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Autore: Astrid Romanova    03/08/2014    2 recensioni
«Il segreto per non subire la mancanza di controllo è desiderare di non averlo. Se non hai aspettative non hai delusioni, se scegli di non scegliere non puoi mai sbagliarti» [...]
«Lancia una moneta» [...] «Aspetta che ti dica cosa il caso ha scelto per te» [...] «non tirarti indietro».
Io mi tiravo sempre indietro. [...] Mi sembrava tutto vano. E anche se avevo sempre saputo che ogni cosa non viene creata per esistere per sempre, che prima o poi, in un modo o nell'altro, tutto finisce in niente, non mi ero mai resa conto di quanto la parola “effimero” potesse fare paura. Non era solo qualcosa che spariva. Era qualcosa che spariva e ti lasciava con un pugno di mosche. Ma persino le mosche volavano via quando aprivi la mano. [...]
«Credo che dovresti provarci» disse lui all'improvviso, ridestandomi dai miei pensieri.
[...] In fondo aveva ragione. Alla peggio avrei scoperto di non essere pronta, di non essere in grado di vivere in quel modo. Il termine provarci era già di per sé sintomatico di qualcosa da cui non ti aspetti necessariamente una vittoria. Provare non è obiettivo.
«Se non hai obiettivi, qualsiasi meta è un traguardo»
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 8
Never Have I Ever

L'uomo ragionevole si adatta al mondo; l'irragionevole insiste nel tentare di adattare il mondo a sé. Quindi, ogni progresso dipende dall'uomo irragionevole.
-G. B. Shaw

   Forse non era stata una grande idea portarlo al Kitty's. Il rischio di incontrare uno dei miei amici era relativo – non ci andava quasi mai nessuno nel pomeriggio – ma se ero davvero così sfigata come l'universo cercava di dimostrarmi non era da escludere che, proprio quella volta, sarebbe comparso un volto – con un paio di occhi, purtroppo – conosciuto.
   Fatto stava che quel locale era uno dei più distanti dalla galleria fotografica, dettaglio che abbassava quasi a zero la possibilità che apparisse Hamilton.
  «Una rissa di strada, eh?» domandai retorica, osservando Ian da sopra il mio bicchiere. «Posso tirare a indovinare chi l'ha scatenata?».
   Sì, c'era sarcasmo nella mia voce.
   «No, non puoi» mi negò lui tranquillamente. «Ma se lo facessi, ti direi che avresti ragione».
  Interessante. Mi aveva impedito di porre la domanda ma non mi aveva rifiutato la risposta. Forse aveva voluto evitare che affermassi ad alta voce la realtà dei fatti. A nessuno piace sentirsi dire “hai fatto a botte perché il tuo migliore amico è un pazzo scatenato”.
   «In quel caso ti chiederei perché ti ostini a stargli dietro».
  «Be', se tu me lo chiedessi non avrei una risposta facile da darti. Ci sono diversi fattori da considerare, e tu non ne capiresti nemmeno uno».
   Viaggiare per ipotesi non era mai stato il mio modo preferito di comunicare. Era il modo più semplice in cui mentire e il più difficile da sostenere, una volta arrivati ad un certo punto. Accatastare un “se” dopo l'altro finiva solo per confondere le idee. Ma interrompere il discorso in favore di un approccio più diretto avrebbe potuto cementare quello spiraglio che Ian mi stava lasciando intravedere.
   In tutta onestà sarei sopravvissuta anche senza conoscere le ragioni malate che spingevano una persona fondamentalmente regolare a prendersi cura di una completamente squilibrata, ma era inutile far mistero della mia innata curiosità. Se poi si trattava di qualcosa in cui ero stata direttamente coinvolta – per quando marginalmente – la mia indiscrezione non faceva che aumentare.
  Se Ian avesse voluto tenere per sé determinati dettagli o anche l'intera faccenda, gli bastava dirlo. Lo avevo avvertito: “non tergiversare”.
   «Se mi dicessi una cosa del genere mi infastidirebbe, perché tu non hai idea di cosa io posso o non posso capire. Perciò, se fosse quella l'unica cosa a frenarti dal concedermi qualche spiegazione, non avresti scuse plausibili».
   Il mio sorriso spuntò all'improvviso ed era falso come le banconote da tre dollari, uno di quelli che prenderesti a schiaffi senza nemmeno pensarci.
   «Quindi se io ti decessi che per me è come un fratello, che lui è stato presente quando il mio vero fratello è morto e che se ha preso la strada sbagliata è solo perché io non gli ho impedito di prenderla dopo che suo padre si è suicidato, mi diresti che lo capiresti?».
   Oh.
   Insomma... oh.
  Non avrei mai immaginato che in quegli otto anni le cose per lui fossero cambiate così tanto. A dire il vero, non avrei mai immaginato che suo fratello fosse morto. Più precisamente ancora, nonostante la relazione tra me ed Ian, non avevo mai conosciuto suo fratello, né da quanto ne sapevo erano particolarmente legati. Ma che differenza faceva? Quell'episodio doveva averlo distrutto. Forse potevo davvero capire perché avesse sentito il bisogno di legarsi tanto ad un altra persona.
