Pólemos con le proprie mani, ma non era abbastanza
forte. Non lo sarebbe mai stata.
Alzò da terra il
capo, asciugandosi il viso su cui era colato il trucco con cui le serve
l’avevano abbellita. Lunghe linee colate nere, rosse e cobalto le rigavano le
guance, mentre i corti capelli, che le arrivavano all’incirca metà del collo,
erano scompigliati, seppur abbastanza puliti. Ma anche in quelle disastrose
condizioni poteva ancora definirsi un oggetto assai appetibile.
Guardò le mani
sporche di cosmetici dai colori accesi, poi fece un lungo e rassegnato respiro,
interrotto ogni tanto dai gemiti. Perché gli dei le erano così avversi? Perché
non poteva vivere una vita priva di dolore e di disgrazia?
Allora pensò ad
Agápe. Alla sua proposta di diventare una donna di casa, di stare lontano dalla
guerra e dal campo di battaglia. Avrebbe vissuto in un bell’alloggio, consorte
di chissà quale uomo, passando il tempo a tessere e ad ubriacarsi assieme alle
altre mogli per evitare il senso di vuoto che altrimenti l’avrebbe sopraffatta.
Quella però non
era vita o almeno, non per Thàlassa. Ma nemmeno l’opzione che aveva scelto si
poteva definire in tal modo.
Oppure no.
Ripensò all’ultimo
periodo, a quando aveva conosciuto i membri della Legione Esplorativa, in
particolar modo Elizabeth, Eren, Mikasa, Oscar... e Levi. I suoi compagni, il
suo appoggio. Grazie a loro aveva dato un senso alla parola vivere. Aveva
assaporato ogni attimo, ogni risata quando era in loro compagnia.
Si portò le
ginocchia al petto, pensando in che condizioni potessero essere Eren e Oscar in
quel momento, sentendosi così incredibilmente in colpa, come se avesse condotto
lei Pólemos fino a lì, come se avesse architettato lei il piano per instillare
il panico tra i soldati, prima di distruggerli definitivamente.
Era solo un
mostro, uno di quei demoni dello spietato dio della Guerra capaci di portare
solo morte e terrore.
L’avvento di un
grosso corvo la fece sobbalzare. Seguì il volo con lo sguardo, finché l’animale
non si posò sul ciglio di una tinozza vuota, guardandola diritto negli occhi
azzurri con i propri piccoli e corvini.
Poco dopo entrò
Gwydion, il quale richiamò a sé il volatile che, ubbidiente, gli si poggiò su
una spalla. Il druido stringeva tra le mani una bevanda calda, dall’odore
repellente.
<< Tieni,
bevi>> disse, porgendogliela.
<< è
veleno?>> ringhiò lei, accettando comunque il liquido verdastro.
<< No. È una
miscela che permette di non avere brutte sorprese in futuro. Dopotutto sei una
donna e non credo che Pólemos ti abbia scambiato carezze la notte
scorsa>>
Lachesi guardò il
bicchiere, mentre il suo volto s’incupiva sempre di più. Un tempo non avrebbe
mai fatto un simile gesto, perché dopotutto la possibile creatura che avrebbe
potuto trovarsi nel suo grembo aveva diritto di vivere; non doveva essere
infatti per forza uguale al padre. Eppure qualcosa, una voce, un sussurro
interiore le consigliava di pensare, di riflettere.
Non riusciva a
comprendere il proprio vacillamento di opinione e quale potesse essere la
causa. O forse ne era cosciente, ma non voleva ammetterlo.
<< Lachesi,
lo so che per te è difficile, ma vuoi rimanere veramente incinta di un uomo che
detesti?>>
<< Da che
parte stai? Perché mi stai aiutando?>>
<< Io non ho
una parte in cui stare ormai da molto tempo. Comunque il mio aiuto non è per
secondi fini, se era questa la tua preoccupazione>>
Seguì un minuto di
silenzio dove i due si osservarono a lungo.
