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Autore: Sen    30/06/2014    3 recensioni
Il fumo denso della sigaretta saliva al cielo lentamente.
La notte scura, di quell’indaco marcato, rendeva le stelle iridescenti e fredde.
La luna era scomparsa, nera come un disco vuoto, una mancanza necessaria.
Lei socchiuse gli occhi bistrati, lunghi e scuri, come quelli di un gatto.
Le labbra rosse e lucide avevano lasciato un segno sul filtro bianco e sottile.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sul Tuo Viso

Sage sbuffava frustrato. Quattro mesi erano trascorsi da quel fatidico settembre, nel quale le sorti del Santuario e dell’esercito di Hades, erano state perentoriamente riscritte.

Avevano pianto i loro compagni periti, che ora riposavano al cimitero monumentale, proprio dietro ai giardini.

Avevano atteso, pazienti, che le ferite del corpo o dello spirito, venissero sanate.

Avevano costruito, avevano deciso, avevano visto Rodorio rifiorire a nuova vitale speranza.

Ed ora, lo sapeva, era giunto il momento di tirare le fila di quel destino che sfuggiva alla loro comprensione.

La sala del consiglio ospitava, per la prima volta, i Santi, gli Specter e i rappresentanti di Rodorio.

L’anziano saggio guardò Areia, seduta accanto a lui, un sorriso gli stirò le labbra e allungò la mano verso di lei, mentre i suoi occhi comprensivi erano posati su Eranthe, accomodata tra Minos e Aiacos.

Bambina mia...

Eranthe teneva il capo chino, le mani appoggiate ai braccioli di legno intagliato della poltrona, gli occhi preoccupati di Minos non la lasciavano un secondo, mentre lei cercava di fare il possibile per non incrociare lo sguardo infuocato di Deuteros, seduto tra Shion e Manigoldo.

Il Santo dei Gemelli era tornato solo la sera prima: era stato sull’isola di Kanon per due mesi, a guarire le sue ferite e a fortificare ancora di più il suo cosmo, per potersi dedicare poi, a lei, a loro, senza più impedimenti o riserve.

A cercare, con tutto se stesso, di trasformare tre persone in una sorta di famiglia. Quella che lui non aveva mai avuto, quella che ai Santi il destino sembrava voler precludere, troppe volte.

Anche se non aveva idea di come o dove, lui le sarebbe stato accanto, fino a quando le sue, le loro stelle avessero brillato.

E dopo, ancora, in quel giardino fatto di eroi.

Così, aveva utilizzato quel tempo di dolore anche per sistemare ed allargare la vecchia catapecchia che lo aveva ospitato per tanti anni, e che ora si poteva definire casa, a tutti gli effetti, con una stanza anche per Dimitra, che avrebbe compiuto cinque anni in una manciata di mesi.

“Potremmo decidere di andare anche là. Qualora ti stufassi di Rodorio.” Glielo aveva proposto così, quanto di più vicino a una dichiarazione d’intenti lui potesse sperare di mettere insieme.

E Deuteros era tornato soddisfatto, con il cuore che batteva forte, come nelle sere di luna nuova, a bussare alla sua porta, ancora una volta. Per sempre.

E lei l’aveva accolto in casa, come sempre, con un bacio di fuoco; tuttavia i suoi occhi erano pieni di un dolore che non le riconosceva mentre lei si affrettava a congedarsi per la notte dando la colpa alla stanchezza ed alla convocazione del giorno successivo.



Areia scosse il capo, impercettibilmente, stringendo le dita di Sage, concedendogli un mesto sorriso, esortandolo a cominciare.
“Miei cari”, aveva quindi esordito il Grande Sacerdote ottenendo immediatamente il silenzio generale.

“Vi ho convocati qui, oggi perché è giunto, finalmente il tempo di ricominciare a vivere. Ed è alla vita che vi esorto...”



Ma Deuteros non lo ascoltava più. Il suo sguardo cupo fissato su di lei.

Su di lui. Minos.

Quella gallina pallida che era arrivato ad aiutare. E che ora, seduto accanto a lei, mostrava di soffrire le sue medesime ansie.

Preoccupato un cazzo.

Le mani strette a pugno, le nocche sbiancate, doveva solo pregare di non essere lui la causa del comportamento strano di Eranthe, altrimenti...

Altrimenti!

Sospirò, no, obiettivamente, non poteva essere. Minos e Agathe erano diventati di fatto una coppia e lui le dava perfino una mano nel negozio di fiori.

Non poteva trattarsi di Minos, di Aiacos o di nessun altro.

Solo di lui.

Merda. Ma cosa poteva aver combinato?

Scandagliò nella sua memoria a cercare qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse essere anche solo lontanamente imputata a causa, ma non trovò nulla.

Quando era partito lei lo aveva baciato col solito trasporto, sorridendogli ed augurandogli buona fortuna. Lui le aveva sorriso, dicendole, a mezza bocca, che gli sarebbe mancata, ogni giorno, ogni ora.

E lei aveva sorriso a sua volta mentre una lacrima era sfuggita ad accarezzare la sua guancia.

Cosa poteva essere successo, dopo?

Forse si erano trovate in difficoltà e lei era stata costretta a tornare a lavorare?

Scosse il capo.

Impossibile.