   Ed ecco il motivo per cui, nonostante la mia curiosità, non insistevo mai troppo se mi veniva detto che qualcosa non mi riguardava. La maggior parte delle volte avrei scoperto cose che avrei preferito non sapere, come in quel momento. Non perché non me ne importasse, ma perché non ero mai stata in grado di far capire agli altri la mia... la mia cosa? Quando mi veniva svelato qualcosa di così personale lo assorbivo, lo metabolizzavo e cercavo di non prendermene carico, ma risultavo quasi del tutto insensibile. Non volevo provare compassione, ma non sapevo esprimere qualcosa che fosse simile al dispiacere.
   Non fosse stato per quelle particolari parole.
   Mio padre aveva cercato di addossarsi la colpa per quando ero quasi morta. E come lui mia zia –“è solo perché ho insistito tanto per farvi venire qua” – e mio cugino - “non avrei dovuto dirti di prendere quella strada”.
   Non sopportavo quando qualcuno si assumeva colpe che non aveva. Non era stato mio padre a sbandare conla macchina, né mia zia né mio cugino.
   Non era stato Ian a preparare la prima striscia di Jordan, ci avrei scommesso la testa. Forse avrei prima dovuto dire “mi dispiace”, ma avevo un'altra urgenza.
   «Gliel'hai comprata tu?» domandai.
   Sapeva esattamente di cosa parlavo.
   «No, ma...».
   Non gli permisi di continuare.
   «Gliel'hai tagliata?».
   «No, ma...».
   «Gli hai trovato lo spacciatore?».
   «Ma che diavolo stai...».
   «Gli hai preparato la siringa, la striscia o qualisiasi cosa usi?».
   «No».
   A quel punto il suo tono era molto più secco. Duro, avrei osato dire. O aveva capito dove volevo arrivare o il solo sentirsi porre quelle domande lo innervosiva.
   «Perciò...».
   Questa volta fu lui ad interrompere me.
   «Avrei potuto fermarlo».
   «Come, legandolo a letto? Ammanettandolo al tuo polso così da tenerlo costantemente sotto controllo? E tutto solo per il sospetto  che magari avrebbe potuto fare la cosa sbagliata?».
   Cameron Grayson, professione: eliminare i sensi di colpa. Forse avevo trovato la mia vocazione.
  «Ero lì, capisci? Ero lì mentre lo faceva» sbottò tirandosi in avanti di scatto, come se la riduzione della distanza avrebbe anche potuto velocizzare i tempi in cui la frase mi fosse arrivata alle orecchie. Era irrequieto. Non arrabbiato, solo... non dovevano essere bei ricordi. Aveva perso un fratello e un altro si stava ditruggendo la vita.
   Sì, capivo bene perché si prendeva tanta cura di Jordan.
   «Mettiamo il caso che lo avessi fermato, poi? La prima volta che tu non fossi stato lì con lui avrebbe detto “no grazie”?».
   Rimase a fissarmi col pugno posato sul piano del tavolo e i denti digrignati, forse cercando di contenere la fiamma che si era accesa dentro di lui.
   Non avrei mai immaginato che saremmo potuti arrivare a quel punto. C'erano mille cose di cui si poteva palare dopo essere stati lontani per tanto tempo, eppure noi stavamo parlando di morte, di droga e di senso di colpa.
   Secondo dopo secondo la sua posa rigida iniziò a rilassarsi, i suoi mucoli ad allentare la tensione. In qualche modo doveva aver capito che non avevo tutti i torti, sebbene mi rendevo conto che sarebbe stato impossibile sradicare le sue convinzioni in due minuti di conversazione.
   «Questo non cambia niente» disse stancamente, appoggiandosi di nuovo allo schienale della sedia. «Avrei potuto farlo, lo so. In un modo o nell'altro avrei potuto convincerlo a non iniziare».
   Oh, ma certo.
  «Come, mostrandogli qualche foto di come si riducono le persone come lui? O magari con un bel documentario? O, perché no, partecipando ad uno di quegli incontri per ex-tossicodipendenti, giusto per fargli capire che si sarebbe solo rovinato intraprendendo quella strada? Oppure, no, ci sono: giocando la carta della fratellanza. Implorandolo di tenere duro perché tu gli saresti stato vicino, e che avrebbe rischiato di perdere anche te se non ti avesse dato ascolto? Anzi, ancora meglio! Dicendogli che tu avresti rischiato di perdere lui, e che se ti voleva bene doveva restare al tuo fianco per combattere insieme. Ora sei tu che non capisci, Ian: tutti sanno a cosa vanno incontro quando si abbandonano ad una dipendenza, di esempi ne è pieno il mondo. Ma nelle loro teste i pro, se così li vogliamo chiamare, superano i contro. Vuoi che si renda conto di quanto può perdere continuando su quella strada? Piantala di fargli da cagnolino».
