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Autore: CHAOSevangeline    08/04/2014    1 recensioni
La Perseus è un’organizzazione che si occupa di mantenere l’ordine in una società provata da una misteriosa malattia, il Morbo di Dipsa.
Non si sa né quale sia la sua origine, né quale sia l’esatto modo di curarlo, ma nonostante questo, agenti come Jean Kirschtein sono incaricati di tenere duro, di proteggere e di aiutare la Perseus nel suo compito.
Questo compito per Jean non sarebbe affatto facile, se al suo fianco non fosse stato assegnato Marco Bodt.
Genere: Azione, Generale, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2 - Primo sangue

 

Scendere dalla macchina e sentire subito dopo il tonfo della sua portiera un secondo suono uguale al precedente era diventata per Jean una piacevole routine che gli ricordava ogni giorno di non essere più solo.
Avesse dovuto fare un resoconto, ora che era passato circa un mese – forse di più forse di meno, crollava sul divano talmente velocemente la sera che né allora, né il mattino dopo riusciva a controllare la data sul calendario per la fretta –, avrebbe certamente negato di essere lui lo stesso Jean tanto ostile all’idea di dover collaborare con qualcuno.
Se doveva essere sincero non sapeva dire con quale assurdo incantesimo Marco l’avesse colpito per riuscire a ingraziarselo tanto facilmente, ma andava bene così.
Dopo la missione di Jaeger erano diventati una coppia di colleghi alquanto acclamata alla Perseus e mentre Jean si chiedeva quanto tempo potessero avere da perdere gli altri per esultare ad ogni loro minimo gesto, si accorgeva di quanto gli occhi di Marco brillassero.
Aveva avuto l’impressione sin dal primo momento che Marco fosse il classico esempio di ragazzo ombra, quello che sì, è conosciuto, ma che la gente non considera mai troppo.
Per Jean non era mai stato così e anche se doveva ammettere che spesso si sarebbe divertito ad essere meno considerato nonostante i propri modi scortesi che spesso lo facevano risaltare rispetto alla consueta obbedienza degli altri, doveva riconoscere che essere come Marco l’avrebbe veramente frustrato.
Poco male, adesso le cose erano cambiate per entrambi e andava bene così.
Non avevano più avuto occasione di trattare casi importanti come era sembrato essere quello di Eren, né tanto meno di avere a che fare con lui, ma tanto meglio: Jean non teneva particolarmente ad avere a che fare con quell’irascibile ragazzino. Avvicinarsi a lui avrebbe comportato più danni che vantaggi, per come la vedeva, e fino a quando non si fosse trattato di un ordine che non avrebbe potuto declinare si sarebbe allegramente lasciato coinvolgere da casi che non lo riguardavano.
Tutti quei pensieri non lo stavano infastidendo, in quel momento. Non quanto l’odore acre della birra che Connie aveva involontariamente rovesciato sulla sua felpa indossata dopo aver staccato dal lavoro.
Promemoria: si sarebbe seduto lontano da quell’idiota, se ci fosse stata una seconda bevuta di gruppo.
Non aveva ben capito la ragione per cui fossero andati a bere, certo era che quella volta lui e Marco non erano sotto i riflettori.
Con estrema disinvoltura, controllò con la coda dell’occhio lo spazio al proprio fianco e appurò che il ragazzo si trovava ancora accanto a lui, intento a camminare.
Le guance erano imporporate dal leggero rossore dovuto all’eccessivo ridere causato dal danno di Connie.
« Pensavo che dovresti reputarti fortunato a non aver ricevuto un pugno, Marco. »
Iniziare un discorso con una simile argomentazione era in pieno stile Jean Kirschtein, Marco dovette riconoscerlo.
Fu proprio per questo che una sottile risata sfuggì dalle sue labbra, non più tesa come i primi giorni: quando Jean gli urlava che gli avrebbe rotto qualche osso se l’avesse intralciato aveva seriamente temuto per l’incolumità del proprio corpo, ma poi si era reso conto che dopo essere rientrato nella sfera di “persone abituali” era raro ricevere poco più di un leggero pugnetto.