Anche se il vitalizio dal Santuario non fosse bastato, nessuno avrebbe più messo piede a casa sua, non dopo il trattamento che lui aveva riservato ai clienti, la scorsa estate.

Forse la sua proposta di abitare con lui sull’isola di Kanon l’aveva offesa?

Tuttavia quella casa di sudore e lacrime era tutto ciò che possedeva.



Una gomitata di Manigoldo lo riportò alla riunione; forse Sage avrebbe detto finalmente qualcosa di anche solo lontanamente interessante.

“Ormai la pace è tornata a splendere su queste terre, esigendo il suo obolo di sacrifici”, tuonò il Sacerdote. “Nuovi guerrieri saranno investiti e chiamati a prendere il posto di chi ci ha lasciato. E una nuova guida vedrà la luce del Santuario”, continuò, la mano alzata come a voler impartire una benedizione.

“Shion. Allievo del mio compianto fratello, tu sarai il nuovo Grande Sacerdote di Athena. Preparerai tu i guerrieri alla nuova Guerra Sacra!”.

L’Ariete impallidì vistosamente, annuendo impercettibilmente e cercando con gli occhi Dohko che gli mostrò il pollice alzato.

“Come ultimo atto dell’autorità che mi è stata conferita, e come da loro esplicita richiesta, sollevo Deuteros dei Gemelli e Manigoldo di Cancer dall’obbligo di risiedere presso i loro Templi qui al Santuario.” La voce gli si spezzò, mentre gli occhi sorridevano. “Dopo il servizio che avete reso, a noi, a tutti, siete liberi.”

“Il Consiglio è qui concluso”, affermò, togliendosi il copricapo e posandolo, con lenta ieratica guisa, sul capo di Shion.

“Aspetti sommo Sage!” L’Ariete sembrava aver ricordato di possedere ancora una voce. “Ma lei, cosa farà...”, domandò irrequieto.

Il vecchio saggio sorrise, posando un braccio attorno alle spalle di Areia.

“Tornerò nel Jamir, a concludere i miei giorni in pace.” La guardò negli occhi. “Con le persone che amo.”

Deuteros sbiancò, forse era quello il motivo per il quale Eranthe si comportava in maniera così strana?

Non v’era dubbio che la partenza della sua amata nonna le avrebbe causato dolore, ma, in fondo, lui cosa c’entrava?

Anzi, averlo vicino avrebbe potuto recarle aiuto e conforto.

Si spostarono nella sala attigua, una sorta di solarium chiuso da un’ampia vetrata, nella quale inservienti solerti avevano preparato un vero e proprio banchetto in onore di quegli improbabili eroi.

Al gruppo nutrito dei presenti alla riunione, si erano aggiunte anche Melina, Dimitra e Francine, che ormai sembrava nascondere un’anguria matura sotto la veste. Manigoldo l’aveva accompagnata a sedere al tavolo con cura e attenzione, e Deuteros si lasciò scappare un sorriso di fronte a quei gesti ed allo sguardo raggiante di lei.

Nonostante la fatica ed il dolore che le indolenziva la schiena.

Eranthe aveva ricevuto clienti fino a quando la gravidanza non era diventata fin troppo evidente. Anche lui, che non si poteva certo definire delicato.

Eranthe non aveva avuto vicino nessuno che le massaggiasse la schiena o alleviasse i suoi timori. Nemmeno lui, che della bambina che portava in grembo era il padre.

Eranthe era quasi morta per dare la vita a Dimitra.

Scosse il capo come a voler cancellare il ricordo.

Ed ora, accomodata tra Agathe e Melina, non sembrava altro che una ragazza.

Un ragazza estremamente pallida, ma forse era solo il contrasto con la tunica nera e la preoccupazione che gli appesantiva il cuore.

Carpì i suoi occhi del colore della notte, e si rassicurò cogliendone il sorriso.

Prima che abbassasse nuovamente il capo.

E tutti sembravano vorticargli attorno, in una danza di marionette degna del Grifone, a parlargli o stringergli le mani in un gesto di ringraziamento, impedendogli, tuttavia, di raggiungerla, di parlarle, anche solo per un attimo.



Eranthe sbuffò, guardando insistentemente nel piatto: aveva avvertito il suo sguardo indagatore addosso per tutta la durata del consiglio ed ora quel senso di leggerezza ed emozione che avvertiva quando lui era presente, cominciava addirittura a darle fastidi alla bocca dello stomaco.

Merda...

Areia l’aveva sorpresa, un paio di giorni prima, mentre fumava una delle sue lunghe sigarette bianche, appoggiata alla ringhiera della balconata del piano superiore, che apriva direttamente sul mare.

Gli occhi bistrati, da gatta, del colore della notte, suggerivano un dolore adulto, che l’anziana, saggia nonna non le aveva mai visto addosso.

La avvicinò, comprensiva come avrebbe dovuto fare quella madre che Eranthe non aveva mai conosciuto.

Senza dire una parola.

Eranthe sospirò, un filo sottile di fumo si innalzò nel cielo della sera.

“Mi sento fragile, nonna, e forte nel medesimo momento”, cominciò dopo un lungo silenzio, occhieggiando la piccola Dimitra che, sorridente, giocava con una bambola di pezza che le aveva costruito Deuteros.

