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Ma senza diventare mai, mai degli eroi
Coi tuoi separati a colpi di calibro trentotto
E i miei tenuti insieme dalla speranza per l’umanità
Noi sempre oltre ogni limite
Quel limite era una scommessa da non perdere mai
Invisibili – Cristiano de André
.
Genova,
1979
La
seconda metà di Agosto, prima dell'inizio della scuola, li
si
trovava lì, a Quarto dei Mille.
Non c'era un motivo particolare
o preciso per cui avessero scelto quella zona, semplicemente gli
piaceva.
Erano due anni che le ultime settimane di vacanza le
passavano tra quelle vie, su quel lungomare, da quando Gaia aveva
superato la terza media e i genitori avevano deciso che fosse
abbastanza grande per girare da sola.
Lei era l'ultima di tre
figli, nata a Ottobre del 1963. Il più grande, Antonello,
aveva otto
anni più di lei, studiava ingegneria e guadagnava qualcosa
lavorando
in un'officina vicino casa, mentre la sorella di mezzo, Patrizia, era
del '60, aveva finito quell'estate la maturità ed era ancora
indecisa su cosa fare all'università.
Gaia
frequentava lo stesso liceo classico dei fratelli e stava per
iniziare il terzo anno.
Andava a scuola con la sua migliore amica
Luisa, e in generale si trovava molto bene con la sua classe, eppure
quelle ultime settimane di libertà le passava con due
ragazzi poco
più gradi di lei e che conosceva da ben prima di iniziare le
superiori.
Simone e Giorgio, entrambi diciottenni, dovevano
cominciare la quinta scientifico ed erano amici di Gaia da una vita,
da quando erano bambini e a Giugno, appena finite le scuole, andavano
a passare il tempo a Loano, un altro paesino della Liguria.
Se
non si fossero conosciuti lì non l'avrebbero mai fatto,
più
crescevano più se ne rendevano conto.
Non sarebbe stato
importante quanti anni avrebbero potuto vivere a Genova, avevano vite
troppo diverse perché si potessero incrociare in una
città così
grande.
Giorgio era figlio unico di due operai, persone per bene
ma che convivevano con troppe difficoltà, tanto che per il
ragazzo
era stata una lotta iscriversi al liceo e un'altra lotta sarebbe
iniziata di lì a poco per poter fare l'università.
Tutto il
contrario era l'ambiente sociale da cui proveniva Simone, il cui
padre attore molto famoso a Genova e abbastanza noto anche nel resto
del paese, costretto da questa parentela a non essere mai sé
stesso
ma solo il figlio di. Si sentiva tremendamente schiacciato da quel
fatto, vittima di qualcosa che non voleva ma che non poteva cambiare.
Aveva deciso da tempo che, finito il liceo, si sarebbe iscritto a
medicina, impegnandosi al massimo per poter diventare un grande
medico. Pensava che, a quel punto, la gente lo avrebbe riconosciuto
per quello che era, per la sua professione, per il suo ruolo, non
più
semplicemente per il cognome che portava e che, da tempo ormai,
iniziava ad essere quasi pesante.
In fine c'era Gaia, che se fosse
nata in un altro posto, in un'altra epoca, sarebbe stata la
quintessenza della normalità. Ma era nata a Genova nel
periodo
sbagliato, e anche se aveva una famiglia che l'amava aveva un padre
magistrato e una paura che le corrodeva il cuore.
Suo
padre, Alfio, aveva imposto alla famiglia che non si guardasse la
televisione a cena, quando la Rai trasmetteva il telegiornale.
Non
voleva che i suo figli, soprattutto la più piccola,
sentissero ogni
sera dei morti fatti dalla follia di qualcuno.
Ma era impossibile
non accorgersene; i giornali, la gente in strada, i funerali che a
Genova erano continui.
Gaia vedeva, sentiva, sapeva.
Sapeva che
c'erano ragazzi e ragazze della sua età, che potevano essere
suoi
amici, che si alzavano un giorno e la sera stessa si mettevano a
letto senza avere più un pezzo della loro famiglia.
Sentiva Vespa
al telegiornale, quando lo guardava, dire che la gente moriva tutti i
giorni, uccisa. E leggeva rapida gli articoli di persone importanti,
come Montanelli o Scalfari, che dicevano quelle stesse cose.
Sperava, Gaia, sperava che un giorno smettessero, sperava che un
giorno tutto quello finisse.
Guardava suo padre, ogni tanto.
Lo
guardava fumare seduto al tavolo del salone mentre risistemava alcune
carte di lavoro, e in quei momenti pensava alle parole di quelli come
Vespa, Montanelli o Scalfari. Diceva a se stessa che un giorno
avrebbero davvero smesso di parlare e scrivere di morte.
Ma poi,
per un attimo, il tempo di una lacrima, si domandava se, invece, un
giorno non avrebbero fatto anche il nome di suo padre lì,
davanti a
milioni di italiani che guardavano o leggevano inermi di una follia
assurda.
Impotenti davanti al dolore, al sangue, alla morte.
Poi
correva ad abbracciarlo, inventando una scusa.
Perché sapeva gli
sforzi che faceva Alfio per tenerla lontana da quel mondo terribile,
e non voleva fargli vedere che tanto era inutile, che i brutti
pensieri li aveva comunque.
Per come era fatta lei, poi, che
preferiva tenersi dentro le cose brutte e tirare fuori solo quelle
belle, era anche difficile parlarne con gli amici.
Con la
famiglia, ovviamente, evitava di fare quei discorsi, ma una volta,
tempo prima, quando una sera suo padre non era tornato per cena e
avevano guardato la televisione, ad Antonello quei pensieri li aveva
detti.
- Ma tu quando senti queste notizie a papà non pensi
mai?-
- Sì, ma so che non succederà mai nulla. -Gli
aveva
risposto lui mentre si trovavano seduti in balcone a prendere un po'
di fresco.
- Io lo spero. Però la paura rimane.-
- La paura è
fisiologica, Gaia, e non solo in questi casi. Io preferisco non
pensarci, saprei che vivrei male con tutta questa paura addosso.
Fisiologica sì, ma non deve rovinarci la vita, la paura.-
- Io a
volte ci penso solo perché se accadesse vorrei essere
preparata.-
Antonello non aveva risposto alla sorella, l'aveva solo
abbracciata.
Se le avesse risposto la sua verità, ovvero che
tanto per quanto agli eventi peggiori ci si pensi non si arriva mai,
ma proprio mai, preparati, sarebbe stato anche peggio.
Preferiva
non dirle nulla, né cose belle né cose brutte, ma
stringersela
vicino come se fosse ancora una bambina e farle capire che lui c'era
e ci sarebbe stato.
Neanche Simone e Giorgio sapevano dei pensieri
che spesso intristivano l'anima dell'amica.
Con loro il rapporto
era molto simile a quello che aveva con il fratello maggiore, tanto
che se mai si fosse innamorata di uno dei due si sarebbe certamente
sentita sporca, impura, perché per lei sarebbe stato quasi
un amore
incestuoso.
E i ragazzi anche non riuscivano a vedere Gaia come
una possibile fidanzata, troppo attenti a tenersela stretta come una
sorella più piccola, da crescere, da proteggere.
Ma come potevano
proteggerla dai mostri che aveva dentro? Da quella paura che non
esplicitava, che nascondeva come un peccato.