Che forse tanto leggero non era, ma comunque non era mai arrivato a rompersi un osso. Dubitava anche che Jean si rendesse conto di fargli male, perciò fino a quel momento aveva lasciato correre.
« Avresti riso anche tu se al posto della tua felpa ci fosse stata la mia! »
Era logico.
Uno sbuffo, poi la chiave che girava nella serratura e il calore dell’appartamento di Jean cercò di scappare infilandosi nel tiepido corridoio del condominio.
« E tu mi avresti tirato un pugno. » cercò di salvarsi come poteva Jean.
« Nah, non l’avrei fatto. »
Non se la sentì di insistere: avrebbe perso la causa solo in modo più eclatante di quanto non potesse fare in quel momento.
Si aprì la zip della felpa rossa, ormai quasi marrone a causa della grossa chiazza all’altezza dello stomaco e si avviò verso il corridoio, gettandola in un cesto incassato in un angolo, quasi nascosto.
Si passò una mano fra i capelli e superò Marco, intento a sfilarsi la giacca.
Invitarlo a casa propria era diventata una consuetudine, tanto che ormai il ragazzo sapeva quasi meglio di lui dove trovare le cose.
Effettivamente si domandava se, durante quelle due o tre notti durante le quali si era fermato da lui avendo fatto troppo tardi, non fosse andato a scorrazzare in giro preso dalla curiosità di capire come la mente di Jean Kirschtein avesse organizzato la propria casa.
Marco aveva smentito la mattina dopo dicendo che cercare di portare a termine un’impresa simile l’avrebbe fatto diventare matto, ma Jean aveva ugualmente ricevuto la risposta che gli serviva: se non aveva esplorato da solo, era stato lui a dirgli dove si trovava tutto quanto, la sera in cui l’aveva riportato a casa ubriaco.
« Direi che non è il caso di offrirti una birra. »
« Direi di no. » confermò divertito Marco, avvicinandosi al divano e abbandonandosi su di esso.
Il portatile nero di Jean riposava su uno dei tavolini di vetro di fronte al sofà, ma ben presto venne avviato e sistemato sulle gambe incrociate del biondo che si era appostato accanto a Marco.
Il ragazzo con le lentiggini osservò curiosamente lo schermo che caricava, sporgendosi verso l’amico senza nascondere la propria curiosità.
« Devi cercare qualcosa? »
« Diciamo, sì. » un leggero sorriso divertito incurvò le labbra di Jean e Marco rimase interdetto per qualche attimo; il ghigno che aveva appena visto non avrebbe rassicurato nessuno, ma lo stava attirando dritto nella trappola che Jean aveva ordito sapientemente nella propria testa.
Da qualche tempo si era accorto che il discorso fatto con Marco nella birreria, uno dei loro primi giorni di lavoro insieme, aveva fatto insinuare il dubbio nei confronti della Perseus nella mente del ragazzo e Jean ora non voleva far altro che controllare con lui quanto i tediosi sospetti su cui l’aveva fatto riflettere fossero fondati.
Più volte nel corso di quel mese Marco aveva rivolto qualche domanda rapida, come a voler capire qualcosa di più sulle opinioni di Jean, ma il ragazzo non si era mai sbilanciato più di quanto non avesse fatto quella sola volta.
Il silenzio rimase nella stanza fino a quando Jean non iniziò a macchinare, battendo rapidamente i tasti del computer senza nemmeno guardarli, concentrato unicamente sulle lunghe stringhe di scritte che stavano comparendo sullo schermo.
Marco era sempre più stupito.
« Per caso sei un l’hacker? »
Ecco la prima ragione per cui non aveva indagato prima insieme a lui.
« Una specie. »
Quello che si aprì, nel giro di pochi attimi, fu la schermata degli archivi della Perseus; nulla a cui Marco e Jean non avessero accesso normalmente. Marco realizzò solamente quando vide Jean aprire la lista dei soggetti ricercati.
« Jean, non dovr-… »
« Lo sapevo! » l’entusiasmo di Jean proruppe, interrompendo Marco e facendolo tornare a fissare quella lista di foto e nomi che mai si sarebbe sognato di guardare.