   La domanda era: da dove mi era uscito tutto quel bel sermone da tutor di comunità di recupero? Semplice: avevo sentito una quantità incredibile di discorsi motivazionali. Quando in ballo c'era la convinzione (più o meno oggettiva) di non essere più in grado di fare qualcosa o di non essere stati abbastanza bravi nel farne un'altra, le carezze di conforto servivano solo a farti sentire più inutile. Quello che ci voleva era una sonora strigliata, di quelle che prenderesti a pugni chi ti sta davanti.
   Ian, però, non sembrava aver voglia di alzare le mani, e questo era un sollievo. In realtà sembrava sbalordito: nessuno gli aveva mai fatto discorsi del genere? Be', se tutte le sue conoscenze avevano un carattere affine al suo probabilmente no.
   «Perché...» esordì, stringendo gli occhi, «perché di tutto quello che ti ho detto ti sei soffermata su questo tanto da prendere le parti della strizzacervelli?».
   Bella domanda.
  Mi strinsi nelle spalle, pensando che, alla fine, ero effettivamente risultata insensibile al lutto che lo aveva colpito, non avendo nemmeno espresso un minimo di solidarietà. Non ne ero capace, non lo ero mai stata. Averi voluto, ma non sapevo farlo.
   «Non hai niente da dire sul fatto che ti ho dato del cagnolino?» tentai, sospettosa della sua assenza di reazioni alla mia critica.
  O se ne infischiava splendidamente del mio parere, o sapeva anche lui di essere più una badante che un amico. O entrambe le cose, ora che ci pensavo.
   «Sono per la libertà di pensiero» ironizzò.
   Non voleva rispondermi. Mentre guardavo il quarto rimasto della mia birra realizzai che c'era una quarta opzione da aggiungere alla lista: la mia affermazione gli aveva dato fastidio ma non voleva darmene la soddisfazione. Ma se pensava che innervosirlo mi avrebbe soddisfatta era proprio un coglione.
   «Sai, dovresti...» continuò.
   «Farmi gli affari miei?» lo anticipai, rialzando lo sguardo su di lui.
   «No, parlare con Jordan».
   Lo ammisi, mi stupì.
   «Neanche per idea».
  «Nessuno gli dice le cose come stanno. Se è sano perché è sano, se é fattoperché è fatto. A meno che lui non ti faccia paura» insinuò con un mezzo sorriso.
   Diavolo, sì che mi faceva paura. Quello poteva prendermi e farmi chissà cosa, a me sarebbero rimaste solo le grida. Ma sospettavo che avrebbe trovato il modo di tapparmi la bocca e che le mie reazioni lo avrebbero solo acceso di più.
   «Da dove ti viene il pensiero che potrebbe non farmi paura?».
   «Non so. Non sei mai stata una piagnona, e hai mantenuto il sangue freddo quando hai capito che eri nei guai a stare con lui».
   Perché le persone associavano sempre il sangue freddo alla mancanza di paura? Era solo istinto di conservazione. Quando pensi di essere in una brutta situazione cerchi di tirartene fuori, punto. O lo fai diventando isterico ottenendo l'effetto contrario, o mantieni la calma e ragioni, che è ben diverso dal non avere paura.
  «L'ho fatto perché se mi fossi fatta prendere dal panico avrei peggiorato le cose, perché avevo capito che il tuo amico era pericoloso. E, ora ti stupirò, di solito le cose pericolose mi fanno paura».
   «Ma riesci ad affrontarle».
   «Non fare lo scarica barile. Posso affrontare il pericolo per salvarmi lapelle, non per levare le castagne dal fuoco ad uno che aspetta di vederle bruciate prima di combinare qualcosa».
   Io ero molto, molto seria, ma dalla sua espressione mi pareva che lui stesse solo giocando.
   «Carina la metafora. Appropriata» disse infatti, ignorando elegantemente la mia ennesima critica. «È il tuo modo per dirmi che te ne lavi le mani, dopo tutto il tuo bel discorso?».
   Ero io o nel suo tono c'era un che di accusatorio?
   «È il mio modo per dire che non ho intenzione di assumermi le tue responabilità».
  Si accigliò, quindi prese un sorso di birra senza perdere la sua espressione. Allora, solo allora, sospirò e tornò a guardarmi dritto negli occhi.
   «Lo so».
  Dovetti fare appello a tutta la mia forza di volontà per non spalancare la bocca come un personaggio dei cartoni animati. Cosa, esattamente, avrebbe dovuto significare “lo so”?
   «Ma per essere una che non vuole assumersi le responsabilità altrui ti sei impegnata non poco a ficcare in naso in affari che non ti riguardano».
   Non che potessi dargli tutti i torti. Mi ero intromessa. Ma era stato lui a parlarmi dei suoi “affari”, non l'avevo costretto a fare niente. Era un po' tardi per ritirare la mano, il sasso lo aveva lanciato e io lo avevo preso al volo. E glielo avevo ributtato addosso.
   «Ho solo fatto delle constatazioni. Sei libero di ignorarle, ma rigirare la frittata non le renderà meno vere».