<< Ad ogni
modo... grazie>> mormorò infine lei, bevendo poi d’un sorso il liquido
terribilmente amaro, facendo una smorfia per il disgusto.
L’uomo lanciò un
quadrato di cioccolato che la ragazza non tardò a prendere al volo. Rimase a
contemplare l’alimento come se fosse un
essere estraneo, proveniente da chissà quale terra. Da troppo tempo non vedeva
una simile prelibatezza, tanto che quasi si era dimenticata persino la forma e
il sapore.
Non si domandò
nemmeno se fosse avvelenato, anzi divorò il dolce con un incredibile
contentezza, soprattutto perché in tal modo riuscì a togliere il terribile
sapore della bevanda. Si gustò ogni molecola di quel cibo, mentre un sorriso le
si allargò ampio sul viso.
<< Vieni, ti
porto a vedere i tuoi compagni>>
<< Davvero?
Ora mi dirai che sei riuscito a convincere Pólemos...>> disse la
fanciulla in tono scettico.
<< No, ora
il Comandante sta bevendo in compagnia, quindi so di per certo che non tornerà
per un po’>>
<< Fammi
indovinare, una formosa schiava?>>
<< No, un incatenato Comandante>> il druido
emise un lungo respiro, facendole segno di seguirlo, poi continuò con voce un
po’ più moderata, quasi un sussurro << Agápe sta per essere
giustiziato>>
Le gambe di
Lachesi vacillarono, facendola barcollare un poco, mentre il suo stomaco si
chiuse in una gelida morsa. Cercò disperatamente della menzogna negli occhi
aurei dell’uomo, ma trovò unicamente una amara, amarissima verità.
Agápe sarebbe
morto a causa sua. La sua falange era morta a causa sua. Suo figlio era morto a
causa sua, perché la reputavano alla stregua di un mostro. Quante persone
dovevano ancora morire ingiustamente?
Doveva esserci lei
sul patibolo, avrebbe dovuto trovarsi lei smembrata al posto dei soldati, ma la
sua ora sembrava non venire mai e al suo posto venivano prese persone care.
No.
Agápe era stato
come un secondo padre per Lachesi. L’aveva accudita, cresciuta e aiutata in
molte situazioni spigolose. Non voleva perderlo per niente al mondo, anche al
costo di finire lei sul patibolo.
Gwydion la fermò,
muovendo lentamente il capo in segno negativo, come se le avesse letto il
pensiero e sapesse le sue intenzioni.
<< Pensa ai
tuoi compagni, se tu morissi...>>
<< Non mi
puoi dire di scegliere la mia vita al posto della mia famiglia!>> esclamò
Thàlassa << Mi sono rotta le palle di vedere gente a me cara morire!
Agápe è l’unico che mi è rimasto, non voglio che faccia la stessa fine!>>
<< E Levi? E
Elizabeth, Eren, Oscar...>>
<< Per loro
sono un cadavere ormai>> mormorò la ragazza, chinando il capo << ed
è meglio così>>
Il druido fece un
lungo respiro, poi gettò a terra una daga dalla lama nera come la pece, allontanandosi.
<< Fai ciò
che devi, stratega. Hai una sola possibilità>> disse prima di scomparire
tra le altre tende assieme al corvo.
Wall
Rose, febbraio, 852
Elizabeth si
guardò allo specchio, facendo un lungo sospiro. Tutto era incredibilmente
vuoto, silenzioso, inutile. Persino quell’immagine riflessa era vuota.
Erano passati un
paio di giorni dalla terribile spedizione ed ora si preparava per andare a
discutere con i membri più importanti, i quali non accettavano un altro
fallimento. Invano la Legione Esplorativa aveva spiegato a loro la situazione,
l’arrivo di questo temibile esercito nemico, poiché nessuno credeva a quelle
parole, giudicandole insensate.
Infatti Lachesi
era un personaggio nato lì a Wall Rose e tutta la storia che le girava attorno
era una messa in scena dei piani più alti. O almeno erano queste le notizie che
si leggevano sui giornali.
Dov’era la dea?
Dov’era la schiava?