Se doveva essere sincero, Jean l’aveva effettivamente infettato parlandogli di tutti i sospetti che nutriva nei confronti della Perseus, ma alla fine Marco non voleva né sabotare l’organizzazione, né credere a quelle che reputava, in un certo senso, delle sciocchezze che Jean aveva solamente immaginato.
Che dovesse ricredersi?
« Cerchi ancora di convincermi che nella Perseus c’è del marcio? »
Venne zittito dal rumore del computer che si girava contro la stoffa dei pantaloni di Jean e dal nome che compariva sullo schermo.
Mikasa Ackermann, soggetto numero 87, cella numero A-40.
« Non è possibile… »
« Eppure è qui! »
L’euforia di Jean pareva quasi malata; essere felici che la corporazione per cui si lavorava fosse in verità colma di segreti era tanto piacevole?
La schermata scomparve ben presto e Jean sistemò di nuovo il computer sul tavolo, incrociando le braccia dietro la testa e guardando Marco che lentamente sembrava realizzare come stavano le cose.
« Hanno mentito davvero. »
« Era ovvio, per loro abbiamo ancor meno diritto dei cittadini di sapere. Alla fine siamo come dei cani, no? » fece una pausa, rilassando il collo contro lo schienale del divano. « Non possiamo smettere di lavorare per loro solo perché l’abbiamo scoperto, ma è comodo avere delle armi dalla propria parte. »
 
 
Il mattino dopo la pattuglia della città era stata una delle più normali archiviabili nel memoriale di Jean: Marco aveva parlato del più e del meno, come se il giorno prima non fosse accaduto assolutamente nulla e nemmeno una volta si era sognato di intavolare qualche pensiero dubbioso.
Che stesse cercando di non pensarci per ragionarci poi da solo o che stesse tenendo il muso per non aver avuto ragione – anche se la seconda opzione non era affatto da lui –, a Jean non importava poi così tanto.
Voleva solo che sapesse, per il momento.
Probabilmente avrebbero raggiunto la Perseus tranquillamente per la loro pausa pranzo, se solo un enorme trambusto non avesse attirato l’attenzione del moro che, ancora prima che la macchina si fermasse, si era lanciato giù dal sedile del passeggero ignorando totalmente Jean che lo chiamava.
Quel maledetto era troppo avventato, troppo. In un certo senso gli ricordava lui.
La scena che si parò loro davanti non fu una delle migliori: un uomo con un cappuccio che gli copriva il volto stava reggendo saldamente una bambina, puntandole una pistola contro la testa.
« Dammi delle maledettissime medicine se vuoi la mocciosa indietro viva! »
« Ti ho già detto di non averne!! » un singhiozzo disperato che si unì al pianto della bambina che continuava a chiamare la madre con fare disperato.
Marco punto a propria volta la pistola contro l’uomo; erano a qualche metro di distanza, non l’avrebbe potuto mancare.
« Lascia andare quella bambina. » la sua voce taglio l’aria come un lampo di ghiaccio per quanto era gelida. Jean credette di sentire il sangue congelare.
Una risata malsana si spanse, mentre l’uomo stringeva più saldamente il piccolo ostaggio sotto le braccia, sibilando subito dopo. Aveva gli occhi illuminati da una luce distorta e sia Marco che Jean ne capirono ben presto la ragione: la manica leggermente alzata rivelava un segno pulsante, all’altezza del polso.
« Dipsa… »
Il nome della malattia sembrò irritare maggiormente l’aguzzino, che gettò uno sguardo al simbolo scoperto probabilmente per sbaglio. Che ragione di vanto poteva esserci, dopotutto, nello sfoggiarlo?
« Siete della Perseus no?! Dite ai vostri stupidi capi di dare a noi malati le medicine invece di tenersele per i loro maledetti esperimenti! »
Jean sentì una stretta attanagliarsi intorno al suo stomaco, stretta che divenne ancor più forte quando Marco gli parlò.
« Vi ribellate in continuazione al loro aiuto, cosa sperate di ottenere? »
In quel momento, Jean iniziò a camminare verso l’uomo tremendamente serio in viso.
« Ti darò le medicine, lasciala andare. » mormorò, attirando l’attenzione di Marco che sussultò appena.