   Lo scontro si protrasse silenziosamente tramire gli sguardi. Non pretendevo che mi desse ragione, ma lui non poteva pretendere che io ne dessi a lui. A quanto pareva il suo senso di colpa era troppo radicato, il che mi spingeva a chiedere da quanto tempo andasse avanti quella storia. Ma, almeno quella volta, evitai di porre la domanda.
   «Dai, chiedimelo» disse lui improvvisamente.
   Dischiusi le labbra e scossi appena la testa, sorpresa. Aveva...
   «Lo so che vuoi chiedermi perché sono così ostinato».
   ...No, non aveva intuito la mia domanda inespressa.
   «In realtà, no» risposi onesta.
   La sua espressione si fece scettica.
   «Allora posso farti io una domanda?».
   Ahia. Non la vedevo bene. Ma come potevo rifiutarmi?
   «Okay».
   Ian ispirò bruscamente, portandosi avanti con la schiena e appoggiando le braccia al tavolo. La mia ansia non fece che crescere.
   «Hai mai perso qualcuno di importante?».
   Fu il mio turno di ispirare con più enfasi del necessario.
   «No» risposi cauta.
   «No» mi fece eco lui, raddrizzando le spalle.
   «Non vuoi perdere anche lui, lo capisco, ma...».
   Mi interruppe.
   «No, non capisci. Se non hai mai perso nessuno non puoi capirlo. Non importa cosa succede, non vuoi, non puoi perdere qualcun altro».
   Hai mai provato a perdere te stesso?
  Fui sul punto di chiederglielo, ma la domanda non uscì dalla mia bocca né volevo che lo facesse. Non sapevo se lui fosse o no a conoscenza del mio incidente, ma non ne aveva fatto parola ed io non sarei statala prima a tirare fuori l'argomento.
   «Hai ragione» ammisi.
  Ne aveva davvero. Immaginavo cosa sarebbe accaduto se avessi perso mio padre. Avrei fatto di tutto per non permettere che qualcun altro potesse andarsene per sempre, a qualsiasi costo. Ma se il prezzo per non perdere qualcuno era lasciare che lui perdesse sé stesso, non c'era più amore o disperazione nel proprio desiderio. C'era solo egoismo.
   «Quindi tu non vuoi perderlo ma ti va bene che si ammazzi con le sue mani».
   «La fai finita?» sbottò, alzando gli occhi al cielo.
  Non sembrava molto scosso dal mio commento fuori dai denti. Probabilmente lo stavo esasperando più di quanto lo stessi impressionando, e il tono accorato con cui aveva parlato fino a mezzo minuto prima era scompraso, sostituito da un tono, be', esasperato.
   «Come vuoi».
   «Grazie».
   Avevamo smesso da un pezzo di dialogare indirettamente, facendo ipotesi invece che affermazioni, ma quel botta e risposta su cui sembrava che ci stessimo incamminando non mi sembrava molto meglio. In ogni caso, la discussione con Ian era stata un disastro per conto proprio, indipendentemente dalla forma che aveva assunto.
   Picchiettai con l'unghia sul vetro del mio bicchiere, ormai quasi vuoto. Non sembrava che avessimo altro da dirci, ma non capivo se la cosa mi dispiacesse o no. Parlare con lui mi aveva distratta, e questo andava bene, ma se io lo avevo esasperato era anche vero che la sua cocciutaggine aveva esasperato me, e questo non andava bene per niente. Non avevamo cavato un ragno dal buco, ma più che un ragno mi sembrava di aver tentato di tirare fuori un mammut da una caverna, un mammut particolarmente testardo. Ero verbalmente esausta e avevo richiato di farmi infilzare da una di quelle grosse, lunghe zanne più di una volta, metaforicamente parlando.
   «Quand'è, esattamente, che sei diventata una donna così frustrata?» mi domandò Ian all'improvviso.
  Grande, adesso dava la colpa alla mia frustrazione per i pessimi risultati della nostra conversazione. Non alla sua pervicacia, no. Alla mia frustrazione.
   «Dall'altro ieri».
   Be', è vero, ero frustrata. Non c'entrava niente col discorso, ma lo ero. E visto che ero convinta che non fosse la causa della mia ostinazione nel cercare di farlo ragione, probabilmente lo era eccome. L'ho detto che ero stata da uno psicologo: se c'era una cosa che avevo capito dalle sedute era che, quando mi sentivo frustrata, per non pensare ai miei problemi mi concentravo su quegli degli altri.
   Però quello era un pessimo momento per rendersene conto.
   «Posso saperne il motivo?».
   «No».
   «Chiaro. Quindi tu puoi sfiancarmi con la tua insistenza ma io non posso avere una risposta ad una semplice domanda».
   «La vita non è equa».
   Finii la mia birra e appoggiai il bicchiere sul tavolo.
   «Su questo siamo d'accordo» ribatté a sorpresa, alzando il suo bicchiere e muovendolo come per fare un brindisi.
   Anche lui lo svuotò e, quando tornò a guardarmi, stava sorridendo.
   E lo stavo facendo anch'io.
   «D'accordo, vediamo se puoi aiutarmi».