In quegli anni se ne
erano accorti, Simone e Giorgio, avevano capito che qualcosa in Gaia
distruggeva la sua serenità e avevano anche intuito di cosa
si
trattasse.
Ma
lei non parlava e loro non la volevano costringere.
Anche perché,
quando erano da soli e il discorso cadeva su Gaia e le sue possibili
paure, si rendevano conto di come fossero del tutto impotenti a
riguardo.
Certo, potevano tranquillizzarla, parlarle, dirle di non
temere, ma a livello pratico non c'era nessun gesto, nessuna azione
che loro potessero fare per mandare via la paura dell'amica.
E
allora, per quanto doloroso fosse, si limitavano a guardarla mentre
fingeva di star bene e aver la mente libera da ogni pensiero
triste.
Lo facevano anche quel giorno, un bel pomeriggio di inizio
settembre.
Avevano mangiato insieme in un piccolo bar non molto
lontano dal lungomare e, mentre uscivano da lì, Gaia aveva
detto
loro che la giornata insieme sarebbe terminata presto perché
alle
tre e mezza si sarebbe dovuta trovare a piazza Crispi per incontrarsi
col padre.
- Devo andare a cercare i libri per la scuola e poi
lui deve tornare a lavoro.-
Aveva spiegato.
- Però che
palle! Tutti gli anni, a inizio settembre, è la stessa
storia; gli
unici giorni in cui possiamo stare insieme senza troppe restrizioni
tu devi sparire!-
Aveva esclamato Simone.
- E domani sarà
ancora peggio perché mio padre lo vedrò a casa,
quindi dovrò
prendere l'autobus alle tre. Ma se volete posso venire qua la mattina
verso le nove, così stiamo insieme. Se vi svegliate,
ovviamente.-
-
Gaia non vorrei apparirti scortese, ma quella incapace di alzarsi
prima delle undici e mezza qui sei te!- Le disse ridendo Giorgio.
La
ragazza gli aveva mostrato la lingua e poi era andata a sedersi su un
muretto di quelli che stavano qualche metro sopra alla spiaggia.
Gli
altri due l'avevano poi raggiunta e lei si era messa a raccontargli
di un ragazzo conosciuto al mare in Toscana, a Porto Santo Stefano.
- Cosa cosa? Gaia conosce un ragazzo e noi lo sappiamo solo due
settimane dopo il suo rientro a Genova!? - Aveva detto Simone. E
l'altro gli aveva fatto eco a modo suo. - Marchi male, signorina.
Malissimo.-
Gaia aveva sbuffato e poi aveva replicato. - Guardate
che ci sono due uomini nella mia vita che devono sapere dei miei
amori, è vero, ma mica siete voi!-
- Fammi indovinare...- Era
stato il commento di Giorgio. - Saranno mica tuo padre e tuo
fratello?-
Avevano riso tutti e tre, poi lei aveva raccontato per
bene ai due di quello che era successo al mare.
- In realtà non è
accaduto niente di che, neanche un bacio. Ma stavo bene insieme a
lui. È Pisano, si chiama Andrea. Da quando sono tornata mi
ha anche
telefonato un paio di volte. Insomma, non mi ha dimenticata.-
Simone
e Giorgio avevano chiesto i dettagli di quell'amicizia, se si poteva
chiamare così, e soprattutto avevano fatto all'amica un
interrogatorio vero e proprio sul ragazzo.
Alla fine, mentre
andavano verso la piazza perché, loro malgrado, si erano
accorti che
il tempo da passare insieme stava per loro finendo, avevano detto che
sì, forse, poteva essere un buon partito per la ragazza. -
Ma prima
dobbiamo conoscerlo per bene!- Aveva detto fingendosi serio Giorgio
mentre lei entrava nella macchina del padre.
I due ragazzi avevano
salutato con un cenno del capo il magistrato e poi lui aveva messo in
moto.
- Chi è che devono conoscere per bene Simone e Giorgio?-
Aveva chiesto alla figlia mentre guidava verso il centro.
- Oh,
parlavamo di Andrea. Il ragazzo di Pisa, papà, ti ricordi?-
-
Certamente. Fammi capire, sei arrivata a quell'età in cui
gli amici
maschi più che amici sono padri?- Aveva riso Alfio.
- Fratelli,
papà, fratelli. Di padre ne ho solo uno e mi basta.- Aveva
risposto
lei baciandolo sulla guancia.
L'officina in cui
lavorava Antonello era di strada al padre dalla procura a casa,
così
quando Alfio usciva dal lavoro andava a prendere il figlio e assieme
ritornavano dalle tre donne della loro vita.
Quella sera di
settembre era andata proprio come tutte le sere, i due uomini erano
rincasati insieme e avevano trovato Beatrice, la madre, in cucina
assieme alle due figlie.
- Ma ancora non si apparecchia qui?-
Aveva detto fingendo una voce burbera.
Gaia e Patrizia avevano
riso, perché malgrado tutti gli sforzi che faceva per
sembrare un
uomo severo Alfio era totalmente incapace di arrabbiarsi con i suoi
cari.
- Abbiamo apparecchiato in balcone, papà. È una
così
bella serata.- Aveva detto la secondogenita mentre il resto della
famiglia si avviava già verso la tavola.
Dal balcone di casa
loro, bello spazioso, si vedeva bene tutta Genova e in particolare il
mare.
Era iniziato settembre, era vero, ma ancora quella sera
riuscirono a godersi il tramonto sul porto e sulle spiagge della
città ligure.
- Sai che tua sorella minore ha due nuovi fratelli
maggiori?- Aveva detto mentre mangiavano Alfio al figlio più
grande.
- Fammi indovinare... Si chiamano Simone e Giorgio! Ci ho
preso, vero?-
Gaia aveva fatto una smorfia al padre e poi, prima
che lo facesse lui, aveva raccontato quello che era successo nel
pomeriggio.
Poi aveva detto che il giorno seguente si sarebbe
alzata presto per andare dagli amici a Quarto e il padre le aveva
proposto di accompagnarla.
- Tanto non ho molto da fare in
procura domani, per una volta posso anche permettermi di entrare dopo
e uscire prima.-
La ragazza lo aveva ringraziato e baciato
alzandosi da tavola.
- Scappo che chiamo i ragazzi e poi Luisa!-
- Da quanto non la senti? - Aveva riso la sorella maggiore. - Due
ore?-
- Oh ma stasera ce l'avete tutti con me?- Aveva chiesto Gaia
alludendo alle scherzose prese in giro che durante la cena le aveva
fatto la famiglia.
Poi,
mentre gli altri ancora ridevano e mangiavano, era corsa al telefono
e lo aveva occupato praticamente fino all'ora di dormire.
Prima di
coricarsi aveva salutato per bene la madre e la sorella, dando solo
una lieve buonanotte ai due uomini di casa perché sapeva che
li
avrebbe rivisti la mattina dopo appena sveglia.
E infatti, poco
prima delle otto, Antonello l'aveva svegliata scuotendola dolcemente
come solo un fratello maggiore sa fare, mentre Alfio in cucina
già
preparava la colazione.
Il
ragazzo uscì di casa prima degli altri, doveva andare in
facoltà
prima che in officina e non aveva molto tempo da perdere.
Il padre
e la figlia più piccola, invece, riuscirono a salutare
Beatrice ma,
ovviamente, non Patrizia, che in quanto a dormite estive batteva con
molta abilità la sorella.
A piazza Crispi Simone e Giorgio
salutarono cortesemente l'uomo che alle loro parole adulte sorrise
ripensando a quando erano bambini e lo chiamavano zio nelle lunghe
giornate al mare.