Dimenticata con la
sua morte.
Si allacciò il
cinturino in cuoio delle proprie vertiginose scarpe con il tacco, poi uscì
dalla propria stanza a testa alta rivolta il soffitto bianco, immacolato.
Non aveva né la
capacità, né la voglia di affrontare un dibattito con il quale si sarebbe
indubbiamente sciolta la Legione Esplorativa. Perché ormai era chiaro: senza
più l’appoggio né del popolo, né dei nobili, la vita di quell’organo
dell’esercito era destinata a cessare.
Ma non le importava
più di nulla. Infatti aveva riflettuto a lungo sull’idea di abbandonare quel
posto per ritornare a oriente e adempire in tal modo al suo compito che aveva
rimandato da troppo tempo. Quel progetto, seppur l’avesse scartato per molti
anni, sembrava essere l’unica azione sensata da fare.
Senza la propria
squadra, senza Oscar, niente la tratteneva in un luogo così corrotto. E non
voleva rimanerci un solo istante di più.
Tuttavia, qualcosa
la riportò al presente: difatti si scontrò con una figura più bassa di lei, dal
famoso e pessimo carattere, accentuato nell’ultimo periodo.
<< Oh,
buongiorno nano>> la donna forzò un sorriso sprezzante che tuttavia si
spense quasi subito.
<< Guarda
dove cammini, donna>> rispose lui, con meno grinta del solito.
Camminarono l’uno
affianco all’altra per un tempo indeterminato, forse minuti, forse quarti d’ora.
Non si parlarono, né si tirarono frecciatine. Il silenzio regnava sovrano,
poiché entrambi erano immersi nel propri pensieri.
Fu però la stessa
Elizabeth a rompere il ghiaccio, non per volontà sua, ma perché in fondo non
sopportava vedere il Caporale Maggiore in quelle condizioni.
<< Sai,
nano>> iniziò << sono una persona orribile>>
<< Ma non mi
dire>> scherzò lui, amaramente.
<< Ho deciso
di tenere Oscar solo per un mio capriccio e adesso che è andato tutto a
puttane, ho preso la decisione di andarmene>>
<< Mi hai
scambiato per un cazzo di confessionale?>>
<< Bah,
forse. Volevo andarmene senza pesi sul cuore, ecco tutto. Sai, ho amato molto la
madre di Oscar, un amore carnale al limite del distruttivo. E quando lei è
morta ho preso con me suo figlio perché... boh, non so nemmeno il motivo. Se
avessi saputo che perderlo mi avrebbe causato un dolore simile, l’avrei
lasciato morire tra le fiamme>>
<< Non ne
saresti capace>> disse schietto Levi dandole un gelido sguardo, poi
continuò << Altrimenti non avresti nemmeno aiutato mia madre a
partorire>>
<< Oh, già,
mi ricordo ancora la tua faccia incazzosissima di quando sei venuto alla luce.
Ma quella comunque è storia vecchia, sono cambiata>>
<< Nessuno
cambia>>
E dopo quella
fredda frase, uscirono dal quartier generale, raggiungendo la carrozza che li
avrebbe portati al luogo della riunione. Ad aspettarli si trovava Erwin,
vestito di tutto punto, con un’espressione serissima. Lasciò addirittura
interdetta la dottoressa, la quale non riusciva a capire come facesse il
Comandante ad essere così forte, al contrario suo che invece stava per
crollare.
Il trio salì sul
veicolo, dove si trovavano Mikasa e Armin, entrambi cupi e distanti con la
mente, dopo giorni di protesta. Fecero fatica a salutare i propri superiori,
anzi, forse non li salutarono nemmeno da quanto erano sconvolti.
Perdere nuovamente
Eren per la ragazza era significato molto, un dolorosissimo colpo allo stomaco
e alla psiche; era diventata più taciturna del solito e la medesima situazione
valeva anche per l’amico.
Nessuno della
squadra era rimasto impassibile dopo quel disastro. Nemmeno Sasha o Connie,
neppure Jean, il quale si era rigirato spesso tra le dita uno stemma
appartenente forse a un suo amico deceduto.