  Non gli avrei spiegato la situazione nei dettagli, ma raccontando a grandi linee la mia frustrante situazione sentimentale forse, e avrei sottolineato il forse, Ian avrebbe potuto offrirmi quello di cui avevo sempre bisogno: un punto di vista diverso. Parlare con Hamilton di mia madre, a suo tempo, mi aveva aiutata. Parlare con Ian di Hamilton poteva essermi d'aiuto di nuovo. Bastava che non mi ritrovassi, per chissà quale motivo, a parlare con mia madre di Ian, tanto per chiudere il cerchio.
  Raccontai dunque sommariamente la mia situazione emotiva, tralasciando il perché mi turbasse così tanto e il come mi ci fossi ritrovata. Naturalmente elisi anche sul soggetto che mi rivolgeva le attenzioni, sebbene dubitavo che Ian potesse aver mai sentito parlare di un dubbio fotografo con la passione per la moda in stile tramp.
   «Sarebbe questo il tuo problema?».
   Quella sfumatura di sarcastico scetticismo non mi piaceva granché.
   «Più o meno, sì».
   «Puttanate».
   Putta...
   «Puttanate?».
   «Sì. E non dirmi che non te ne sei accorta anche tu. Sei una palla al piede, ma non sei stupida. Sai già per conto tuo che le tue sono pure e semplici seghe mentali. O, in altre parole, puttanate».
   Non si poteva dire che, quando voleva, Ian non fosse diretto e conciso.
   Ebbene sì, ero ben cosciente che la mia preoccupazione fosse una puttanata, tanto per citare il nuovo Oscar Wilde. Era infondata e infantile, inutile ed esagerata. Ma ripeterselo era un conto.
   Sentirselo dire un altro.
   «Un applauso al tuo intuito» tagliai corto, ironica. «Ora passiamo almotivo per cui ti ho raccontato queste puttanate. Visto che con tanto acume hai capito che so da me quando stupidi siano i miei crucci, vorresti, di grazia, dirmi qualcosa di utile?».
   «Utile? Va bene: cambiati il pannolino».
   Bastardo di un...
   «Prima o dopo averti autato a cambiare il tuo?».
   L'espressione “guardarsi in cagnesco” non rendeva abbastanza bene l'idea dello sguardo d'odio che ci stavamo lanciando. Questo prima che lui stringesse le labbra e che io fossi costretta a mordermi la lingua per non scoppiare a ridere.
   Inutilmente.
   Per due minuti buoni nessuno dei due riuscì a smettere di ridere; ci bastava alzare lo sguardo e incontrare il volto scosso dalle risate dell'altro e, se stavamo per riprendere fiato, ricominciavamo a sghignazzare fino a esplodere di nuovo, tanto che qualcuno, dai tavoli vicini, aveva iniziato a guardarci con perplessità. Per un attimo sembrò che entrambi fossimo sul punto di darci un taglio, ma poi ci guardammo di nuovo negli occhi e fu inveitabile la ricaduta.
   Dopo anni di silenzio e di separazione, eravamo lì, di nuovo a litigare, come se non fosse trascorso un solo giorno. Come se fossimo ancora i due ragazzi che cercavano di tenere a galla un amore affogato da tempo e che, alla fine, ci aveva trascinati sul fondo con lui. Dopo otto anni in cui avevamo avuto entrambi la nostra dose di drammi distruttivi, in cui entrambi avevamo sofferto ed entrambi eravamo cresciuti, eravamo lì, di nuovo a combattere per avere la meglio l'uno sull'altra senza che ci fosse un reale motivo per farlo.
   Quando finalmente fummo in grado di riprendere fiato le risa si trasformarono in semplici sorrisi, finché non si spendero anche quelli.
  Abbassai lo sguardo e l'occhio mi cadde sul suo orologio da polso. Sbattei le palpebre, convinta di aver visto male, ma era impossibile essere certa di ciò che avevo visto da quell'angolazione. Senza pensarci gli afferai il braccio e lo tirai verso di me per poter avere una visuale migliore: no, non mi ero sbagliata.
   «Per la miseria, è già passata più di un'ora!» esclamai allibita.
   «Felice di saperlo, ora mi ridai la mano?».
  Lasciandi andare il suo braccio senza nemmeno provare a chiedere scusa. Se anche avessi voluto farlo, ero comunque troppo concentrata sul fatto che il tempo fosse passato così in fretta.
   «Devi andare?» mi domandò, nascondendo accuratamente la mano sotto il tavolo.
   «No. A dire il vero non ho assolutamente niente da fare per altri trequarti d'ora pieni».
   Lui ricontrollò l'orologio, osservandolo per diversi secondi.
   «Tu?» mi azzardai a chiedere.
Avevo quarantacinque minuti di vuoto prima di poter tornare a casa e fingere di essere stata al corso per tutto il tempo. Certo, sarei potuta rientrare e inventarmi una scusa per una falsa uscita anticipata, oppure essere onesta e avvalermi dei miei ventisei anni per rivendicare la mia autonomia, ma nel primo caso avrei dovuto mentire apertamente – che era diverso dall'omettere la verità – mentre nell'altro sarei stata oggetto di una delle tediose prediche di Andrew Grayson.