“Non ho mai avuto vicino nessuno”, aspirò una lunga boccata di fumo. “Non ho mai amato nessuno”, aggiunse a bassa voce, mentre le stelle facevano capolino sul mare.

“E mi sentivo... mi sentivo libera. Fa nulla se dovevo lavorare il doppio per poter permettere a Dimitra una ciambella in più o quel vestito rosa che aveva visto addosso alla figlia di Eulalia.”

Lanciò con rabbia il mozzicone, come se, scagliandolo lontano, avesse potuto mettere a tacere tutti i suoi cupi pensieri.

“Non mi è mai importato di essere guardata dall’alto in basso dalle altre donne, o dalle ragazze della zia perché non ricevevo esponenti della casta dorata del Santuario, ma solo soldati o civili”, continuò. “Mi hai sempre detto di fare attenzione e non farmi avvicinare dai Santi d’Oro o d’Argento, e ti ho dato ascolto.”

“Non ho mai preteso regali o sconti dal destino, lo sai. Ma poi…”Abbassò gli occhi sulle mani saldamente strette alla ringhiera di ferro dipinta di un azzurro intenso. “Poi è arrivato lui.”

Le ombre della sera avevano sconfitto il chiarore residuo del sole che tingeva del suo arancione acceso i contorni delle nuvole leggere.

“All’inizio vedevo solo il dolore nel suo sguardo, e una vita all’ombra così simile alla mia. Sapevo che veniva dal Santuario e pensavo fosse solo un soldato semplice, nemmeno uno dei graduati. Non aveva un alloggio o un riparo, e gli unici momenti nei quali aveva un tetto sopra la testa erano quelli che trascorreva con me. Poi ne ho avuto timore. Il suo cosmo era così vasto, così potente, che non poteva appartenere che ad un Santo d’Oro. E nemmeno uno di quelli più giovani.” Sospirò, i suoi occhi divennero distanti, le labbra stirate in un sorriso.

“Vedevo galassie intere nei suoi occhi, quando mi prendeva, nonna!”, esclamò, estasiata. “Si formavano ed andavano in frantumi solo con la forza dei suoi pensieri, delle sue emozioni.”

Areia sorrise nel constatare come gli occhi indaco di Eranthe brillassero alla luce delle stelle. Si voltò di scatto, per non farle intuire quell’arco che le stirava le labbra, ancora, dopo tutto quel tempo, nel ricordo di quella notte, così tanti anni prima, nella quale le stelle si erano fatte luminose, pure, nel cosmo di Sage che l’aveva reclamata come sua.

“Sono sempre stata sola, nonna. E andava bene così. Avevo accettato la mia condizione. Come ho accettato il suo amore, dopo, e ho compreso di amarlo, a modo mio. Ma quando l’ho visto ferito, sanguinante, quando è partito per Kanon e ho visto la sua schiena allontanarsi e i suoi occhi salutarmi…” Un singhiozzo rischiò di fuggire dalle sue labbra. “È stato come se mi mancasse l’aria, è stato orribile. E ho avuto paura di quello che sentivo”, ammise, come se parlasse a se stessa.

“Mi fa paura, nonna, dico davvero. Mi fa più paura lui, adesso, di quanta me ne facesse quando mi sbatteva sul letto e tanti saluti.”

Areia si lasciò andare ad una risata talmente inattesa che finì con l’irritarla.

“E io che volevo un consiglio, non sapevo fossi passata alla taverna a farti un ouzo!”, commentò a mezza voce accendendosi un’altra sigaretta.

“Bambina mia”, l’ammonì l’anziana donna, ancora ridacchiando, “quando fai un lavoro come il nostro, e cominci molto giovane, come è stato per me, te o Erato, tendi a non conoscere mai, sul serio, l’amore. Almeno fino a quando non ce l’hai sotto la pelle come quel vento d’inverno che raffredda le ossa.”.

“E per solito, non è una bella esperienza. Perché spesso vuol dire soffrire, vuol dire vederlo andare via con un’altra, e poi tornare da te solo quando vuole soddisfare i suoi bisogni. E il fantomatico amore finisce lì, nelle lenzuola umide”, continuò seria.

“Poi arriva lui. Sage, Deuteros, non è importante il nome, il fatto è che risuona con noi, con la nostra stessa vita. E fa paura. Deve fare paura. Altrimenti non è amore.”

Le passò un braccio attorno alle spalle.

“Piccina, sono stati mesi duri e difficili, per te, per lui, per tutti. Ma non lasciare che le tue decisioni siano guidate dal timore. Parlane con lui, se ritieni, fagli capire quali sono i tuoi dubbi, ma ricorda…” La guardò negli occhi, esigendo la sua massima attenzione. “Quello che ti è stato concesso è un dono tanto grande e dolce, quanto gravoso. Non lasciare mai che lui ti ferisca, ma, ti prego, non ferirlo nemmeno tu. Non Deuteros: ne ha già passate troppe.” Areia si interruppe, gli occhi lontani nel ricordo di quel ragazzo pestato a sangue e lasciato ai margini del Santuario, solo e vestito di stracci, nelle strade di polvere ed ombra, i vestiti strappati e logori, il viso nascosto. Quante volte Areia aveva chiesto a Sage di dargli almeno un riparo, nelle notti d’inverno, quante volte lo aveva trovato addormentato a ridosso di qualche colonna, alla fine dei suoi allenamenti estenuanti.