« Le voglio prima, chi mi dice che non mi consegnerai a quei pazzi, eh?! »
« Chi dice a me che lascerai viva la bambina quando ti avrò dato quello che vuoi? »
Mettere alle strette i malati di Dipsa era una delle peggiori cose che si potesse decidere di fare, in una missione.
Jean lo sapeva e nonostante tutto, continuava a farlo: non era la prima volta e certamente non sarebbe stata neanche l’ultima, nonostante gli anni di esperienza sul campo.
Non gli era mai costato tanto come gli sarebbe potuto costare in quel momento, quando il braccio dell’infetto virò improvvisamente verso di lui e sparò un colpo che certamente sarebbe andato a segno, se solo non fosse stato bruscamente spostato da Marco.
Gli occhi si sgranarono fissando la figura dell’amico e per un attimo sentì il terrore crescere dentro di sé.
Petto? Spalla?
Dove lo aveva colpito?
Fu quando vide un fiotto di sangue espandersi sul suo cappotto e la sua schiena reggersi, seppur incurvata per il dolore, che capì quanto il bilancio finale fosse stato migliore del previsto.
Nonostante tutto, Marco si voltò verso di lui per un attimo senza nemmeno smettere di sorridere; aveva lo sguardo carico di dolore, ma gli aveva rivolto uno di quei soliti, maledettissimi sorrisi.
« Stai bene? »
Nemmeno un rimprovero.
Jean sentì solo quella frase, le urla della donna alle sue spalle che li implorava di gestire la situazione non lo raggiunsero nemmeno. Era tutto coperto da un assordante fischio che sembrava volergli impedire di ascoltare qualsiasi cosa non fosse il suo cervello.
Si chinò rapidamente a terra dopo aver afferrato la pistola e sparò un colpo, dritto in mezzo agli occhi dell’uomo, che lasciò andare la bambina.
Jean lasciò cadere a terra l’arma.
Certamente Marco l’avrebbe odiato per ciò che aveva fatto.
« Prima regola del Corpo di Difesa: se un soggetto impazzisce e non è richiesta la sua presenza in laboratorio, eliminarlo immediatamente. » lo ripeté quasi per confortarsi, ma non gli bastò per allontanare il senso di colpa che gli impedì di gioire nel vedere la madre che finalmente riabbracciava la figlia.
 
 
Raggiungere la fine della giornata fu quanto di più duro potesse essere chiesto a Jean, per quella volta, e rivedere finalmente le quattro mura del proprio condominio infuse in lui una leggera gioia, anche se perpetua.
Si lanciò verso le scale incurante di avere Marco alle calcagna e, dopo essere entrato, recuperò rapidamente un bicchiere di whisky dalla cucina.
Una volta tornato, la sua espressione mutò in stupore nel vedere la scena che gli si stava parando davanti.
« Che stai facendo? »
Marco, fino a poco prima intento a togliersi le scarpe ora sistemate meticolosamente accanto alla porta, stava stendendo la coperta normalmente raggomitolata in un angolo del divano per via del diverso modo di essere ordinato di Jean.
Marco ricordava di averla vista ben piegata e sistemata sullo schienale del comodo sofà unicamente quando era stato lui a piegarla e sistemarla.
« Mi fermo a dormire. » rispose con la più totale naturalezza.
Jean sapeva fin troppo bene la ragione per cui Marco aveva annunciato la propria permanenza lì senza accettare obbiezioni, ma lui era troppo se stesso per evitare di pizzicarlo con qualche frase provocatoria.
« Da quando sei il mio babysitter? »
Non era il solito tono pungente e acido come quando si erano conosciuti. Sembrava più che volesse scherzare, nonostante tutto.
« Da quando il piccolo Jean potrebbe rischiare di farsi fuori tutto l’alcool che c’è in casa senza di me. Vuol dire molto dividere quella quantità per due, sai? » fece una pausa, mentre un leggero sorriso gli si dipingeva sulle labbra. « Almeno per il tuo fegato. »
« Oh, allora è solo per il mio fegato che ti preoccupi! »
Aveva capito fin troppo bene, ma forse continuando a scherzarci su avrebbe potuto evitare di imbarazzarsi e diventare dello stesso colore della maglietta che, almeno secondo lui, a Marco stava veramente bene.