   In poche parole, dovevo occupare il tempo che mi rimaneva in qualche modo e, se Ian se ne fosse andato, avrei difficilmente trovato qualcosa da fare in cui non rischiassi di essere beccata a marinare il corso di fotografia.
   «Non nell'immediato».
   D'altro canto l'dea di continuare a litigare non mi entusiasmava, ma c'era da dire che sembravamo esserci dati una calmata. Se solo avessimo evitato argomenti personali limitandoci alla tipica conversazione tra due vecchi “amici”, le cose sarebbero potute andare molto meglio.
   «Vuoi usarmi come distrazione?».
   Non mi serviva ripercorrere il nostro incontro fino a quel momento per sapere perfettamente di non aver nascosto quel dettaglio. In realtà era strano che ci fosse arrivato solo a quel punto.
   O forse l'aveva intuito anche prima ma non gli importava. Forse mi stava usando nello stesso identico modo.
   «Non eri obbligato a venire, non sei obbligato a restare».
   Ci pensò su per qualche secondo.
   «Quindi non te la prenderesti se me ne andassi?».
   Riuscivo a capire la sua volontà di scaricarmi.
   «No».
   Altri attimi di silenzio.
   «Perciò posso scegliere».
   Che diavolo, gli serviva un contratto siglato in cui sottoscrivevo di non minacciare né mettere in pratica ritorsione alcuna ai danni del contraente?
   «Puoi scegliere» lo assecondai.
   Se se ne voleva andare che si alzasse e la facesse finita, per l'amor del cielo. Eppure sembrava ancora pensieroso.
   Si grattò il mento e le sua fronte si increspò per un rapido istante. Sbattè le palpebre, giunto ad una conclusione.
   «Bene, allora: prossimo argomento?».

 
•●•

   La sincerità ha un prezzo.
  Si può essere sinceri in molti modi, ma in ognuno di essi ciò che riveliamo ha un'effetto imprevedibile sugli altri e su noi stessi. Quando porti alla luce un segreto che a lungo è stato tenuto nascosto. Quando racconti la verità su ciò che hai fatto tu o che ha fatto qualcun altro. Quando ammetti una colpa o dici qualcosa di giusto alla persona sbagliata.
  Qualcuno può rimanerne ferito, nel peggiore dei casi in modo irreparabile. Altre volte, più semplicemente, qualcuno si mette nei casini, tu ti messi nei casini. Oppure succede un vero e proprio disastro e, sebbene ne escano tutti indenni, attraversarlo non è come fare una rilassante passeggiata in spiaggia.
   La sincerità ha un prezzo.
   E quando la sincerità diventa un gioco proposto da Chase Kidman, il prezzo è ritrovarsi semi ubriachi nel giardino di casa di Scott Sawyer.
   L'ultima volta che avevo giocato a Never have I ever era al mio primo anno di college, nell'appartamento fuori sede di una delle mie compagne di corso. Doveva essere un modo divertente per fare un po' più di conoscenza, ma prevedibilmente si era trasformato in un disastro di dimensioni cosmiche, dove ognuno era costretto ad ammettere di aver fatto qualcosa che gli altri non avevano fatto o, al contrario, di non aver mai fatto niente del genere. Quel gioco era il modo peggiore per rivelare qualcosa su di sé che si vorrebbe evitare di dire, ma non aveva senso se non si giocava con sincerità. Per questo, probabilmente, alla base di tutto c'era alcol.
   «Non ho mai... fatto il bagno nudo nel mare».
   L'inizio era leggero. Si diceva qualcosa che non compromettesse la propria immagine perché erano tutti ancora troppo, troppo sobri. Ma erano cose abbastanza banali e trovare qualcuno che le avesse fatte era fin troppo facile.
   Io, per esempio.
   Darcey alzò il bicchiere insieme a me, ma non eravamo le sole: la metà dei presenti sollevò il proprio e lo scolò. La fortuna di essere in tanti ad aver fatto qualcosa che qualcuno non aveva fatto era che nessuno si ritrovava costretto a spiegare il come e il perché. Non che fosse un problema rivelare di aver fatto il bagno nuda nel Tirreno, l'estate in cui Darcey – per festeggiare la mia laurea – mi aveva regalato un viaggio in Italia. Ma non tutte le affermazioni erano così innocenti.
   Dopo Wyatt fu il turno di Micah, ma a preoccupare me era il turno di Chase. Lui avrebbe di certo trovato qualcosa che avessi fatto solo io, qualcosa che mi avrebbe messa in totale imbarazzo dover spiegare, perché sapeva troppe cose di me. Stavo cercando di pensare al mio segreto più profondo e oscuro, qualcosa che lui potesse tirare fuori e che, forse, usando le parole giuste avrei potuto contenere.
   «Non ho mai... usato il preservativo».
  Dopo qualche occhiataccia da parte delle donne presenti, Micah si giustificò dicendo che tutte le sue conquiste prendevano la pillola, ma intanto tutti gli altri ragazzi stavano già bevendo. A ben vedere nessuna di noi femmine aveva mai usato direttamente un preservativo, quindi mi sentivo libera di non bere. Meglio evitare quando possibile.