“Impara a fidarti di lui, in fondo ha ucciso il suo gemello per venire a riprenderti. Direttamente a casa di Hades.”

Sospirò sorridendole con gli occhi

“E non dimenticare che a tenere la tua mano, mentre partorivi, c’era lui.”



Era dalla sera precedente che Manigoldo la guardava come se fosse stata una bomba pronta ad esplodere.

Non era tanto per le dimensioni, nonostante nelle ultime tre settimane fosse lievitata come quelle pagnotte che Fòtula infornava all’alba nella panetteria della piazza centrale; erano più che altro tutti quei dolorosi fastidi che la assillavano a farlo preoccupare.

Avevano appena concluso il banchetto, in un tripudio di cibo, che lei aveva a mala pena assaggiato, conversazioni che sfociavano nel pettegolezzo, alle quali lei aveva appena partecipato, e calorosi abbracci, che lei aveva appena elargito giusto a Melina, Agathe ed Eranthe.

Lui aveva trascorso ben tre ore a massaggiarle la schiena e ad osservare quel lampo di dolore che le attraversava i lineamenti.

Le aveva quindi preso una mano, mentre lei beveva a piccoli sorsi un infuso ghiacciato di scorze di limone.


Picciridda, stai bene? Il vecchio ci ha fatto preparare una stanza per la notte, ce ne possiamo andare quando vuoi”, tentò a bassa voce, con quel tono un po’ ruvido ma pieno di attenzione che, lentamente, in tutti quei mesi, l'avevano fatta capitolare.

“Non ti preoccupare, Manigoldo, è che oggi questo mal di schiena proprio non mi da tregua.” Si spostò repentina sulla sedia, appoggiandosi allo schienale.

“Forse è meglio che faccia due passi o che provi a stendermi. Ma tu non devi assentarti a causa mia!”, aggiunse sorridendogli.

Ma lui rise alzandosi e porgendole il braccio. “Non ti lascio sola, picciridda”, affermò con un sorriso sghembo che rifletteva la luce maliziosa dei suoi occhi oltremare.

L’aiutò ad alzarsi in piedi, contando mentalmente quanto tempo intercorresse tra una fitta e l’altra. Mancava ancora qualche settimana, tuttavia...

Mossero appena una manciata di passi, quando dalle labbra di lei sfuggì un gemito ed un liquido trasparente e caldo le bagnò la tunica bianca.

“Manigoldo!”, chiamò, ma lui l’aveva già sollevata tra le braccia.

“Chiamate la levatrice, svelti!”, aveva tuonato Sage e Shion, come una molla, era scattato verso il corridoio, evitando per un soffio di travolgere due inservienti che stavano giungendo con vassoi ricolmi di bevande.

“Forza, forza, aria! Lasciatela respirare, ora”, aveva sbraitato la levatrice, le guance rosee e i capelli, nerissimi, legati in una treccia stretta, all’attenzione di quegli improbabili ospiti che si erano accalcati attorno alla coppia.

Tastava il ventre della giovane francese come se ne stesse vagliandone il grado di maturazione, quindi le sorrise, soddisfatta.

“Direi che ci siamo. Ora vai a coricarti, che hai perso l’acqua, e non ci resta che attendere.”

“Non qui!”, esclamò lei, aggrappandosi con forza al Santo del Cancro. “Vi prego, portatemi alla Decima Casa!”.

Manigoldo soffrì come se un pugnale lo avesse colpito in pieno petto, ma decise che, sì, era giusto così, in fondo.

Così cominciò a scendere quelle scale bianche, stringendola tra le braccia, mentre la gamba pulsava e doleva ad ogni passo, mentre lei gemeva, ad ogni contrazione.

La distese in quel letto, che lei aveva condiviso con il Capricorno per quella manciata di giorni nei quali era stata sua moglie, tuttavia Manigoldo la vide sorridere.

“Ti prego, stammi vicino”, gli disse, serena. “Ho paura di non riuscirci.”

Poi una contrazione, ed un’altra, fino a sera.

Il sole era ormai tramontato da un pezzo, quando lui si accese una sigaretta sedendo scomposto ai piedi di una colonna.

Ormai, a detta della levatrice, ci sarebbe voluto davvero poco prima di accogliere, finalmente, il figlio di El Cid in questo mondo.

Manigoldo scosse il capo, il pensiero a quella piccola donna e alla sua personale battaglia.

Si sistemò meglio, la gamba gli doleva come se qualcuno ci avesse infilato un ferro incandescente.

“Ci siamo, Manigoldo!”, gli giunse perentoria la voce di Melina che gli aveva dato il cambio, concedendogli qualche minuto per sgranchirsi le gambe e racimolare le forze.

E lui, dimenticando le guerre, il dolore, se stesso, balzò dentro. Le stelle del Capricorno brillavano violente nel cielo notturno.

E’ l’ultimo atto, Caprone. Sii fiero di lei.



Calcolò che ormai, doveva essere quasi mezzanotte, mentre la levatrice lo faceva sedere appoggiato contro la testata del letto per sostenere con il suo corpo la giovane Francine.

Non bastavano più le sue mani e le sue parole di conforto, e nella stanza regnava un silenzio innaturale, spezzato solo dal respiro veloce di lei.

Nemmeno la levatrice trovava più la forza o le parole giuste per incoraggiarla.

