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Autore: scapparsi    10/06/2014    15 recensioni
"[...] Vorrei solo potermi addormentare accanto a te e ritrovarti il mattino dopo, prepararti la colazione, svegliarti con baci e carezze e augurarti il buongiorno. Vorrei solo osservarti leggere uno dei tuoi libri mentre i tuoi occhi luccicano dall’emozione. Vorrei solo poterti portare al mare e ammirarti mentre la luce del sole mette in risalto i tuoi bellissimi occhi marroni. Vorrei solo farti perdere fra le mie braccia mentre guardiamo una delle solite commedie romantiche.
Da quando ti ho vista la prima volta colleziono sogni, desideri e speranze che resteranno tali perché sono uno stupido mortale che ha paura di affrontare la vita. Preferisco il mio piccolo angolino, lontano dal mondo, lontano dal resto, lontano da te. Ma, sai, voglio cambiare. Sono stanco, stanco, stanco e voglio lottare ma certe guerre non si combattono da soli. Ho bisogno di te, ma tu non ci sei. Il tuo cuore appartiene a lui."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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 Prologo.
 
Il vento soffiava forte procurandogli qualche brivido su per la schiena.
Erano le 5:00 ed il parco era vuoto, non c’era nemmeno un’ombra in lontananza.
Mattia si chiese che cavolo era venuto a fare in quel posto che gli aveva sempre procurato dolore. Si ricordò del ginocchio sbucciato quando cadde dallo scivolo che ormai era stato quasi del tutto distrutto, e di quando portò la sua prima fidanzatina sotto quell’albero e lei lo lasciò. Si ricordò di tutte le volte in cui era venuto lì per fuggire e si era sempre lasciato andare in un pianto liberatorio o di quando la vide per la prima volta oltrepassare il cancello arrugginito e pieno di scritte sentimentali. Si ricordò del suo sguardo perso, del suo guardarsi intorno smarrita; anche lui si sentiva così: inadeguato.
 
Le persone incominciarono ad entrare e subito il posto tranquillo si trasformò in caos.
Di giorno il parco era pieno di gente: di madri che facevano andare i propri figli sullo scivolo e l’altalena, di fidanzati che si tenevano per mano oppure di ragazzi che si lasciavano; il parco era pieno di bambini che giocavano a pallone, di bambine che raccoglievano i fiori senza saperne il significato e di vecchi che rimpiangevano il proprio passato.
Le giornate passavano con monotonia e puntualmente nessuno faceva caso a Naomi, una ragazza pallida e minuta a causa della malattia con la quale conviveva da tre anni. I capelli biondi le cadevano disordinati sulle spalle spigolose e mettevano in mostra i profondi occhi castano chiaro che ad occhio superficiale sembravano non trasmettere alcun tipo di emozione.
Ogni mattina si sedeva su una delle tante panchine ed aspettava. Persone? Un amore? Un’assenza? La forza? Un consiglio? Il famoso “portone”? 
No, lei aspettava un ritorno. Il ritorno di sé stessa ed intanto il tempo passava e tutto era sempre uguale, nulla cambiava ma infondo era felice perché non era molto predisposta verso i cambiamenti. La cosa brutta è che quest’ultimi, molto spesso, avvengono senza preavviso e non hai neanche il tempo di prepararti psicologicamente. Così era successo per sua madre che anni prima si era suicidata: era depressa perché il marito l’aveva lasciata con una figlia piccola che non voleva
da dover crescere, le aveva sempre fatto pesare la sua nascita. Come se fosse colpa mia se l’avete fatto senza prendere precauzioni diceva sempre a bassa voce.
La ragazza prese con fatica un libro dalla borsa e sorrise leggendo il titolo, i suoi occhi si illuminarono leggermente ma solo il ragazzo che l’osservava dall’albero se ne accorse.
Dopo qualche minuto si avvertì una risata fragorosa e sia la ragazza, sia il ragazzo sull’albero si girarono per vedere chi era che rideva in questo modo; nel parco entrarono due ragazzi, si tenevano per mano e ridevano felici mentre il vento scompigliava i capelli biondi di lei. Il piccolo corpo di Naomi si irrigidì alla vista dei due e si alzò anche se con fatica; si diresse lentamente verso l’uscita mentre il ragazzo ancora la guardava dall’alto con i suoi chiarissimi occhi azzurri. Si morse il labbro e scese con un salto dall’albero. Andò anche lui verso l’uscita e, per l’ennesima volta si disse che le avrebbe parlato domani, ma ogni giorno era sempre meno convinto perché la ragazza della panchina (da lui così definita perché non conosceva il nome) amava quel ragazzo sfacciato che ogni giorno tornava al parco con quell’oca giuliva.
 