- Trattatemela bene, è l'unica che ho ancora
piccola.- Aveva detto prima di andarsene riferendosi a Gaia.
I tre
erano andati a fare colazione e poi in spiaggia.
Si stava bene a
Genova quel giorno di inizio settembre.
Venerdì 7
settembre.
07/09/79 aveva riso la ragazza dicendo agli altri che
giorno fosse.
Avevano fatto il bagno e preso il sole, parlando
della scuola che stava per iniziare, del compleanno di Gaia a cui
mancava poco più di un mese, del futuro fuori dal liceo che
attendeva i due ragazzi a meno di un anno da lì.
Poi le era stato
ancora domandato di Andrea e lei aveva risposto a tono chiedendo
perché mai loro due non si fidanzassero né
parlassero di ragazze.
-
Che domande! È perché ci amiamo tra di noi.-
Aveva detto Giorgio
abbracciando l'amico.
Era una bella giornata, a Genova, quel 7
settembre 1979.
- Le vacanze estive durano sempre troppo poco. Mi
sembra ieri il primo bagno in mare a giugno!- Aveva sospirato Gaia
mentre giocavano a carte sotto il caldo sole delle undici e mezza.
-
Si vede proprio che sei ancora piccola, Gaietta. A
me pare
ieri che giocavamo tutti insieme in spiaggia a Loano, ai bei tempi
della scuola elementare. Possibile che siano già passati
dieci
anni?!- Aveva retoricamente domandato Giorgio.
- Non chiamarmi
Gaietta! Lo sai che mi dà fastidio! E poi non sono piccola,
sono
solo meno nostalgica di voi. -
- Già, in questo non hai di
sicuro preso da tuo padre però.- Aveva fatto notare Simone
mentre
rimescolava il mazzo. - Oggi, quando ti ha accompagnata, ci ha
guardati in un modo strano. O era terribilmente stanco o era
terribilmente stupito nel vederci così grandi.-
- Credo la
seconda. In fondo per papà siete sempre stati se non dei
figli dei
nipoti. Anzi, non so se vi ricordate ma qualche anno fa lo chiamavate
zio.-
- Come no!- Era stata la risposta di Giorgio. - Ma poi sono
cresciuto e ho iniziato a vergognarmene, non so il motivo.-
La
ragazza non aveva più parlato.
Era arrivata sopra alla spiaggia
una nuvola molto scura e per un attimo aveva fatto fresco.
Gaia
aveva approfittato di quel momento per lasciar perdere la partita a
carte e sdraiarsi sull'asciugamano in attesa che il sole tornasse.
Si
era messa a pensare a quelle estati a Loano e alla loro amicizia
particolare, quella di tre persone così diverse.
Era vero che i
due ragazzi, malgrado la provenienza sociale e familiare totalmente
differente, frequentavano il liceo insieme, ma lo avevano deciso
dopo, quando ormai erano amici da tanto.
- Ragazzi mi svegliate
all'ora di pranzo? Ho sonno!- Aveva detto poi girandosi a pancia
sotto e facendo il possibile per addormentarsi.
Loro avevano
riso. Lo sapevano benissimo che alzarsi la mattina presto nel periodo
di vacanza era per lei impossibile, e così già
dalla sera prima
avevano immaginato che la mattinata al mare si sarebbe conclusa in
quel modo.
La nuvola scura se n'era andata in fretta, lasciando
tanto sulla pelle dell'addormentata quanto su quella dei due svegli
un brivido che era subito dopo divenuto caldo.
Verso il
mezzogiorno, piano piano, la spiaggia si era svuotata e le urla dei
bambini, assieme ai loro giochi e ai loro schiamazzi, avevano
lasciato spazio al rumore delle onde, dei gabbiani e di qualche
macchina che passava sulla strada sopra il lungo mare.
Alla fine
Gaia si era addormenta davvero e, quando i due l'aveva accertato, si
erano messi di nuovo a parlare di Andrea, forse perché la
notizia
dell'innamoramento, o presunto tale, dell'amica era per loro
così
inaspettata che dovevano ragionarci sopra a lungo.
- Non che io
abbia nulla in contrario, anzi, ma fa veramente strano vederla
invaghita di qualcuno.-
- Sì, Simo, e menomale che non si tratta
di uno di noi due perché in quel caso sarebbe stato un guaio
veramente grosso.- Aveva scherzato Giorgio. Ma dopo poco era tornato
a farsi serio, ammirando l'amica riposare. - Dopo tutto è
così
bella, prima o poi sapevamo che sarebbe accaduto. O magari è
successo anche altre volte e non ci ha mai detto nulla, le ragazze a
volte sono così. Di sicuro lo sa Luisa.- Aveva detto
riferendosi
alla migliore amica di Gaia. - Ma penso che riguardo agli amori della
nostra comune amica sia più muta di una tomba.-
Simone aveva
annuito e aveva guardato il mare con lo sguardo di chi cerca
qualcosa, lì fuori. - Sì. Anche Marta, ti
ricordi? La ragazza con
cui sono stato all'inizio delle superiori. Anche lei ce ne mise di
tempo prima di confessarmi che fosse innamorata.-
- Vabbeh ma è
diverso! Pure io, malgrado sia maschio, in certi casi non confesserei
mai un amore alla diretta interessata. No, no, io ti parlo di
un'amica. Una ragazza può essere amica di un ragazzo ma non
avrà
mai lo stesso rapporto che ha con altre femmine.- Giorgio
cercò di
spiegarsi meglio e l'amico capì cosa intendesse.
- Comunque se ci
pensi Gaia è davvero tornata a Genova da pochissimo, quindi
non vedo
motivo di credere che non volesse dirci qualcosa, ha solo aspettato
il momento giusto. Probabilmente il problema è davvero
nostro, nella
nostra idea che lei sia ancora piccola quando invece tra poco
compirà
sedici anni. Siamo proprio come suo padre, Simo!- Aveva riso il
ragazzo prima di sdraiarsi anche lui a prendere il sole.
Avevano
svegliato poi l'amica appena prima dell'una ed erano andati a
mangiare qualcosa al bar della spiaggia, dove si stava freschi e il
gestore, loro amico, gli permetteva di passare le ore più
calde
sotto la veranda anche se il pranzo era finito da un pezzo.
Avevano
giocato a carte fino alle due e mezza passate, con Gaia che faceva il
possibile per stare verso il sole e asciugarsi completamente prima di
andare a prendere l'autobus per casa.
E fortunatamente ci era
riuscita, eccezione fatta per i lunghi e folti capelli.
I capelli
di Gaia erano neri, scurissimi, tipicamente mediterranei.
Sua
madre era nata in Sicilia e a Genova c'era arrivata per motivi che
neanche più ricordava appena dopo la fine della guerra,
senza la
certezza né il desiderio di restarci per sempre.
Ma poi, per
caso, un giorno aveva incontrato un giovanotto che studiava per
diventare magistrato e ne era rimasta affascinata, tanto da
dimenticarsi anche i limoni e le arance di Sicilia che tutti i giorni
le mancavano.
Si erano sposati ed era arrivato Antonello, il
primo figlio, poi le due bambine e alla fine la sua patria non era
rimasto che un posto dove andare in vacanza per rifugiarsi nei
ricordi.