   «Non ho mai... provato una canna».
   Da Scott me lo aspettavo, in fondo. Non era mai stato interessato a quel genere di cose. Forse anche per questo, a suo tempo, mi era piaciuto tanto, tuttavia mi costrinse a bere di nuovo. Altre riminiscenze del college.
   «Non ho mai... fatto sesso con qualcuno più grande di me».
   Questo, invece, non me lo sarei mai immaginata, ma bevemmo tutti tranne Rhonda, la stessa autrice della confessione.
   «Non ho mai avuto un rapporto sessuale da ubriaco o con qualcuno di ubriaco».
   Non avevo nemmeno avuto il tempo di rendermi conto che era il turno di Chase quando lui aveva parlato. Ma, per una volta, aveva fatto il bravo: solo un paio di persone bevvero, tra cui non io.
   Era però ancora presto per cantare vittoria: nessuno aveva stabilito un numero massimo di giri e dubitavo che, avendo solo quello da fare per tutta la sera, avremmo chiuso baracca e burattini con una sola confessione a testa.
   Un paio di affermazioni dopo era il mio turno, ma non sapevo cosa dire. Mi ero concentrata troppo su cosa non dire, ed ora ero a corto di parole.
  «Non ho mai...» mi ci vollero diversi secondi di pausa prima di trovare qualcosa che non fosse pateticamente ridicolo o eccessivamente personale. «...Portato nessuno nel mio letto».
   Più gente di quanta mi aspettassi si astenne dal bere. Quando vidi Chase buttare giù il proprio bicchiere di Gin il mio sguardo volò immediatamente a Darcey, che invece era immobile e guardava il fratello di traverso. Sì, mi era giunta voce delle avventure di Chase, avvenute esattamente al di là della parete della camera da letto di Darcey.
   Io non avevo mai portato nessun uomo del mio letto, mai. In nessuno dei miei letti. Non nel mio letto a casa, non in quello del mio alloggio al campus, non in quello della casa a Montréal, non in quelli degli alberghi italiani. Il posto dove dormivo era territorio sacro, per me.
   Le bottiglie piene di fronte a noi erano ancora tre, più una svuotata solo a metà. Mancava ancora molto alla fine del gioco, ne ero certa. E c'erano ancora troppe cose che almeno uno di noi non aveva fatto e io invece sì. Ma contavo sulla mia naturale propensione a non fare mai niente di troppo audace per sopravvivere alla serata senza finire ubriaca fradicia.
   Nonostante questo, a metà del terzo giro la testa mi girava abbastanza da aver bisogno che le cose mi venissero ripetute un paio di volte, ma a quel punto mancava solo un'ultima bottiglia.
   Ed era il turno di Chase.
   «Non ho mai avuto un rapporto con qualcuno del mio stesso sesso».
   Propendevo a non fare mai niente di troppo audace.
   Ma non significava che non avessi mai fatto niente di azzardato.
   «Sei un bastardo».
   Non potei trattenermi dal dirlo prima di prendere il mio bicchiere e bere. Da sola.
  Com'era prevedibile si levò un'ondata di risate sorprese e commenti increduli. Tutti volevano sapere come, quando e perché era avvenuto il fatto. Eh, be', ero costretta a rispondere, essendo stata l'unica persona a bere. Non ce l'avrei mai fatta se non fossi stata sufficientemente brilla, ma non sapevo se esserlo fosse una fortuna o una sfortuna.
   «E va bene» mi arresi, tediata dalle continue richieste di spiegazioni.
   Non mi restava che lanciarmi nel racconto, cercando quanto meno dievitare i dettagli.
   «Era l'estate del diploma, eravamo in vacanza a Daytona...».
   «C'ero anch'io a quella vacanza!» si intromise Scott.
  Sì, c'era. Ma cosa si era aspettato, che avrei raccontato la mia esperienza a chiunque fosse stato lì con me? L'avevo rivelata a Darcey ed era stata solo una sfortunata serie di eventi a portare Chase a conoscere la storia, ma di certo non avrei riunito il gruppo di fronte a un fuoco in spiaggia per rendere pubblico il mio momento saffico.
   «Sta zitto un po' Scotty» lo riprese Wyatt, che tra tutti sembrava il più interessato.
   Ripresi il discorso.
   «Insomma, c'era questa compagnia di Floridesi con cui abbiamo stretto amicizia, tra cui una ragazza gay. Mi era solo stato riferito da un suo amico che le piacevo, ma la cosa non mi interessava. O almeno credevo. Lei era gentile, era persuasiva, e io ero appena stata scaricata da Ward per un'altra ragazza mentre i miei stavano divorziando. Sapete no? Una cosa tira l'altra e...».
   «E?» mi esortò Wyatt.
   «E nemmeno un litro di alcol potrebbe mai farmi continuare. Avete avuto la vostra risposta».
   Si levarono sentite proteste da una buona parte del gruppo, mentre Chase rideva e Darcey si asteneva dai commenti.