“La prossima contrazione sarà quella decisiva, Santo. Premile la pancia, appena sotto lo sterno”, gli disse con il tono piatto di chi aveva visto la morte troppe volte.

“Saremo pronti”, rispose lui, con il tono deciso di chi aveva causato la morte troppe volte.

C’era sangue, tanto, troppo, sul lenzuolo, sulle mani della levatrice, addosso a lui.

“Manigoldo”, lo chiamò, alla fine, lei, con un filo di voce, ma qualsiasi cosa volesse dirgli fu cancellata da quel dolore lancinante che sembrò artigliarla dall’interno.

Cominciò a spingere, avvertendo un peso bruciante uscire lentamente da lei, era esausta, ma non si fermava.

Nel silenzio della notte, solo la sua voce - “Forza, picciridda” - alla quale lei si aggrappava come un naufrago segue la stella polare, e le sue mani strette attorno a lei, a premere, aiutando quella piccola vita ad entrare nel mondo.

Poi sentì il pianto di un neonato e avvertì, vide, El Cid, chino su di lei, sorridente, sussurrarle qualcosa, tenderle la mano, nel calore del cosmo di quella di lui.


“Ruy, il bambino si chiama Ruy.”, ripeté Francine con un filo di voce.

Si lasciò andare, completamente, addosso a Manigoldo che la cingeva, baciandole la tempia.

“Sei stata grande, picciridda”, sostenne, cercando di non farle intuire la preoccupata tensione nella sua voce.

Ma lei era svenuta, nemmeno il tempo di vedere i piccolo o stringerlo a sé, ma un sorriso le stirava le labbra esangui, l’espressione fiera di un guerriero che vince una battaglia.



Era mattina quando, con suo enorme stupore, Francine aprì nuovamente gli occhi. La Decima Casa era immobile, illuminata dai tenui colori dell’alba. La culla accanto al letto era vuota. Francine si sollevò a sedere. Il dolore ancora bruciante e intenso, ma certamente nulla in confronto a quello che aveva sopportato solo la notte precedente. Si accorse, quindi, che le lenzuola erano state sostituite e lei era stata pulita e cambiata.

Voleva vedere suo figlio.

E anche Manigoldo.

Tentò, senza successo di alzarsi in piedi: era troppo debole e le pezze di cotone ripiegate a tamponare il sangue erano legate alle gambe rendendo estremamente scomodo riuscire a muoversi.

“Manigoldo?”, chiamò, la voce bassa ed arrochita dalle urla della notte precedente. Prese fiato per tentare di nuovo, quando avvertì una mano sul suo braccio. Si voltò, benché sapesse benissimo di chi si trattasse.

“Siamo qui, picciridda, ti senti bene?”, rispose lui, porgendole il neonato dai capelli nerissimi.

Lei lo prese, guardandolo attentamente, offrendogli il seno.

“Sono ancora viva”, constatò come stupita. “Ho visto El Cid. Mi ha detto il nome del piccolo. Pensavo sarei morta.”
Il Santo del Cancro rise, sguaiato. “Ci ho messo una vita a costringere la tua anima di nuovo nel tuo corpo!”, la guardò cercando di non cedere alla commozione dei suoi occhi stupiti, “ma ho fatto un buon lavoro, alla fine, che dici?”.

Lei sorrise appoggiandosi a lui. “Sei stato tu, allora, Manigoldo. Mi hai salvata ancora una volta.” Gli baciò le labbra. “Grazie.”

“Così lo cresceremo, insieme, picciridda”, riprese lui, e lei, annuendo gli credette, davvero.

Lasciò che le sue braccia cingessero entrambi, proteggendoli e cullandoli.

“Appena sarai in forze torneremo a Thyra. In primavera andremo nella casa nuova.” Francine annuì, come ipnotizzata.

“Resterai con me, Manigoldo?”, replicò quindi, mesta, seguendo la sua mano che accarezzava la testa del bambino.

“Sempre”, giurò lui, davanti agli stessi dei.

“Ti amo, picciridda.”



Eranthe si allontanò dalla Decima Casa. Aveva approfittato del trambusto generale per defilarsi, senza essere notata. C’era Melina con loro; Areia, con Dimitra e Sage, era rimasta al Tredicesimo Tempio e lei, una volta sinceratasi che Francine fosse in buone mani, aveva preferito allontanarsi.

Magari lui non se ne sarebbe accorto, pensò prima di darsi dell’idiota da sola.

Deuteros la vide scendere quelle scale, la tunica nera contro i gradini bianchissimi che separavano le Case.

La seguì, lesto e silenzioso, come un cacciatore con la preda, raggiungendola di fronte alla Nona Casa, stringendole un braccio nella sua mano calda.

Un solo guizzo del suo cosmo immenso li portò al Tempio dei Gemelli, che lui avrebbe dovuto presidiare.

La luce della luna illuminava i loro volti, rendendoli simili a spiriti, a sogni evanescenti nelle notti d’inverno.

“Deuteros…” Non riusciva a sostenere i suoi occhi chiari, così abbassò il capo. Avvertì le dita di lui carezzarle lentamente una guancia, affondando, poi, nei suoi capelli.

Alzò il viso ad incontrare i suoi occhi di mare, gli carezzò una guancia, avvicinandosi ed abbracciandolo forte, come a voler imprimere nella memoria ogni luce, ogni ombra del suo corpo.