Non sarebbe mai riuscita a vivere nuovamente in un paese
piccolo come quello in cui era cresciuta, ma alla fine le andava bene
così. Si era innamorata di Genova, di Alfio, dei suoi figli.
Stava
bene lì.
Solo i capelli nerissimi di Gaia, quei capelli che in
quel pomeriggio di settembre tardavano ad asciugarsi, ogni tanto le
mettevano un po' di nostalgia, forse perché la ragazza
più piccola
era l'unica ad avere quei marcati lineamenti del sud che spesso a
Beatrice mancava vedere per strada nei volti di tutti.
- Il
prossimo anno potresti farti un taglio tattico corto come il nostro
prima dell'estate, così non avrai problemi per far asciugare
i
capelli al mare.- L'aveva presa in giro Simone mentre
l'accompagnavano a Piazza Crispi.
- Sai tornare a casa da sola,
vero? O hai bisogno che ti conti le fermate?- Era stato il sarcastico
commento dell'altro amico.
La ragazza aveva sbuffato e aveva preso
il libro che teneva nella borsa del mare per iniziare a leggere e far
capire agli altri che le loro simpaticissime battute non la toccavano
minimamente.
Si salutarono rapidi quando arrivò l'autobus, e lei
li vide avviarsi di nuovo verso il mare come molto le sarebbe
piaciuto fare ancora.
Ma pazienza, si trattava solo di un
pomeriggio, anche se uno degli ultimi di vacanza.
Scese alla
fermata giusta senza bisogno di contarle e si avviò calma
verso casa
sua, con il libro sotto il braccio perché l'aveva letto
durante
l'intero viaggio.
Aprì con uno scatto rapido la serratura
dell'appartamento e fece la cosa più naturale del mondo.
- Papà?-
Iniziò a chiamare.
- Papà sei già arrivato? Mamma? Patrizia?
C'è qualcuno in casa?-
Niente, la casa era immersa nel più
assoluto silenzio.
Si stupì di quella situazione alquanto
irreale e cominciò a temere.
Provò a distrarsi andando a
stendere l'asciugamano e le altre cose utilizzate quel giorno al mare
ma non appena entrata in bagno il silenzio fu interrotto da uno
squillo del telefono.
Corse a rispondere subito e con sua grande
sorpresa non trovò nessuno dall'altra parte del filo.
Lasciò
perdere e tornò al suo lavoro quando ecco che un alto
squillo la
disturbò.
E di nuovo nessuno rispose.
La paura tornò a farsi
forte.
Pochi attimi dopo la fine della seconda telefonata sentì
la porta aprirsi di scatto.
Sperò con tutto il suo cuore di
figlia che fosse il padre che stava rientrando come avevano
programmato, ma davanti a lei si parò il fratello maggiore
con una
faccia che non prometteva buone notizie.
- Gaia...! sei qui per
fortuna. Vieni, dobbiamo andare. Non... non fare domande...-
La
ragazza non capì assolutamente nulla di ciò che
stava accadendo ma
fece ciò che le disse Antonello e uscì di casa,
seguendolo in
macchina e non chiedendogli nulla, forse anche troppo spaventata per
parlare.
Il viaggio in automobile fu assurdo, silenzioso come la
casa che avevano appena lasciato, strano, pesante.
Il fratello
guidò come un matto, in un modo totalmente imprudente,
facendo una
strada che lei non comprese fino a che non riconobbe davanti a lei
l'ospedale San Martino.
Scesero dal veicolo e lui la fermò
guardandola negli occhi facendole capire che il momento della
verità
era arrivato.
- Gaia ascoltami... cerca di ascoltarmi bene perché
non è per niente facile...-
- Cosa succede Anto? Perché siamo
qui? Perché papà non mi è venuto a
prendere a casa?-
- Papà...
Gaia oggi quando papà è uscito dalla procura
è successo un fatto
che...- Si fermò, incapace di continuare.
Ma lei aveva capito
subito, appena Antonello aveva fatto riferimento alla procura.
Perché
sapeva cosa succedeva, Gaia, anche se a casa non si vedeva il
telegiornale.
- Hanno sparato a papà, è vero?-
Aveva parlato
in lacrime e poi aveva abbracciato suo fratello, sapendo benissimo di
aver detto le uniche parole che a lui, tanto grande e forte, non
sarebbero mai uscite.
Lo prese per mano e si fece condurre da lui
lungo i corridoi dell'ospedale.
Le aveva detto che lo stavano
operando e mentre seguiva il fratello Gaia provò a fare il
possibile
per imparare a memoria la strada, cercando di convincersi che le
sarebbe servita per andare a trovare il padre quando, una volta
salvato durante l'intervento, sarebbe rimasto qualche giorno in
ospedale.
Ma quel pensiero era per lei troppo felice, in quel
momento, e le facce spaventate e tristi della madre e della sorella
davanti alla sala operatoria le fecero capire che di felice quel
giorno c'era ben poco.
Cercò rifugio tra le braccia di Beatrice,
senza dire una parola, senza cercare di dare o ricevere conforto.
Aspettarono a lungo.
Poi un medico uscì con un volto funebre
e ogni pensiero positivo finì in quel momento.
Lo straziante urlo
della madre e della figlia più grande spiegarono anche a chi
non
sapeva nulla cosa fosse appena accaduto, mentre Antonello tentava di
rimanere lucido e fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Gaia, invece, era
rimasta in piedi davanti alla seggiola su cui era stata seduta fino
all'uscita del chirurgo.
In piedi, ferma, immobile, con gli occhi
bagnati ma incapaci di piangere.
Senza
emozioni, senza voce per urlare o disperarsi.
Ferma come il cuore
di suo padre, come la vita che aveva vissuto fino a quel
giorno.
Ferma alle quattro di un pomeriggio di settembre, il
O7/O9/79, una data che faceva sorridere, fino a quella mattina.
Una
bella mattina di sole, a Genova.
Simone
e Giorgio avevano lasciato la spiaggia alle quattro e mezza, ignari
di quanto fosse accaduto nel frattempo.
Avevano deciso di andare a
casa del secondo e poi decidere se fare qualcosa in serata o stare
calmi senza uscire.
Anche loro, come Gaia, per tornare a casa
avevano preso un autobus a piazza Crispi e fatto un pezzo a piedi,
una salita di quelle di cui Genova era piena.
Appena prima di
arrivare a casa di Giorgio, mentre ancora ridevano e scherzavano per
i fatti loro senza poter neanche immaginare cosa fosse accaduto,
riconobbero davanti al portone della casa due figure di donna che,
avvicinandosi, riuscirono a distinguere per bene. Erano le loro
madri.
Non si capacitarono di quella visione, perché la madre di
Simone di solito a quell'ora era a casa e quella di Giorgio doveva
essere a lavoro.
Senza
neanche parlarsi iniziarono a correre verso di loro, come se entrambi
avessero compreso che se erano lì doveva essere accaduto
qualcosa di
serio.
- Mamma, signora... cosa ci fate qui?- Chiese Giorgio
appena fu davanti alle donne.
- Finalmente siete arrivati! Venite,
presto, saliamo!- Aveva risposto solamente la padrona di casa,
aumentando l'ansia di chi le si trovava intorno.
Appena saliti
chiese al figlio di fare una caraffa d'acqua e si misero tutti in
cucina a sedere in silenzio al tavolo dove Giorgio e la sua famiglia
erano soliti pranzare e cenare.