   A giungere in mio soccorso fu Nathaniel che, avendo il turno dopo Chase, richiamò l'attenzione iniziando la sua confessione.
   «Non ho mai...».
   Tutti si zittirono e si concentrarono su di lui. Ormai era più di un mese che abitava ad Hastings, ma rimaneva pur sempre “quello nuovo”, e qualsiasi informazione o novità su di lui risultava fortunatamente più interessante delle mie sepolte esperienze.
   «Non ho mai chiesto perdono ad una persona a cui ho fatto un torto gravissimo».
   Che strana affermazione. Bevemmo tutti – a quanto pareva avevamo tutti combinato qualcosa di grave, ma se non altro avevamo chiesto scusa – senza staccargli gli occhi di dosso, in assoluto silenzio. La sua non era il genere di confessione per quel tipo di gioco. Non che ci fossero delle regole scritte per la moderazione degli argomenti da trattare, ma esisteva una specie di convenzione per la quale, quando svelavi di non aver mai fatto qualcosa, quella cosa doveva essere imbarazzante per te o per gli altri. Non che non aver chiesto scusa dopo aver fatto del male a qualcuno fosse qualcosa di cui andare fieri, ma era qualcosa di... fin troppo personale. Non era una cosa su cui, alla fine, ci si potesse scherzare sopra. Infatti nessuno scherzò, rise o accennò anche solo vagamente a chiedere spiegazioni, sebbene non ne avesse diritto nemmeno secondo una delle poche regole del gioco.
   «Non ho mai fatto sesso in macchina!» esclamò Jaena all'improvviso, per ridistendere l'atmosfera che si era improvvisamente tesa.
  La reazione di tutti fu istantanea: qualcuno bevve – io no – e appena posato il bicchiere domandò come fosse possibile che qualcuno non avesse mai provato l'ebrezza del sesso nell'abitacolo di un auto. A detta loro era “molto intimo”. Io l'avevo sempre immaginato solo molto scomodo, a meno che non avevi una macchina spaziosa a disposizione. Ma fare sesso su una monovolume familiare suonava incredibilmente male.
   Quando finimmo eravamo tutti brilli, ma nessuno davvero ubriaco. Eccetto Wyatt, che a quanto pareva aveva fatto la stragrande maggioranza delle cose che erano state confessate. Non era un problema, visto che restavamo tutti a dormire da Scott, ma trascinare Wyatt fino alla camera da letto del padrone di casa richiese l'intervento di ben tre persone.
   Il resto di noi avrebbe dormito in salotto, chi sul divano chi sui materassini gonfiabili, chi su due strati di sacchi a pelo chi direttamente sul tappeto munito solo di un cuscino e una coperta. Io guadagnai uno dei materassini buttandomici sopra di slancio quando tutti rientrammo in casa di corsa per accaparrarci il posto migliore. Quando, ognuno sdraiato al proprio posto, sentii Rhonda lamentarsi del secondo matrimonio di sua madre con un uomo della metà dei suoi anni, mi tornò improvvisamente in mente la mia conversazione di quel primo pomeriggio con Doug. Gli avevo promesso che avrei tentato di convincere qualcun altro a partecipare alle sue nozze. Tanto valeva introdurre l'argomento in quel momento.
   «Vi ricordate Doug? Bassetto, capelli biondi, aria perennemente persa in un altro mondo... be', è diventato più alto e sta per sposarsi. Siete tutti invitati al matrimonio!».
   Va bene, forse quello non era esattamente introdurre il discorso. Mi aspettai il sollevarsi di un repentino coro di proteste, ma in realtà nessuno aveva capito chi fosse Doug. Ci sarebbe voluto molto più lavoro del previsto, ma mi addormentai mentre pensavo a come fargli ricordare chi fosse Doug Peters.
A dispetto della probabile convinzione di molti di voi, sono ancora viva. E sì, sono sparita per quasi un mese, cosa per cui vi chiedo umilmente perdono. Il lato positivo è che nel mio periodo di silenzio sono riuscita a definire interamente la trama e ho fatto alcune modifiche che hanno accorciato la lunghezza della storia. Vi avevo informati che avrei superato i quaranta capitoli, e così era secondo l'idea originale, ma riguardando il tutto mi sono resa conto che la storia sarebbe proceduta in modo troppo lento. Così ho tagliato di qua e di là, ho specificato questo e quel dettaglio ancora in sospeso e ho diviso la trama capitolo per capitolo. Il risultato è che la storia sarà composta di un totale di ventisette capitoli, ed il rating rimarrà fermo all'arancione. Per un capitolo in particolare ho in realtà dei dubbi, ma quando arriverà il momento ci penserò. 
Intanto vi dico anche che domani andrò in vacanza, quindi a chiunque vorrà lasciarmi una recensione risponderò domenica prossima. Per ora vi lascio, ringraziandovi di essere tornati qui per leggere anche questo capitolo e ringraziando anche chiunque sia appena arrivato e, magari, abbia trovato in The Random Story un racconto che valga la pena di seguire. 

Lunga vita e prosperità,
Astrid
   
 
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