Naomi tornò a casa. Non c’era nessuno ad aspettarla. Come sempre.
Si era trasferita da un anno o più in quella cittadina quando aveva appena compiuto i diciotto anni. Mettere in atto quel cambiamento era stato non poco complicato ma alla fine era riuscita a voltare un po’ di più pagina. Sperava di poter andare all’università senza problemi ma anche lì c’erano ragazzi che la prendevano in giro torturandola per il fisico troppo gracile per una ragazza di diciannove anni, ma gli insulti le avevano insegnato ad essere una persona peggiore, a saper ignorare tutte le cattiverie che le venivano dette ogni giorno. “Sei talmente magra che le ossa ti hanno stritolato il cuore facendo uscire tutte le cose belle. Guardati: fai schifo e non ti amerà mai nessuno!” le ripetevano le ragazze magre ma non anoressiche con disgusto. Sembrava che nessuno si ricordasse che lei avesse dei sentimenti, tutti la trattavano come se fosse un oggetto da poter sfruttare a proprio piacimento. I suoi occhi chiedevano aiuto ma le persone non leggono i libri, come potrebbero leggere addirittura gli occhi?
La vita diventava sempre più dura ma le insegnò una cosa: le persone ti distruggono, non ti salvano. E quindi, con tanta fatica, aveva imparato a rialzarsi sempre da sola.
 
Mattia arrivò a casa all’orario di pranzo.
Appena entrò sentì l’odore di pulito mischiato a quello del dolce che la madre preparava ogni Domenica mattina ma era troppo giù per assaporarne il sapore. Andò nella sua stanza e si sedette sulla scrivania, osservò il vuoto davanti a lui e prese un foglio. Incominciò a scrivere una lettera mettendo insieme un mucchio di parole.
 
Cara ragazza della panchina,
scrivere lettere ormai non va’ più di moda ma, sai, non sono uno di quelli che segue gli altri: vado controvento, io. Ti scrivo perché non trovo le parole giuste da dirti e quindi do’ un po’ di colore a questo neutro foglio bianco.
Ogni giorno vengo lì al parco e spero di vederti, di solito ci sei sempre con quel tuo sorriso stanco e quegli occhi pieni di un dolore in grado di sconvolgere chiunque, anche me che non sono un tipo facilmente impressionabile. Io ti vedo, ma tu no … sei troppo impegnata a vivere tra le pagine dei libri che ogni giorno porti con te, è come se i libri fossero la tua ombra: dove ci sarai tu ci saranno anche loro.
Vorrei che tu mi amassi come ami quelle pagine, che tu ti prendessi cura di me come fai con i libri. Ma io per te non sono niente, e non credo che lo sarò mai … ti ho dato il mio cuore ma tu non l’hai preso e hai fatto sì che cadesse al suolo.
 Sono sicuro che tu lo sai cos’è che si prova, ad amare qualcuno che non ci ama; a sognare una persona che ne sogna un’altra. Sono sicuro che tu lo sai che vuol dire essere come me. L’ho notato, sai? Ho notato come lo guardi, come sorridi quando lo vedi e come quel tuo sorriso gracile scompare quando al suo fianco vedi lei; i tuoi occhi si riempiono di lacrime quando li vedi insieme e vorrei tanto guardarti negli occhi e dirti che sei tanto più bella tu, ma mi spaventi.
Non sono terrorizzato da te, ma più che altro dall’effetto che mi fai. Quando si tratta di te il mio stomaco va in subbuglio e il mio cervello in tilt, impazzisce come un bambino alla vista di un nuovo giocattolo o come un cane quando lo accarezzi per bene. Insomma, hai presente ciò che provi quando incominci e finisci un libro? Ecco, io ho quella fottuta sensazione ogni volta che ti vedo. E questo mi spaventa: mi spaventa il modo in cui ti penso, in cui ti guardo, in cui spero di vederti sorridermi o il modo in cui sogno di averti finalmente qui accanto a me. Mi spaventa sentirmi così preso da una persona.
 