- Mamma volete dirci cosa c'è? È
successo qualcosa a papà?-
- Non al tuo, Giorgio.-
Un brivido
scosse la schiena di Simone, che con gli occhi tristi si rivolese
alla madre. - Al mio? È successo qualcosa a mio padre?- Ma
anche lei
fece con la test segno di no.
I due ragazzi non capirono, si
guardarono stupiti cercando di comprendere al padre di chi
potesse
essere accaduto qualcosa di tanto grave da dover essere avvisati da
entrambe le donne nell'aria così triste che aleggiava in
quella
cucina scaldata dal sole che, incurante di qualsiasi avvenimento,
continuava a entrare dalla porta-finestra aperta che dava sul
balcone.
Non riuscivano a visualizzare nessuno, in quel momento.
Compagni di classe, amici comuni, non c'era nessuno che gli veniva in
mente.
Poi, insieme, inaspettatamente, ebbero un'idea e i loro
occhi la comunicarono ben prima delle loro voci.
- Si tratta del
papà di Gaia? È successo qualcosa ad Alfio? Hanno
avuto un
incidente in macchina? Dovevano vedersi a casa e poi...- Giorgio
finì
di parlare e iniziò ad ansimare come se fosse appena stato
troppo in
apnea.
La madre di Simone scoppiò in lacrime e il figlio
andò
da lei, mentre l'altra, che era un'operaia e oltre che le ossa si era
fatto forte anche l'animo, deglutì e raccontò. -
Gaia e suo padre
non si sono mai visti a casa, figlio mio. Hanno sparato al signor
Alfio questo pomeriggio appena è uscito dalla procura.-
I
singhiozzi della madre di Simone si fecero più forti, e un
urlò
uscì dalle bocche dei ragazzi che provarono ad articolare
quello che
pareva un no.
Simone fu il primo a calmarsi, chiedendo senza
ottenere risposta come stesse l'uomo.
Ancora increduli tutti
quanti tentarono di calmarsi in qualche modo, di trovare le risposte
a tutte le domande che gli venivano in testa in quei momenti.
Giorgio aveva guardato di nuovo la madre. - Ma si sa chi è
stato?-
– Quelli che sparano in strada, Giò. Quelli che
sparano
in strada.-
La risposta era chiara, si parlava di terroristi,
forse gli unici che potevano desiderare morta una persona come Alfio
Olivietti, pubblico ministero di Genova e padre amorevole di tre
figli ormai grandi ma che ancora avevano bisogno di lui.
Silenzio.
Solo silenzio.
L'unico rumore che si sentì per parecchio tempo
fu lo scrosciare dell'acqua dal rubinetto perché dovettero
riempire
la caraffa più di una volta, assetati per via del caldo e
dell'agitazione.
Il pensiero dei due ragazzi era fisso
sull'amica, sul suo volto sorridente mentre li salutava dall'autobus,
sullo sguardo pieno d'amore che aveva avuto quella mattinata mentre
parlava di suo padre, sul bacio rapido che aveva lasciato sulla
guancia dell'uomo quando si erano salutati forse per l'ultima volta.
Simone provò qualcosa di strano nel pensare che,
probabilmente,
loro e Gaia erano state le ultime persone care al magistrato che lui
aveva visto.
Il padre di Giorgio rientrò in casa ben prima del
solito, non erano ancora le sei.
In mano teneva il suo cappello e
i suoi occhi erano piccoli, rossastri.
- Il procuratore Olivietti
non è sopravvissuto.- Disse semplicemente.
E aveva scelto di
proposito quella dicitura così formale, quasi da quotidiano,
per
tentare il possibile di staccarsi dall'idea che fosse morto un uomo
con cui aveva condiviso giornate in spiaggia, che aveva pagato il
gelato a suo figlio, che l'aveva aiutato nei momenti in cui si erano
trovati in difficoltà economiche e non sole.
Il silenzio fu
rotto dal pianto, in quella cucina di Genova, lo stesso che si stava
consumando a casa di Gaia, quel giorno in cui alle sette e mezza non
sarebbe rientrato nessuno.
Perché, proprio come da Giorgio, quel
giorno di lavoro, quel venerdì di inizio settembre, erano
già tutti
a casa molto prima del solito.
Anche se le sedie occupate nella
cucina degli Olivietti erano ormai solo quattro.
Al
funerale non aveva parlato solo la famiglia, in un giorno ancora
caldo nella piazza centrale del loro quartiere.
Dovevano iniziare
le scuole, quella mattina, ma il sindaco aveva rimandato l'apertura e
proclamato il lutto cittadino.
La vedova era stata accompagnata
per braccio dai due figli più grandi, quelli che per primi
avevano
fatto un discorso davanti a tutti per ricordare il padre, senza fare
accenno neanche una volta a chi aveva compiuto quel gesto terribile.
Ne avevano parlato altri, di quell'ennesimo omicidio, e non solo
durante la cerimonia di addio ad Alfio Olivietti, ma non era
importante.
Non lo era e non lo sarebbe stato neanche se un giorno
si fossero trovati gli assassini, perché tanto neanche
quello
avrebbe ridato l'uomo alla famiglia.
Così pensava Gaia, che da
tre giorni prima non aveva più detto nulla.
Né
alla famiglia, né con gli amici, Gaia non aveva proferito
parola
neanche una volta.
Si era rintanata in camera sua e aveva pianto,
tanto, ma in silenzio, di notte, impedendo a tutti di vederla in
lacrime.
E non piangeva neanche mentre il prete pronunciava le
parole che la Chiesa Cattolica aveva deciso, chissà quanti
secoli
prima, fossero quelle giuste per accompagnare qualcuno nel suo ultimo
viaggio.
La sua vita si era come fermata nel terribile momento in
cui in ospedale aveva capito il padre fosse morto.
Tra le urla di
sua madre e sua sorella lei era rimasta muta, immobile, come
impassibile.
Forse – pensavano alcuni – si era trattato di una
forma di shock, ma lei che lo viveva in prima persona sapeva che era
altro.
Giorgio, Simone, Luisa e tutti i suoi amici erano passati
da lei, l'avevano abbracciata, le avevano detto parole di conforto e
di circostanza a cui però non era riuscita a rispondere.
Non
comprendeva neanche se a non uscirle fossero le parole o proprio la
vita, ma fatto stava che da tre giorni non si sentiva in casa la sua
voce.
Di Patrizia, invece, si era sentita ogni emozione; dolore,
rabbia, incapacità di rassegnazione.
Piangeva,
urlava, si disperava.
Cercava di stare fuori di casa il più
possibile per provare a distrarre i pensieri, andava sul lungomare e
scavava nella sua memoria alla ricerca di qualcosa di bello, ma in
quei momenti non riusciva neanche a ricordare la voce di suo
padre.
Si era pentita terribilmente di non essersi svegliata prima
quel giorno, di non averlo salutato. Si domandava se almeno la loro
buonanotte la sera prima fosse stata degna di un addio, ma neanche
quello le veniva in mente con certezza.
Erano passati lenti, quei
tre giorni, lenti come mai era accaduto nella loro vita.
Antonello era stato il primo a provar a continuare la sua vita, ad alzarsi il sabato mattina con la consapevolezza di essere diventato orfano ma anche con la voglia di non deludere quel padre che per ventiquattro anni gli aveva insegnato l'importanza di vivere ogni attimo.
Sarebbe
tornato a lavorare il giorno dopo, facendosi cambiare gli orari e
provando a rincasare prima per non illudere nessuno nel far girare la
chiave nella toppa alle sette e mezza, ma sarebbe tornato subito a
lavorare.