Si lanciò senza complimenti sul materasso del divano, sistemando le gambe su uno dei due cuscini laterali e usando l’intero fianco sinistro dell’amico come appoggio per la propria schiena.
« Beh, comunque a me non va affatto per dormire. Quindi non lo farai nemmeno tu. »
Marco doveva ammettere che la consapevolezza di rimanere sveglio a parlare con Jean non gli dispiaceva affatto.
« Mi lascerò dare ordini da te per una volta. » scherzò, scivolando appena sul divano per essere più comodo, senza però spostarsi per non rischiare di far scivolare l’amico.
Calò il silenzio, che venne interrotto solo dalla risata divertita di Jean che, stringendo le braccia intorno allo stomaco, si stava leggermente piegando in avanti.
« Abbiamo seriamente parlato del mio fegato fino a poco fa? »
« Così pare! Forse scolandoci una birra avremmo fatto meno danni! »
La risata del biondo proseguì ancora per qualche attimo, almeno fino a quando non si rese conto di un dettaglio alquanto importante in quella situazione.
Si sollevò rapidamente e si voltò, sfiorando il braccio di Marco e appurando che non era quello dove si era allegramente spaparanzato, quello fasciato per colpa del proiettile che l’aveva colpito.
Tirò un sospiro.
« Non era questo… » disse tra sé e sé come per darsi una conferma.
Marco doveva ammettere di essere leggermente sollevato all’idea di sapere che la reazione di Jean era stata dettata da quel dubbio e gli sorrise raggiante.
« Non credi che avrei urlato se ti fossi appoggiato su quel braccio? »
A quel punto Jean fece un cenno, come a nascondere che quel pensiero nemmeno l’aveva sfiorato.
Rimase a fissare intensamente e con aria persa il braccio di Marco, poi parlò di nuovo.
« Mi… mhn dispiace per oggi, Marco. Non ti saresti dovuto prendere quel colpo. »
Era talmente instabile in quel momento che sarebbe stato in grado di chiedere scusa a tutte le persone che aveva infastidito nel corso della sua vita. La priorità, comunque, spettava a Marco: il senso di colpa che aveva provato dal primo momento in cui aveva visto il suo braccio sanguinare a causa sua era fin troppo opprimente e forse era stato anche per questo che uccidere quell’uomo si era rivelata un’opzione tanto facile da scegliere.
« Jean, non devi preoccuparti! Non mi hai costretto a farlo in fin dei conti, no? Siamo amici, avresti fatto la stessa cosa! »
Il fatto che Marco non avesse fatto risaltare le scuse di Jean per prenderlo in giro  rese alquanto sollevato il ragazzo, ma comunque in quel momento non era l’orgoglio ciò che più gli premeva conservare.
Era ovvio che anche lui avrebbe fatto una cosa del genere per Marco e in un certo senso era già successo, anche se il risultato era stato ben diverso.
« Solo… so che non vorrai parlarne, ma ti posso chiedere una cosa? » il moro sfiorò con circospezione un lembo della propria fasciatura, guardando in pensiero il pavimento, come se stesse cercando le parole giuste per parlare.
Un muto cenno di Jean che intercettò con la coda dell’occhio lo spinse a proseguire. Il ragazzo sapeva perfettamente cosa Marco avrebbe chiesto o meglio, a grandi linee poteva immaginarlo.
« Come sei riuscito a… prendere una decisione del genere, Jean? »
Calò il silenzio e subito Marco si pentì di aver posto quella domanda nonostante fosse stato Jean a dargli l’assenso.
« Forse ho sbagliato, è meglio se non-… »
« Pensi che io sia un mostro, Marco? Per quello che ho fatto. » la freddezza nelle parole di Jean sembrò tornare ad essere la stessa che l’aveva intrappolato quando aveva ucciso quell’uomo.