“Mi...”, e qui la voce gli venne meno, “mi stai dicendo addio?”. Le sue spalle furono percorse da un tremito che il suo orgoglio mise subito a tacere.

“No”, bisbigliò, contro la pelle abbronzata del suo collo.

Deuteros la scostò dolcemente, solo per specchiarsi nelle lacrime che le avevano invaso gli occhi e rigato le guance.

Lei prese un lungo respiro, puntando lo sguardo dritto nel suo ed appoggiando le mani al suo petto, quelle di lui salde sulle sue braccia.

Perse per un attimo la sua risoluzione, quando si vide riflessa nel mare, nel cielo, che racchiudevano gli occhi di lui.

Tuttavia, approfittando del silenzio d’ombra del Santuario, parlò.

“Ero abituata a vederti andare via. Venivi nelle notti senza luna, e poi te ne andavi, senza parole, solo un rapido commiato.”

Si appoggiò ad una colonna, tenendogli una mano, come se la sua calda potenza, catalizzasse la sua risoluzione.

“Poi sei arrivato ad Atene. E non mi hai voltato le spalle, anche quando ho scoperto di essere uno Specter. Mi sei venuto perfino a prendere, rischiando la vita alla fortezza di Hades”, sospirò.

“E sei sempre stato accanto a me, senza chiedere nulla in cambio. Ti sei occupato di Dimitra quando Minos mi ha portata via. Mi hai dato la speranza di attendere il domani”, sorrise. “E adesso parli addirittura di condividere la tua casa di Kanon!” Dagli occhi cominciarono di nuovo a scendere lacrime.

Si strinse a lui, affondando il viso nel suo petto.

“Non voglio vederti andare via, non voglio perderti, anche se non ho idea di come si faccia ad essere una ragazza come si deve. Non ho idea di come si faccia ad amare, come fa Francine, o come ha fatto mia madre.”

I suoi occhi riacquistarono quella luce che lui adorava, “Ma ti amo, Deuteros. Giuro che ti amo.”.

Ma lui, sorridendo, fermò le sue labbra tremanti con un bacio di fuoco.

“Ascoltami bene, ti dico una cosa”, riprese, dopo. “Siamo solo noi a tracciare la strada che vogliamo intraprendere, ed il tipo di amore che condivideremo, sarà solo il nostro, senza ricalcare quello di nessun altro. Io amo te”, si morsicò le labbra, forte, come se avesse appena proferito parole proibite. “Ed è il tuo amore, quello che voglio.”

La guardò a lungo, come sempre i suoi occhi scuri gli rimandavano solo la parte migliore di sé e Deuteros giurò che avrebbe fatto di tutto, per lei.

In silenzio, che se solo fosse caduta una piuma probabilmente ne avrebbero avvertito il rumore, lui si avvicinò a lei, posando le labbra sulle sue con una dolcezza che non ricordava di possedere.

Non dubitare di me, Eranthe. Mai. Non dubitare del mio amore. E non avere paura. Io sarò sempre accanto a te.

“Portami via da qui, Deuteros”, gli sussurrò.

E lui sorrise. “Come vuole, mia signora!”, scherzò un inchino, ghignando, gli occhi malandrini.

Intrappolandola contro il marmo freddo con il suo corpo caldo, mentre le dimensioni si piegavano per lui.



Kanon la salutò con il cielo infuocato e l’aria salmastra che spirava dal mare. La sabbia sotto i suoi piedi, mentre lei scalciava via i sandali e rideva come una bambina. E poi il suo corpo caldo, ancora più rovente del vulcano, contro di lei, dentro di lei, affacciandosi a quel luogo nel quale nessuno aveva mai messo piede.

“Deuteros...” I sospiri avevano preso la sua voce, e lei vi si abbandonava volentieri, ché tra di loro le parole non servivano.

E lui gemette, al limite del piacere, al punto che provava dolore, pensando a come, sempre, lei fosse la sua personalissima bussola, il suo Santuario, il luogo, finalmente a cui tornare.

E prima che lei vedesse le galassie esplodere, nei suoi occhi, lui le confidò con il suo cosmo, quelle parole che, da ora e per sempre, avrebbero acquisito un senso nuovo, per entrambi.

“La casa, è bellissima”, sospirò lei, mentre si ritiravano per la notte, e ammirava, estasiata la nuova, ampia cucina, il soggiorno con la veranda che apriva sul mare, la camera da letto padronale con un piccolo bagno attiguo e la stanza per Dimitra, grande quanto il soggiorno ed interamente decorata con i toni del rosa.

“Sai che la stai viziando, non è vero?”, sostenne lei, sorridendo, stringendolo.



Si chiamava Leonidas ed era uno dei soldati scelti del Santuario. Sfoggiava orgoglioso le su protezioni lucenti, nuove, acquisite dopo aver combattuto assieme a Rodorio contro i soldati di Hades.

Ma ora, Leonidas non era in servizio, e sedeva rilassato ad un tavolino sotto un pergolato di edera, di fronte a quella casa di ragazze destinate ai piaceri dei Santi d’Oro, luogo che lui aveva avuto l’occasione di ammirare solo da lontano qualche tempo prima.