Perché era diventato l'uomo di casa, lui, e doveva
proteggere le tre donne, tutto ciò che di quella famiglia
felice era
rimasto, da ogni male.
Non poteva però difenderle da loro stesse,
dalle lacrime e dal dolore che provavano, ma di certo difenderle
dalla fame, dalla sensazione di non poter più avere una vita
normale
era un primo passo.
Dopo la cerimonia, vissuta in maniera così
pubblica, la famiglia sola, come da sua richiesta,
accompagnò il
feretro dell'uomo verso la sepoltura nello stesso cimitero in cui
già
riposavano i suoi genitori.
Fu davanti alla lapide che Gaia
pianse per la prima volta senza essere sola. Davanti al nome di suo
padre, a quel cognome che era e sarebbe rimasto per tutta la vita il
suo, davanti alla data di nascita, quella di quei compleanni che non
avrebbero mai più festeggiato, e alla data di morte, quel
giorno che
avrebbe odiato per tutta la sua vita.
Beatrice non ci pensò due
volte e abbracciò sua figlia, tenendosi il suo volto stretto
al
petto come quando era una neonata e stava tutta tra le sue
braccia.
Istintivamente, in quel momento, Antonello sentì il
bisogno di fare come sua madre e strinse a sé Patrizia, come
se
dovesse per forza proteggere qualcuno pur di mostrarsi forte.
La
figlia più piccola si staccò dalla donna dopo un
numero di minuti
imprecisati, e continuando a non dire nulla appoggiò una
mano sulla
piccola foto che ritraeva suo padre.
L'accarezzò dolcemente,
ripercorrendo col dito i lineamenti che conosceva a memoria, notando
solo in quell'attimo come davvero loro tre figli avessero preso dal
suo volto qualcosa; Antonello gli occhi, Patrizia la fronte alta che
si divertiva sempre a definire simbolo di intelligenza e lei le
labbra piccole e tutt'altro che carnose.
Fu proprio nello sfiorare
la piccola bocca del padre, quella da cui aveva tante volte ascoltato
parole gentili e d'amore, che parlò per la prima volta,
muovendo la
sua nello stesso modo dell'uomo.
- Papà...- Sussurrò leggera.
Chissà quando di nuovo avrebbe avuto la forza di dire quella
parola.
-
Domani torno a scuola. - Aveva detto la ragazzina a cena due sere
dopo il funerale.
- Sei sicura? Forse è presto...- Le aveva
risposto la madre, convinta che Gaia avesse ancora bisogno di
riprendersi.
- A parte che se mi vedesse lui mi ucciderebbe penso
di aver bisogno di tornare ad una vita normale, stare a casa
è anche
peggio.-
Lo chiama Lui.
Da quando accarezzando la sua lapide
l'aveva chiamato l'ultima volta papà non era stata
più in grado di
ripetere quelle quattro lettere.
Era capace di dire “mio padre”,
ma la parola papà era divenuta un tabù, un
simbolo di qualcosa che
non sarebbe tornato mai, come la felicità.
Ma forse riprendere
una vita normale era d'obbligo, in quel momento.
Come Antonello
che aveva ripreso a lavorare già il giorno prima, cercando
di
impiegare tutti i suoi pensieri e tutti i suoi sentimenti in quello
che doveva fare, decidendo che starsene fermo con le mani in mano non
aveva senso.
Beatrice aveva ripulito due volte la casa, da quando
era rimasta vedova, tentando di dimenticare che in ogni angolo
dell'appartamento viveva un ricordo di Alfio che non avrebbe mai
più
vissuto.
Si impegnava al meglio per non apparecchiare per cinque,
per imparare che erano quattro e quattro sarebbero rimasti per
sempre.
In quegli anni aveva fatto la casalinga, la madre e la
moglie, ma quando i bambini erano diventati ragazzi aveva cominciato
a dare una mano alle persone del suo quartiere, senza mai chiedere
nulla in cambio.
Eppure spesso, nella buca delle lettere,
trovavano buste indirizzate a lei senza indirizzo né
francobollo,
firmate con nomi o iniziali e contenenti poche lire a ringraziamento
di questo o quel servizio.
Fino a una settimana prima quei soldi
erano un pensiero gentile ma non troppo necessario, perché
con lo
stipendio del marito andavano avanti bene.
In quel momento,
invece, Beatrice realizzò che avrebbe avuto bisogno di uno
stipendio
fisso per andare avanti, per far studiare i suoi figli, per donare
loro una vita normale.
L'avrebbe fatto, appena possibile, appena
il suo pensiero principale non fosse stato il loro animo avrebbe
fatto qualcosa per tutto il resto.
Patrizia era l'unica a non
parlare del futuro, in quella casa.
Aveva pianto a lungo e ancora
lo faceva, non riusciva a capacitarsi dell'accaduto e non voleva
riprendere una vita che, a suo dire, non sarebbe mai più
stata
normale.
Quando sua sorella aveva annunciato il ritorno a scuola
era rimasta basita, perché non si aspettava che Gaia, la
figlia più
piccola, l'amore del padre, trovasse subito quella forza.
Ma
forse la piccola era così obbligata a essere forte, in quei
giorni,
da quel momento in poi, che dentro di sé quella forza aveva
dovuto
trovarla o almeno inventarla.
Ne avevano parlato quella sera,
prima di dormire, e Patrizia aveva dichiarato apertamente che sperava
gli assassini di suo padre facessero la stessa fine, che prima o poi
qualcuno li ammazzasse come fossero animali, perché per
quelle
maledette belve, pazzi furiosi convinti che un magistrato potesse
essere colpevole di chissà cosa, non si meritavano neanche
la
galera, istituzione troppo umana per certa gente che umana non era.
Gaia aveva sussurrato un sì e poi le aveva dato la
buonanotte.
Anche lei non capiva sua sorella, non capiva come
fosse capace di odiare.
L'odio era un sentimento, c'era bisogno di
pensiero per produrlo, e lei non era capace, in quel giorni, di
pensare.
Le aveva telefonato più volte Andrea, in quei giorni
assurdi, e pur parlando
Sentiva un vuoto dentro, sentiva un
dolore, ma se in quel momento le avessero messo davanti l'uomo, o gli
uomini, che un giorno avevano deciso di distruggere la vita della sua
famiglia, forse senza neanche poterlo immaginare, era sicura che
sarebbe rimasta ferma immobile davanti a loro. In fondo ucciderli
sarebbe stato abbassarsi ai loro livelli, e poi spesso, parlando col
padre, aveva sentito da lui dire che fulcro della democrazia moderna
era aver superato la pena di morte, aver capito che non è
legittimando lo stato ad uccidere che si risolvevano i problemi
legati alla criminalità.
E anche quando in quegli anni, ogni
tanto, Gaia riusciva a strappare ad Alfio qualche commento sul
terrorismo che riempiva le strade e i cimiteri del paese si sentiva
ripete che bisognava agire su due fronti, punendo i criminali e
impedendo che i giovani, perché quello pareva un fatto tutto
giovanile, pensassero che sparare, uccidere, rapire, ferire fosse il
modo giusto per cambiare le cose. - Ma non lo si deve fare
condannando a morte. - Diceva sempre il pubblico ministero Olivietti
a sua figlia e ai suoi colleghi. - Lo Stato ha tante leggi giuste e
umane per fermare questo fenomeno, e quelle ci devono bastare.-
Probabilmente questi pensieri non erano mai arrivati alle
orecchie di chi vicino alla procura di Genova, a metà
giornata di
quel venerdì d'inizio settembre, aveva svuotato una P38
addosso al
padre di Gaia, rivendicando poi con un foglio di carta arrivato al
quotidiano della città Ligure l'omicidio, parlando in modo
assurdo
di rivoluzione, comunismo, nemici del popolo.