« Non ho mai fatto una cosa del genere, prima. Ci hanno sempre preparato all’evenienza durante gli addestramenti, questo lo sai anche tu, ma sinceramente non pensavo che sarebbe mai successo. » si passò una mano sul retro del collo, sentendo le labbra tremare appena per il nervosismo. « Però è difficile da spiegare, Marco. Quando mi sono trovato lì con la possibilità di sparare l’ho fatto. Un po’ è stato perché ho pensato che avrebbe potuto ferire qualcun altro… un po’ credo sia stato per vendetta. Sai che non ho autocontrollo, no? E’ successo tutto troppo in fretta. » chiuse gli occhi, massaggiandosi lentamente le tempie come se volesse estraniarsi da quel discorso pur essendone l’indiscusso protagonista. « C’era una luce nei suoi occhi che mi ha chiesto di farlo. Non lo sto dicendo per giustificarmi… sembrava che oltre a dire “Chi mi garantisce che mi darete le mie medicine?” stesse aggiungendo silenziosamente un “Ma se non potete farlo, forse è meglio che mi freddiate qui”. »
Se non avesse saputo di poter esternare tutto con il ragazzo seduto sul divano accanto a lui, molto probabilmente avrebbe inventato una scusa e non gli sarebbe sfuggita nemmeno una goccia di quel fiume di parole che aveva appena lasciato uscire dalle proprie labbra.
Jean era stanco, terribilmente stanco nonostante gli avvenimenti fossero appena accaduti: le profonde occhiaie erano comparse di colpo, il pallore sul viso non l’abbandonava da quel pomeriggio e lo sguardo vacuo era sparito dalla vista di Marco solamente quando l’amico si era voltato dandogli le spalle.
I segni della sofferenza di Jean non l’avevano lasciato in pace nemmeno per un momento e Marco era certo che per un po’ non avrebbe potuto sperare che accadesse.
« Se pensassi a te come un mostro non sarei seduto su questo divano ora, Jean. » continuò a guardarlo. Effettivamente dall’inizio di quel discorso non aveva mai allontanato gli occhi da Jean, non una sola volta.
Voleva che si tranquillizzasse ed era convinto che dimostrandogli ciò che aveva appena detto avrebbe ottenuto ciò che voleva, seppur lentamente.
« Alla fine poi… sei stato alle regole, no? Non c’era molto altro che potessimo fare. Certamente non avrebbe negoziato perché sapeva anche lui che l’avremmo dovuto arrestare. » aggiunse pensieroso l’ultimo pezzo per poi continuare. « Però non ho mai pensato che tu fossi un assassino né nulla del genere, per questo sono rimasto qui stasera. Stai facendo credere a tutti che vada tutto per il verso giusto, ma sono certo che tu abbia dentro tanti di quei pensieri che nemmeno vuoi confidarmi! »
La facilità con cui Marco colpiva nel segno era tanto disarmante che, se solo Jean fosse stato in piedi, quasi certamente sarebbe crollato a terra sentendosi la creatura più vulnerabile e indifesa del mondo.
Però di Marco poteva fidarsi, non c’era bisogno di sentirsi in quel modo.
« Non serve che tu mi dica se ho ragione o no, va bene? Passiamo questa serata come sempre e non pensiamoci. Non ci sarà da festeggiare, ma hai comunque salvato una vita innocente e sono orgoglioso di te per questo! »
Alzare lo sguardo sconvolto verso Marco fu l’unica cosa che Jean riuscì a fare.








Angolo ~
So di essere una persona imperdonabile, non me ne vogliate, ma sono stata bloccata dalla scuola e dall'ispirazione; ora, però, sono abbastanza carica e spero di continuare a spron battuto questa storia ;_;
Che dire, non so cosa pensare di questo capitolo-- ci sono stati molti momenti in cui proseguirlo è stato un parto, altri in cui mi sono divertita parecchio e attualmente non so decidere se mi piace o meno il risultato finale.
Anche se siamo solo al capitolo due si sta già entrando nel vivo della storia perché sinceramente odio quelle che io chiamo "parti di passaggio" e tendo a inserirle solo se necessario, assimilandole in modo ridotto a tutto il resto.
Comunque spero di essermi fatta perdonare con un tantino di fluff e creando queste atmosfere in cui Marco si diverte ad entrare in simbiosi con il divano di Jean *A*/
Spero che vogliate dirmi come sempre cosa ve ne pare, intanto io cercherò di aggiornare il prima possibile!
Alla prossima!

CHAOSevangeline
   
 
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