La ragazza che, invece, gli aveva concesso il suo corpo, nella casa dalle persiane azzurrissime, dall’altra parte di Rodorio, gli serviva, ora, una tazza di caffè fumante mentre il cielo di primavera si colorava dei toni del tramonto.

Appoggiato allo stipite del portone d’entrata, il Santo dei Gemelli, che gli aveva fracassato il naso, mesi prima, lo fulminò con lo sguardo, quando si accorse della direzione non proprio pudica dei suoi occhi, inchiodati alle terga di lei.

Leonidas abbassò il capo, trovando nella tazza un diversivo altamente interessante.

Era rimasto letteralmente di sale, quando l’aveva vista partecipare al consiglio, l’ultimo, indetto dal Sommo Sage, in qualità di Specter. Era ammutolito ancora di più quando l’aveva sorpresa quella stessa sera, nella Terza Casa, avvinghiata al Santo dei Gemelli, mordendosi la lingua per defilarsi in silenzio ed evitare di incorrere, ancora una volta, nelle ire, fin troppo esplosive, del guardiano del suddetto Tempio.



Nel tavolino accanto al suo prese posto una coppia altrettanto bizzarra: lei una donna minuta, dai lineamenti sottili ed aggraziati, lui, un uomo di tenebra, i capelli scuri, lo sguardo torvo, una sigaretta storta schiacciata tra i denti, teneva in braccio un bambino di tre o quattro mesi. Leonidas era sicuro di averlo già visto, come Santo della Quarta Casa, tuttavia il contrasto con quella scena famigliare era talmente stridente che accantonò subito quel paragone.



“Fra...Ekatherina, Milos!”, li abbracciò Eranthe, il sorriso aperto. Ora quella Fenice nera alle sue spalle era diventata ancora più grande.

“Quanto tempo, vi trovo bene. E il piccolo è cresciuto così tanto!”, concluse, mentre Deuteros la raggiungeva, un gesto di saluto ad entrambi.

“Non potevamo mancare all’inaugurazione della nuova Casa di Melina”, confidò lei voltandosi verso l’edificio completamente ristrutturato ed ampliato.

“In fondo se sono dove sono è stato grazie a lei!”, esclamò Francine, l’accento francese ancora evidente nel suo eloquio, la mano saldamente stretta a quella di lui.

Eranthe non poté fare a meno di sorridere, notando che sulla sua mano sinistra non brillava più l’oro di El Cid, ma un piccolo anello del medesimo materiale con incastonata un’acquamarina.

“Quando partirete?”, azzardò lui, rivolto a Deuteros.

“Domani”, rispose, gli occhi decisi si addolcirono impercettibilmente.

“Minos! L’edera deve stare più in alto!”, lo esortò Agathe, le mani sui fianchi, lo sguardo deciso di un Generale di un qualsivoglia esercito, mentre il Grifone utilizzava i suoi fili di cosmo per sistemare il rampicante ribelle, in modo che non coprisse l’insegna che campeggiava sull’ingresso.

“Così va bene!”, esclamò la ragazza, prima che quegli stessi fili, la catturassero, accompagnandola tra le braccia del Giudice. Un sorriso, un bacio leggero sulle labbra.

“E tu mi avresti trascinato fin qui dal Jamir, per prendere il caffè?”, bofonchiò Sage, il viso affaticato. “Non ho più l’età per queste cose, Areia!”, concluse accasciandosi su una sedia e godendo dell’aria che spirava dal mare.

“Smettila, vecchio granchio! Mia figlia ha sputato sangue per arrivare a questo”, e fece un plateale gesto con il braccio verso la parte nuova dell’edificio.

“E fai un bel sorriso che stanno arrivando. Ti devo forse ricordare che è stata anche la compagna di tuo fratello, gemello, da quando aveva diciotto anni?”, lo ammonì seria la donna che gli stava, con affetto, stritolando una mano.

“Nonna!” Eranthe era corsa ad abbracciarla, stringendola forte. “Melina sta arrivando, lo sai che a lei piace fare un po’ la diva!”, le strizzò l’occhio mentre Dimitra si arrampicava sul grembo del precedente Grande Sacerdote.

“Ciao nonnino!”

Deuteros si limitò ad un mezzo inchino nella loro generale direzione, servendo ad entrambi una bibita fresca che profumava di rose.

“E poi, non ricordavo che Eranthe fosse così grassa”, aggiunse Sage parlando praticamente all’orecchio della sua compagna non appena la ragazza si fu allontanata.

“Non è grassa”, lo fulminò Areia, sibilando.

“Robusta, se ti piace di più”, continuò accarezzando i capelli della piccola Dimitra.

“Nemmeno”, rincarò la dose l’anziana nonna, gli occhi ridotti a due fessure, per nulla sorridenti.

“Non ti sto dicendo che è brutta, anzi, è sempre stata formosa. Dicevo solo che ha un po’ di pan...” L’occhiata che lei gli rivolse gli fece chiudere la bocca di colpo, con uno schiocco secco di denti, mentre realizzava, la portanza di quanto appena affermato.

E il Sommo Sage, per la prima volta in un centinaio di anni, si sentì uno stupido.

Melina scese dalla scala.

Un semplice peplo bianchissimo, i capelli raccolti da una corona di foglie d’alloro dorate.