Non era un gruppo
armato molto conosciuto, quello che aveva privato la famiglia
Olivietti del suo capo, tanto che la figlia più piccola si
ricordava
come si chiamassero solo quando leggeva i giornali, e, anche se
provava a metterselo in testa perché comunque forse, un
giorno,
quando tutto quello sarebbe finito, avrebbe potuto dare un nome a
quelle persone, non riusciva proprio a tenerselo a mente, conscia del
fatto che la sigla non cambiava nulla, non era quello a modificare i
fatti.
A
scuola, in quel liceo classico che aveva visto studiare tutti e tre i
fratelli Olivietti, le reazioni che Gaia si trovò a
fronteggiare
furono due opposte.
La prima era quella che si aspettava, la
vicinanza dei compagni e degli amici, le condoglianze, le parole di
conforto, gli sguardi affettuosi dei professori che la conoscevano
dal ginnasio e la timidezza di quelli nuovi, che quando scorrendo il
registro arrivavano al suo nome si fermavano un attimo prima di
pronunciarlo, come spaventati dall'idea di farle del male.
Ma la
reazione più fastidiosa, se così si poteva
definire, era quella di
chi nei corridoi la indicava e additava facendo riferimento
all'accaduto, conoscendola come la figlia dell'uomo morto pochi
giorni prima per mano di terroristi.
Lei soffriva quando lo
notava, ma capiva bene come per molti ragazzi della sua scuola fosse
quasi assurdo pensare che un evento tanto drammatico fosse capitato
lì, così vicino a loro.
Perché
per quante volte già Genova e i suoi abitanti fossero stati
feriti
da fatti del genere trovarsi a guardare in faccia tutti i giorni una
ragazza che di punto in bianco era diventata orfana per quel motivo
era strano, incomprensibile.
Gaia provava a non pensarci, però,
ad andare avanti sicura di sé, a non avere più
paura, a
concentrarsi sulla scuola, uno dei campi in cui più aveva
soddisfatto suo padre in tutti quegli anni.
Un giorno di metà
settembre, un paio di settimane dopo l'omicidio, Antonello aveva
sorpreso sua sorella a fissare la porta di vetro che dava sul balcone
dove avevano cenato insieme l'ultima sera.
Era un pomeriggio di
pioggia, aveva finito presto i pochi compiti e aveva deciso di
smettere di distrarsi almeno per un attimo, di piangere e fare i
pensieri tristi che le riempivano la testa e il cuore. Aveva deciso
di sfogarsi, di fermarsi e mettere tutto in pausa.
Quando aveva
finito un intero rotolo di carta scottex, usato per asciugarsi le
lacrime e nascondere i singhiozzi, aveva deciso di calmarsi, di
riprendere di nuovo la sua vita.
Aveva messo via l'album
fotografico che aveva sfogliato fino a quel momento, mentre piangeva
e ricordava ogni istante passato con suo padre. Per la prima volta,
quel pomeriggio, era riuscita anche a ricordarsi degli ultimi giorni
di vita di Alfio, della loro colazione insieme, del viaggio fino a
Piazza Crispi e di quel loro ultimo saluto, di lui che guardava
Giorgio e Simone dicendogli: “Trattatemela bene,
è l'unica che
ho ancora piccola”.
Quasi
una raccomandazione detta da chi già sapeva, forse
inconsciamente,
cosa stava per accadere.
Finito di piangere era andata a buttare i
fazzoletti ed era capitata davanti alla porta del balcone.
Ferma
davanti al cielo che piangeva proprio come lei aveva ricordato anche
la loro ultima cena, gli ultimi scherzi di suo padre, ed era stato in
quel momento che aveva sentito la mano di Antonello sulla sua
spalla.
L'aveva presa e stretta forte, respirando profondamente e
poi gli aveva parlato.
- Avevi torto. Dicevi che morivano i
genitori degli altri, che sparavano ai genitori degli altri, che
nessuno avrebbe mai fatto del male a papà. Avevi torto e ora
quasi
ti odio perché volevi convincermi del contrario. Sei un
bugiardo. -
In lacrime si era girata e aveva iniziato a dargli pugni sul petto,
come a voler far comprendere la sua rabbia verso quella
menzogna.
Antonello le aveva fermato le mani e l'aveva guardata
senza dire nulla, sapeva che prima o poi se la sarebbe presa con lui
e con le sue parole.
Con le mani bloccate dal fratello la
ragazzina aveva smesso di parlare per un attimo.
Poi lo aveva
fissato negli occhi, quegli occhi uguali a quelli del padre e che in
quel momento erano arrossati come i suoi. - Però su una cosa
avevi
ragione, sai? Continuare a pensarci era inutile, mi sono solo
distrutta la vita prima, e preparata alla morte di papà non
ci sono
arrivata, forse non ci si arriva mai.-
Era scoppiata nuovamente in
lacrime, ma aveva sentito qualcosa di strano dentro di sé
quando era
riuscita a dire di nuovo papà, come se suo padre in quel
momento
potesse essere davvero accanto a lei, ancora.
“Trattatemela
bene, è l'unica che ho ancora piccola”.
L'ultima frase
detta da Alfio Olivietti a Quarto era rimasta ben in mente ai due
amici di Gaia, che dal momento in cui avevano saputo della morte
dell'uomo avevano fatto il possibile per starle vicino.
Erano
andati da lei la mattina dopo l'omicidio, quando non parlava e non
piangeva, e avevano passato la giornata nella sua stanza ad
accarezzarla, a stringerle la mano e nel pomeriggio a vederla
riposare.
Anche loro erano increduli, incapaci di accettare quello
che era accaduto.
Quando Gaia aveva ripreso a parlare, ad uscire
e ad andare a scuola loro assieme a lei avevano provato a riprendere
una vita normale, ma nessun dei tre era più passato a
Quarto,
neanche per errore.
Un pomeriggio, dopo aver fatto un giro
assieme, la ragazza aveva chiesto ai due amici di accompagnarla in
procura. I due l'avevano guardata straniti, perché era stato
proprio
lì vicino che avevano sparato al magistrato, ma lei aveva
detto che
doveva fare una cosa e né Simone né Giorgio erano
stati capaci di
dissuaderla.
L'avevano lasciata alla fermata dove per tutta la
vita era scesa per andare da suo padre ed erano tornati verso casa
loro, proprio come lei gli aveva chiesto.
Non
erano certi che sarebbe stata in grado di andar via di lì da
sola
però pazienza, dopo tutto non era stupida, Gaia, sapeva
quello che
faceva.
Mentre girava attorno il palazzo capì subito dove suo
padre era caduto, perché sull'asfalto ancora si vedeva una
chiazza
scura che quel giorno era stata provocata dal suo sangue.
Rimase
poco lì, troppo pesante era in quel posto il peso dei suoi
fantasmi.
Fece attenzione entrando nella procura di Genova a non
farsi vedere da nessuno, e ripercorse a memoria la strada che portava
all'ufficio di suo padre.
