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Autore: Yumao    20/06/2014    2 recensioni
Dopo un evento drammatico, non riuscendo a reagire e a ritornare alla vita di tutti i giorni, una ragazza di ventitré anni decide di partire all'avventura. Unica regola: farsi guidare dal caso.
Incontrerà i compagni di viaggio più strani, che la accompagneranno per un po' per poi andarsene per la loro strada. Di tutte queste persone non manterrà che un nome, un volto, un ricordo.
Ma c'è qualcuno con cui la sua strada si incrocerà più di una volta.
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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2-clichè

Sono entrata in un cliché






Casa di Marta non era lontana dall’università, camminammo solo una decina di minuti, durante i quali mi inondò di informazioni su quanto il mondo fosse corrotto e cattivo. Si fermò davanti a un vecchio portone di legno, armeggiò un attimo con le chiavi e entrammo in un androne stranamente bello.

Era vecchio e trascurato, sì. I muri erano scostati e il pavimento sporco, in un angolo c’era pure un notevole esemplare di arte falliforme. Però c’erano delle vetrate colorate che davano su un cortile interno al palazzo, che riempivano l’androne di calde sfumature rosse, arancioni, verdi e azzurrine. «Mi spiace, ma sto al quarto piano senza ascensore.»
«Non c’è problema» La rassicurai. Fare le scale mi avrebbe dato il tempo di chiedermi ancora per qualche minuto se stessi facendo una cosa saggia entrando nella casa di una perfetta sconosciuta. No, la risposta era decisamente no. Per qualche strano motivo mi venne da ridere.

«Ohi Marta. Chi è la ragazzina?» La salutò un uomo sui quarant'anni che fumava e beveva birra appoggiato alla balaustra delle scale. Era un tipo decisamente inquietante, con l'abito canonico dello scansafatiche: bermuda, pantofole e canottiera bianca bucata e macchiata di sugo. «Un’amica. Come hai detto che ti chiami?» Come avevo detto di chiamarmi? «Lee.» Risposi, già pentita di aver scelto un nome tanto scemo. «È un diminutivo di… uh… Lidia.» Cercai di rimediare. Mi tese la mano villosa sorridendo. «Piacere, Vee. È un diminutivo di Vittorio.» Scoppiò in una grassa risata alla sua battuta. Marta alzò gli occhi al cielo sbuffando, ma da un luccichio nei suoi occhi mi sembrò evidente che fosse solo una recita, e che sotto sotto l'uomo la divertiva. «Sta attenta a questa qua.» Mi disse avvicinandosi al mio orecchio con aria cospiratoria e indicando Marta con il pollice. Sapeva di sigaretta. «È pericolosa.» Rise ancora, e risi anch’io, molto nervosa, chiedendomi se ero ancora in tempo per scappare e andare in albergo.

Entrare in casa di Marta fu come entrare in un negozio Equo-solidale, sia per i colori molto etnici che per il forte odore di curry e di incenso. Entrammo in un salotto-cucina. I vari poster, locandine di film, di concerti e di proteste tappezzavano completamente le mura, rendendo la stanza caotica. La poca luce arrivava dalla porta-finestra da cui eravamo entrati, coperta da una tenda rossa, ma la penombra, con in caldo che faceva fuori, era fresca e piacevole.

In tutto quel marasma di colori e oggetti strani, era difficile individuare i pochi mobili. C’era un tavolo basso, che a un esame più attento si rivelò essere un asse appoggiato a due cassette della frutta, circondato da cuscini informi. In un angolo c’erano i cuscini di un divano, ma del divano non c’era traccia. Su un’altra cassetta della frutta c’era un narghilè molto colorato, che non sembrava essere usato solo come soprammobile. Individuai almeno tre coperte fatte all'uncinetto, in diverse sfumature di rosso, appoggiate su varie superfici. 

Il mio primo pensiero fu “Sono appena entrata in un cliché”.

Si lasciò cadere sui cuscini da divano con un tonfo notevole. «Ci credi che la maggiore parte di queste cose le ho trovato nella spazzatura? La gente butta via qualsiasi cosa!» Ci credevo. «Non preoccuparti, li ho lavati col vapore e ho cambiato le federe. Le ho cucite io.» Mi rassicurò, evidentemente notando la preoccupazione del mio sguardo. Hippie ma con il senso dell’igiene. «Vieni, ti faccio vedere la camera da letto.» Si alzò con un colpo di reni e mi condusse attraverso una porta che, essendo coperta di poster come il resto della stanza, non avevo nemmeno notato.