È strano, eh? È strano come il destino si diverti a giocare con la nostra ingenuità. Ogni cosa che desideri, non accadrà. Non vuoi amare ed ami, non vuoi soffrire e soffri, vuoi urlare ma non lo sai, cerchi di sorridere e finisci col piangere disperato. Il destino ci prende in giro: è come se amasse vederci impazzire per un vita che non è e non sarà mai come vogliamo. Questo mi fa incazzare. Io voglio essere l’unico padrone della mia vita ma non sono altro che una stupida marionetta di quel tale che si fa chiamare Dio. Lo odio, sai? Si crede chissà chi mentre ci guarda da lassù con quel suo sorrisetto di merda chiedendoci di fare un sacco di cose per lui quando per noi ‘sto tizio non fa un cazzo, se non rendere la nostra vita inutile: ci fa nascere e poi morire, ci fa provare l’amore e poi ce lo toglie, ci fa avvicinare alla felicità ma non ci permette mai di toccarla davvero, ci riempie e poi ci svuota, ci porta in alto facendoci cadere poi ancora più in basso di quel che eravamo già.
Non è orrendo? Non è orrendo non poter essere artefici del proprio destino, non poter scegliere la vita che vogliamo vivere?
Prendi me: vorrei solo potermi addormentare accanto a te e ritrovarti il mattino dopo, prepararti la colazione, svegliarti con baci e carezze e augurarti il buongiorno. Vorrei solo osservarti leggere uno dei tuoi libri mentre i tuoi occhi luccicano dall’emozione. Vorrei solo poterti portare al mare e ammirarti mentre la luce del sole mette in risalto i tuoi bellissimi occhi marroni. Vorrei solo farti perdere fra le mie braccia mentre guardiamo una delle solite commedie romantiche.
Da quando ti ho vista la prima volta colleziono sogni, desideri e speranze che resteranno tali perché sono uno stupido mortale che ha paura di affrontare la vita. Preferisco il mio piccolo angolino, lontano dal mondo, lontano dal resto, lontano da te. Ma, sai, voglio cambiare. Sono stanco, stanco, stanco e voglio lottare ma certe guerre non si combattono da soli. Ho bisogno di te, ma tu non ci sei. Il tuo cuore appartiene a lui.
-Il ragazzo dell’albero.
 
 
Posò la penna ed uscì consapevole che la ragazza frequentasse il parco a quell’ora. Arrivò lì con il petto che bruciava e il cuore che provava ad uscire. Entrò. Il tempo era nuvoloso ed erano pochi i bambini che erano riusciti a convincere le loro madri a farli giocare ancora un po’ sotto quel cielo che non prometteva nulla di buono. L’ansia cresceva dentro di lui sempre di più impedendogli di respirare normalmente, voleva scappare ma allo stesso tempo voleva dimostrare a quel Dio non più giusto che si sarebbe tracciato il suo destino da solo con o senza il suo aiuto. Si fermò prima di continuare verso la panchina. Fece un giro su se stesso e sentì la testa girare lievemente. Gli alberi intorno a lui presero le sembianze dei mostri che da piccolo restavano sotto al letto per non farlo dormire di notte. In quel periodo, però, comparivano soltanto quando quella ragazza era estremamente lontana dal suo sguardo protettivo e pieno di un non so cosa di strano. Un brivido gli percosse la schiena dandogli la forza di incominciare a correre; il vento gli dava piccoli schiaffi sulle guance rosate, lottò contro di questo che voleva rallentargli la strada ma non si fermò, o almeno finché non arrivò alla panchina. Era vuota. Lei non c’era e una lacrime scese per la sua guancia. Dio gli aveva messo di nuovo il bastone fra le ruote.
Rimase seduto per qualche tempo aspettando con ansia di vedere il suo viso in quello degli altri, ma non accadde e, affranto, si incamminò per andare lontano ma con sé non portò la lettera.
Lei non c’era. E non ci sarebbe stata più.
 

Salve a tutti i lettori di efp!
Questo è il prologo di una storia che avevo già pubblicato tempo fa, ho solo apportato alcune modifiche per renderla migliore quindi questo è quanto haha; non ho molte cose da dire, spero solo che vi piaccia e mi lascerete qualche recensione per darmi dei suggerimenti o cose simili...
A presto, o almeno spero, scapparsi☺

 

   
 
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