Aveva sentito un paio di giorni prima
che tutto era rimasto come l'ultimo giorno in cui lui vi era stato, e
sentiva il bisogno di passare qualche attimo lì, di
ricordare tra
quelle mura proprio come aveva fatto a casa.
Aveva aperto e chiuso
velocemente la porta dello studio e si era trovata immersa tra i
libri e le carte di quello che fino a due settimane prima era stato
un ottimo magistrato.
Poi si era avvicinata alla sua scrivania e
lì vi aveva trovato varie foto di lui e della sua famiglia.
Tra
queste, che conosceva bene, riconobbe una foto nuova, fatta al mare
quell'estate, un mese prima dell'omicidio.
Loro cinque in
spiaggia un giorno che Antonello era riuscito a raggiungerli.
Mentre
la fissava lunghe lacrime iniziarono a scendere sulle sue guance, e
non fece in tempo ad asciugarle che sentì la porta aprirsi
di nuovo
e alla sue spalle apparve il dottor Mariotti, un collega del padre.
-
Gaia! Come... come hai fatto ad entrare?- Le domandò
andandole
incontro.
- Io... io ho fatto in modo di non farmi vedere e...
scusi, lo so che non avrei dovuto ma volevo tornare qui ancora una
volta, avevo sentito che fosse ancora tutto come prima...-
L'uomo
la tranquillizzò dicendole che non c'erano problemi, che la
capiva.
Vicino a lei aveva visto la foto che teneva in mano, e
ancora piangendo Gaia gli aveva domandato come fosse possibile che
solo un mese prima di quel sette settembre fossero tanto felici.
-
Se quel giorno ci avessero detto che sarebbe accaduto tutto questo
non ci avremmo mai creduto...- Aveva sospirato.
- Non ci avrebbe
creduto nessuno.- Era stata la replica di Mariotti. - Tuo padre non
era impegnato particolarmente in indagini che potessero far presagire
un epilogo tanto tragico, qui in procura non ho ancora sentito
qualcuno dire che potevamo aspettarcelo....-
Ma la ragazza aveva
scosso la testa e detto che no, che in fondo dovevano saperlo che
poteva accadere.
Aveva poggiato la fotografia sulla scrivania e
si era avviata in silenzio verso l'uscita, salutando con un gesto del
capo il dottor Mariotti.
Appena prima di attraversare la porta si
era fermata e voltata. - Lo so che c'è il segreto su queste
cose...
Ma se un giorno scopriste chi è stato potrei saperlo prima
da lei
che dalla televisione?- Marotti le aveva fatto cenno di sì
con la
testa.
- Vuoi che ti riaccompagni a casa, Gaia?-
- No, grazie.
Il bus è comodo, arrivo proprio sulla mia via. Ma forse lei
lo sa
già.-
Sorrise ripensando a tutte le volte che quell'uomo e suo
padre avevano fatto la strada insieme per tornare a casa.
- Già...
ascolta, sai bene che questo ufficio non rimarrà
così per sempre...
se te la senti potresti aiutarmi a svuotarlo, un giorno di questi...-
Le aveva proposto.
Lei ci aveva pensato un attimo su e poi aveva
annuito.
Ancora con un cenno del capo si era congedata dal dottor
Mariotti ed era uscita per tornare a casa.
Nessuno le aveva
domandato dove fosse stata, convinti che avesse passato il pomeriggio
assieme ai due ragazzi.
In realtà aveva pianto a lungo in
autobus, durante il viaggio di ritorno, ma poi appena prima di salire
in casa si era sciacquata il viso ad una fontanella per apparire
calma e tranquilla davanti agli occhi di chi amava.
Durante la
cena, però, la calma apparente che provavano a recuperare si
era
rotta.
Patrizia aveva comunicato la decisione di iscriversi a
Giurisprudenza per seguire le orme del padre, e Antonello le aveva
inaspettatamente urlato addosso, dicendo che la sua scelta era
emotiva e non razionale.
Erano volate urla forti che Gaia non
comprendeva, perché da quando il padre era morta era quella
la prima
volta che i suoi cari si attaccavano in un modo tanto forte,
soprattutto in un momento così particolare come la cena,
quando
l'assenza di Alfio si faceva più forte.
- Basta..- Aveva
sussurrato la ragazzina mentre li sentiva urlare.
- Basta.- Aveva
detto più forte.
- BASTA!- Era stato alla fine il suo di urlo,
così violento che tutti avevano taciuto.
- Basta! Basta
smettetela. Papà è morto da neanche un mese e
già sembrate voler
distruggere tutto quello che ci è rimasto! Patrizia
è libera e papà
sarebbe felice di vederla studiare Giurisprudenza. Dovete smetterla!
Basta Antonello, tu non sei papà, non sei responsabile di
noi!
Basta! - Era corsa in camera sua e si era buttata sul suo letto
piangendo, mentre quelli rimasti in cucina si guardavano increduli.
Tra le lacrime aveva fissato la foto del padre appesa sopra il
suo letto, e mentre piangeva si era a suo modo arrabbiata anche con
lui.
- Dove sei? Dove sei andato?! Avevi detto che ero piccola,
lo avevi detto poche ore prima! E i piccoli hanno bisogno dei loro
genitori, io ho bisogno di te!-
Aveva smesso di parlare quando i
singhiozzi erano diventati troppo forti, si era sdraiata e aveva
continuato a piangere, a tratti ad urlare, a far uscire tutto il suo
dolore.
Il calendario in camera sua diceva che ottobre era
iniziato, che di lì a pochi giorni la terra avrebbe compiuto
il
sedicesimo giro intorno al sole dal momento della sua nascita.
Ma
lei di anni addosso se ne sentiva molti di più, come se nel
momento
in cui lui era morto fosse cresciuta ed invecchiata tutto insieme.
Eppure non abbastanza da finir di vivere, da raggiungerlo.
Ma
nessuno oltre a lei lo sapeva, perché per tutti Gaia
Olivietti era
nata il 10 ottobre 1963 e il 10 ottobre 1979, a trentatré
giorni
dalla morte di suo padre, avrebbe compiuto semplicemente sedici
anni.
Si addormentò cercando disperatamente di immaginare la vita
dei suoi genitori sedici anni prima, quando lei era ancora nascosta
nel ventre di sua madre ma loro già l'amavano.
Perché l'amore
sicuramente andava oltre la possibilità di vedere, toccare o
parlare
con qualcuno.
E allora, forse, da qualche parte suo padre ancora
l'amava, e lei poteva continuare ad amarlo come prima.
Si nascose
sotto le coperte, fingendosi invisibile proprio come invisibile era
diventato il suo papà.
Doveva esserci, di notte, nei sogni, un
posto in cui due invisibili potevano vedersi e stare assieme.
Almeno
per quella notte, almeno per quel sogno.
Spazio
;Sun
Doveva
essere una shot ma è troppo lunga, quindi sarà
una mini-long di tre
capitoli. I prossimi due arriveranno, spero, le prossime due
domeniche.
Credo sia la cosa più angst che abbia mai scritto, ma
la canzone di Cristiano de André, figlio di Fabrizio, mi
ispirava
tanto e soprattutto ultimamente sono successe cose poco belle, tali
che, forse, avvertivo anche internamente il bisogno di scrivere
questo racconto.
Niente, io spero davvero vi piaccia e mi diciate
cosa ne pensate, so che è lunga ma io mi auguro valga la
pena di
leggerla.
Vi mando un grosso bacio e ci sentiamo domenica
prossima.
;Sun
<3