Eranthe si fermò un minuto ad ammirare sua zia, gli occhi azzurrissimi evidenziati dalle sfumature di nero che li ornavano.

“Mie care figlie, miei cari figli, benvenuti a questa sera di gioia!”, cominciò, la voce limpida e salda.

“Ed è a voi che brindo”, continuò alzando un calice colmo che le aveva offerto il Giudice di Garuda.

“Eroi della nuova Rodorio!”

L’applauso che risuonò nel Santuario intero le riempì gli occhi di lacrime di gioia.

La serata era sfociata nella notte, le stelle luminose, le lanterne accese, gli invitati, l’espressione sorridente dei loro volti, per una volta senza differenze di corazze, eserciti o professione, cominciavano a tornare alle loro dimore fermandosi a salutarli.

Lei e Deuteros avevano preso posto ad un tavolo accanto all’entrata lasciando alle ragazze di Melina la gestione degli ultimi clienti e restava solo un gruppetto di soldati che volevano fare tardi, probabilmente nella prima serata di congedo da tanto, troppo tempo.

Melina si era ritirata qualche minuto prima, completamente ubriaca, trascinando con sé un attonito Aiacos. Francine l’aveva salutata da lontano, dileguandosi con il suo Manigoldo, prima che il piccolo si svegliasse e reclamasse di nuovo il suo seno.

Agathe l’aveva abbracciata, augurandole buona fortuna, mentre Areia le aveva baciato la fronte, ammonendola a fare attenzione.

Dimitra dormiva beata in braccio a suo padre, quando giunsero alla loro casa dalle persiane azzurrissime.

Un fagotto scomposto giaceva abbandonato proprio di fronte alla porta.

Deuteros portò dentro la bambina, accomodandola nel suo letto, prima di uscire di nuovo, rientrando con un’espressione che rasentava il comico.

“Qualcuno ti ha lasciato una pianta di limoni, con una lettera.” Gliela prose, riluttante, prima di ricordare dove avesse già avvertito quel profumo.

“Eranthe!”, la chiamò come a metterla in guardia, poi ristette, quando vide i suoi occhi pieni di lacrime, la pergamena tra le mani.

E lui, senza domandarle nulla, riconoscendo quel cosmo di fuoco scuro che permeava quelle foglie verdissime, le cinse, protettivo, le spalle tremanti.

Bambina mia.

Ti ho vista stasera, per la prima volta, adesso che la guerra è finita e avrei voluto dirti tante cose, abbracciarti e stringerti al mio seno come quando eri appena nata, poco più di un fagotto di fuoco e latte.

Avrei voluto dirti: ehi sono io, tua madre!

Ma non ne ho avuto il coraggio, non dopo tutti questi anni.

Pianta i limoni vicino alla tua casa: vengono dall’agrumeto del Sommo Hades, così che anche lui possa recarti la sua benedizione, a te e al bambino che porti in grembo, che con te dividerà il cosmo.

Ti porto nel cuore

Erato



Eranthe chiuse la porta alle sue spalle. Una singola borsa di cuoio, graffiato e macchiato, giaceva ai suoi piedi. Le stelle dell’alba erano ancora visibili, mentre Deuteros le stringeva la mano.

Non era necessario partire così presto, ché il viaggio sarebbe durato solo una manciata d’istanti. Ma, da che mondo è mondo, ogni partenza che si rispetti deve avvenire all’alba. Quale momento migliore per cominciare una vita diversa? Quale istante, se non quello che separa mondi ed eventi, sonno e veglia, notte e giorno, tenebra e luce?

Si voltò solo un attimo verso quella casa di bianco e d’azzurro, dove aveva trascorso tutta la sua esistenza, avvertendo un’emozione nuova farle tremare il respiro.

Il sole nascente colorava i muri di quell’arancione che possiede solo il sole della Grecia, così puro ed assoluto da far male.

Un raggio dispettoso si posò sul suo viso, abbagliandola per un attimo.

Poi Eranthe sorrise, la mente verso Kanon, la mano stretta in quella dell’uomo che avrebbe condiviso con lei un pezzo di strada, aprendole il suo cuore, donandole la sua dimora.

Andiamo.

Sussurrò il suo cosmo di stelle roventi.

E lui sorrise, annuendo.

Andiamo.





NOTE:

...e anche questo giro di giostra si è concluso, nella maniera più difficile, poiché tutti sono chiamati a fare un passo, ad andare avanti, che in fondo, è la scelta più coraggiosa da attuare.

Sono stata contenta di riuscire a scrivere una storia che mi ha dato modo di fare i conti con un po' di questioni personali ancora aperte e mi mancano già Eranthe, Agathe e quel microcosmo che ho immaginato e ho voluto condividere.

Innanzitutto grazie a chi ha letto, recensito, inserito la storia nei preferiti/seguiti/ricordati e anche a chi è semplicemente passato di qua.

Grazie a Francine di tutto, di essere stata una editrice con i contro...fiocchi!
Un'Amica come ce ne sono poche, nella vita reale, un faro nella tempesta e un rifugio, in tanti frangenti. Incontrare persone come lei è un privilegio che capita raramente.

Grazie ad _Haushinka e alle sue parole che mi hanno aiutata e commossa.

Grazie ad Athena, che ha subito le mie telefonate ateniesi anche alle due del mattino!

Alla prossima, presto, prestissimo!

  
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