C’era un materasso appoggiato su dei bancali, una scrivania ingombra di libri di filosofia e materiale da cucito e un armadio senza porta, con i vestiti buttati dentro alla rinfusa. Dopo una breve ricognizione, individuai la porta dell'armadio, staccata dai cardini e appoggiata alla parete lì accanto. «Lascia pure lo zaino dove trovi posto!» Urlò allegramente sovrastando il suono del campanello. Lasciai cadere il mio zaino in un angolo relativamente sgombro, mentre Marta correva via per rispondere al citofono.

Sulla porta divelta dell'armadio c'era uno specchio, ricoperto di fotografie. Lo specchio rimandò la mia immagine, scialba e anonima. Avevo una t-shirt monocromatica, di un marrone scuro molto neutro, e i pantaloni neri di una tuta. Avrei dovuto liberarmi di quei vestiti al più presto, erano l'ultima cosa che mi rimaneva dalla mia vita precedente.

Guardai da vicino il mio viso, e il mio riflesso mi guardò con aria critica. Ero pallida e avevo dei cerchi scuri sotto gli occhi. Anche i capelli erano disordinati e secchi, la frangia iniziava a coprirmi gli occhi. Avevo decisamente bisogno di andare da una parrucchiera. Di certo facevo un contrasto netto con le due ragazze ritratte nelle foto. Una era Marta, con i suoi capelli multicolor e gli abiti dai colori accesi, l’altra era una ragazza molto carina, con capelli perfetti, vestiti eleganti e occhi azzurri e luminosi.

Sentii delle voci e mi voltai, trovandomi davanti la ragazza delle foto in carne e ossa. Si fermò sulla porta guardandomi incuriosita. «Oh, sì, lei è Lee. Lee, questa è Silvia.» annunciò Marta apparendo alle sue spalle. Silvia mi tese la mano sorridendo. «Poverina, anche tu sei rimasta catturata nella sua rete?» La guardai sollevando un sopracciglio. «Ogni volta che vengo a trovarla si è portata a casa qualcuno. Gatti, stranieri, studenti in Erasmus, turisti giapponesi… una volta persino un piccione ferito.» Si fermò un attimo squadrandomi da capo a piedi. «Ma tu sei un po’ meglio della media.» Marta le diede una gomitata nelle costole. «Ohi, non sei molto gentile con la mia ospite!» Silvia alzò gli occhi al cielo. «Che ho detto di male? Le ho detto che è meglio della media.»
«Le hai detto che è un po'’ meglio di gatti randagi e piccioni!» Sospirò, lanciandomi uno sguardo rassegnato. «Non darle retta. Io ospito sempre e solo gente che mi sembra simpatica.»
«Un giorno ospiterai un serial killer che ti taglierà la gola nel sonno solo perché ti sembrava simpatico.»
«Sono amichevole! Che c’è di male?» Il battibecco continuò abbastanza a lungo da consentirmi di scavare un buco e nascondermici, se fossimo state all’aperto. Purtroppo non era così, e non potei far altro che stare lì a osservarle imbarazzata.

Dopo un po’ decisero di sospendere la conversazione, e con mio orrore ancora maggiore tornarono a concentrarsi su di me. «Hai viaggiato tutta la notte vero?» Mi chiese Silvia guardandomi come si guarda un cucciolo di cane coperto di fango. Non mi sembrava di averlo detto, ma probabilmente di vedeva dai vestiti stropicciati e dall’aria da reduce di guerra. Annuii, ancora più imbarazzata. «Ho preso un intercity ieri sera tardi…»
«Allora vorrai fare una doccia? Vieni, ti faccio vedere il bagno.»

Marta mi afferrò energicamente una mano e mi trascinò di nuovo nell’ingresso, e poi attraverso un’altra porta mezza mimetizzata. Il bagno era piccolo e pieno di trucchi e di creme che non sembravano essere sue. «Puoi usare il mio shampoo, e anche il mio accappatoio se non ne hai uno. Per l’acqua calda dovrai aspettare qualche minuto.» Ascoltai le istruzioni annuendo in silenzio e mi lasciò da sola nel bagno.

Quando la porta si chiuse mi sedetti un minuto sul bordo della vasca, guardando i miei occhi scuri e cerchiati nello specchio. Ti sei fatta raccattare dalla spazzatura come i cuscini del divano. Bella mossa. Mi si formò un’immagine mentale di Marta vestita da massaia che mi passava addosso la pulitrice a vapore. Sorrisi al mio riflesso scuotendo la testa. Me ne ero andata perché ero stufa che gli altri si prendessero cura di me, e invece ci ero ricascata dopo nemmeno ventiquattro ore.
   
 
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