Il quintetto non
parlò per tutto il viaggio, rimanendo alcuni a fissare un punto indistinto
fuori dal finestrino, altri le proprie scarpe o l’interno della carrozza.
Il rumore delle ruote
e degli zoccoli del cavalli riempiva l’aria, come una continua e ripetitiva
musica con il solo scopo di scandire il tempo che scorreva inesorabile. La
dottoressa, stanca, fece per poggiare il capo contro lo stipite della portiera
e addormentarsi, visto che quasi non aveva chiuso occhio. Ma un improvviso
sobbalzo la fece ridestare e imprecare violentemente.
Qualcosa aveva
fatto imbizzarrire i quadrupedi, i quali scalpitavano fuori dalla carrozza.
Elizabeth scese
subito e vide Hanji con un’espressione entusiasta in viso. Le due donne
rimasero ad osservarsi per lungo tempo, finché la seconda non si avvicinò e,
non riuscendo a trattenere la gioia, esultò.
<< Cos’è
successo?>> domandò la dottoressa, dopo che l’amica la lasciò << E
dove sei stata?>>
<< Dobbiamo
andare assolutamente a Wall Rose>>
<<
Cosa?>>
<< Sono
ancora vivi!>>
<<
Cosa?!>>
<< Sono
arrivati in groppa all’orso gigante!>>
Elizabeth venne
spinta più in là da Levi, il quale balzò giù dal veicolo, seguito da Erwin e
soprattutto Mikasa, la quale, sentendo che Eren potesse essere ancora vivo, le
si era accesa in volto una nuova speranza, una nuova vita.
<< Spiegati
meglio>> sbottò il Caporal Maggiore.
<< Eren e
Oscar sono arrivati da poco in groppa all’Orso Gigante! E sono vivi! L’ho
sentito poco fa da un paio di guardie...>>
<< E
Lachesi?>>
La caposquadra a
quel punto tacque, diventando più seria. Un silenzio che valse più di mille
parole.
Levi s’incupì
visibilmente, seppur avesse mantenuto la sua espressione atona. Qualcosa nel
suo sguardo si era spento.
Erwin allora
intervenne, concentrando l’attenzione su di sé.
<< Dobbiamo
andare a vedere se le nostre reclute stanno bene>>
<< Ma
comandante...>> mormorò Elizabeth, seppur né il suo cervello, né il suo
cuore volessero stare un momento in più in quella gabbia recintata.
<< è un
nostro dovere, Dottoressa>>
Gli altri soldati
rimasero muti per qualche frazione di secondo, poiché tutti condividevano lo
stesso pensiero e l’idea di non incontrare dei nobili ottusi non dispiacque a
nessuno.
Anche se ciò che
stavano per fare forse avrebbe causato il definitivo scioglimento della Legione
Esplorativa.
Luogo
sconosciuto, febbraio, 852
<< E chi ti
dice che saremo dalla tua parte?>> disse una figura, oscurata dalla cupa
ombra degli alberi.
<< E chi ti
dice che Pòlemos risparmierà un Colossale e un Corazzato?>> ribatté
Agápe, abbozzando un sorriso sornione.
Fine nono
capitolo!
Nome Capitolo:
Fondo del mare.
Rieccomi dopo
tanto tempo! No, non sono morta, ho solo avuto un periodo non molto semplice,
quindi non ho potuto pubblicare nulla (per carenza di tempo principalmente). Mi
dispiace se avete dovuto aspettare tanto, anche se posso dire quasi con
certezza che anche per il prossimo capitolo ci vorrà un po’ di pazienza.
Cercherò di fare il possibile per finirlo in un tempo decente, anche se sono io
la prima a dubitare delle mie capacità (anche perché se questo l’avevo già
completato a suo tempo, bastava solo ricontrollarlo, l’altro... beh... non
saprei).
Appena ci saranno
le vacanze e avrò un maggiore respiro tenterò di rimediare, almeno spero!
Grazie ancora per la vostra pazienza!