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Autore: EffieSamadhi    08/08/2014    13 recensioni
{Su YouTube è disponibile il trailer della storia: http://www.youtube.com/watch?v=apvuVPBtiug}
Fingi di non avermi mai incontrato, fingi di non essere mai stato attratto da me, fingi di non avermi mai baciata, fingi che la mia presenza non abbia mai toccato la tua vita. [...] Addio, Daria
28 novembre 2013: a Parigi, in una stanza d'albergo, Shannon sente il proprio cuore cadere a pezzi; a Torino, in camera propria, Daria chiude i ricordi in una scatola e li spinge fuori dalla propria vita.
Due mesi più tardi: a Los Angeles, Shannon sta ancora cercando di ricomporsi; a Torino, Daria si sente pronta per ricominciare.
Ma il passato torna a morderti il didietro proprio quando meno te lo aspetti, e per quanto sia dettagliato il tuo piano, non c'è nulla che il destino non possa sovvertire.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Tomo Miličević, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Direzioni ostinate e contrarie.'
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La lunga strada verso casa - 1
Carissimi lettori di “Portagioie di tristezza”,
immagino di dovervi una confessione. Nello scrivere quel fatidico 'capitolo 21', era mia precisa intenzione ferire ogni vostra speranza e mutilare ogni vostro sogno di lieto fine – non perché improvvisamente sia venuto meno in me lo spirito romantico, ma semplicemente perché cercavo disperatamente una ragione per scrivere ancora di Shannon e Daria – perché sicuramente quella storia non sarebbe potuta andare avanti all'infinito, benché la sottoscritta continui ad avere una folle voglia di scrivere di loro.
Confesso di aver scritto di proposito quel finale, confesso di aver intenzionalmente spezzato il cuore di Shannon, confesso di aver volontariamente esposto Daria alla gogna, facendovela a volte odiare, a volte compatire, e a volte (poche) comprendere. Forse non vi consolerà sapere che tutto ciò che è stato fatto è stato fatto in funzione di una nuova storia, ma in un certo senso consola me, che posso tornare a scrivere per persone che mi hanno fatta sentire veramente apprezzata.
Perciò, prima di iniziare, vorrei prendermi un minuto per ringraziare ciascuna delle persone che ha inserito “Portagioie di tristezza” in una delle tre liste – storie preferite, storie da ricordare, storie seguite.
Grazie 7taras, Aandyy, after rain, Aine Walsh, alessandra black, alice 26, Amyvitamia, Arichan4334, arula92, BabyIWillLoveYouForever, Bdb, BlumeinderNacht, Butterfly Dream, Capino, carly cec, Ciambellina, cice ska, Cimma, Closer to the edge, cris leto, CutePoison83, Cuup, DadaOttantotto, dama galadriel, Echelon26, EchelonHR, echelonisfaith, Faith h2o, fede lea90, FediPan, Floki97, Francesx, Fra_BVB Echelon Punk, Fuckthishit, GB Echelon, GiuEchelon3, gradina99, Green Arrow, guardacomemidiverto, hillarysuellen, INGLION, JessyJoy, Kamira, kari87, katherineheat, katvil, LexieEchelonMF, LightCross, LittleDevil98, Love_in_London_night, LysergicAcid, MarsAlbe, MartyRudolf, melany987, meryj, MichelleEarth, Mikal095, miky 483, Mimmi Windsor, miriam504, miss nothing, MissGiorgi, Miyul1976, MolokoVellocet, MoulinRouge89, Muty, Mwoshi, nikkei, Ninriel, nuria elena, opticalspring, piratessa93, Pirilla, Romancer9, saraechelon81, Scarlett La Spring, Shanimalrules, Silvia e Aurora, sleepingwithghosts, so far away, stefaniapisani, strangeronmars, SunshinePol, Tandla, TheBlackStar, Titta91, vahu, vale96, vale mars, Venice93, vittoriabp, Xia1101, zetavengeance, _giumuddafuggaz, _Loki, echelon_.
E poi, naturalmente, un ringraziamento va anche a Kath Redford, che è diventata una dei miei trailermaker preferiti e sarà da me torturata nei secoli dei secoli, amen. I suoi (stupendi) lavori sono ammirabili sul gruppo Facebook Trailer su richiesta :D, dove potete trovare anche il trailer di “Portagioie di tristezza”.
E un ultimo, enorme ringraziamento va anche a Kashmir, che quattro anni fa, passandomi il link di questo sito, sicuramente non immaginava di aver appena creato un mostro.
EffieSamadhi






La lunga strada verso casa






Capitolo primo
Ma chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo.1


Los Angeles, 2 gennaio 2014


    «Che cosa sta succedendo, Jay?»
    Jared mentirebbe, se dicesse che quella domanda lo coglie impreparato: lui e Shannon sono tornati a casa da poco più di dieci giorni e, forse incapaci di restare soli dopo la frenesia del tour e il casino di cui si sono circondati negli ultimi mesi, hanno piantato le tende a casa della madre, raccontandole di non aver voglia di lasciarla sola durante le feste. Ma se sono due uomini intelligenti e con la testa ben piantata sulle spalle, è ovvio che da qualcuno devono aver preso: Constance si è presa tempo, li ha osservati di nascosto, riuscendo a non scoprire mai le sue carte, e alla fine ha capito che quei due nascondono qualcosa. Tuttavia, per qualche strana ragione che riesce ad identificare solo come innata testardaggine, l'uomo tenta la strada dell'indifferenza. «Sto lavando i piatti, mamma» risponde facendo spallucce. Non si volta a guardarla, consapevole che gli occhi lo tradirebbero.
    «Sei un ottimo attore, ma io resto tua madre.» Si appoggia con la schiena al mobile, incrociando le braccia davanti al petto. «Che cosa sta succedendo, Jay?» ripete, abbassando ancora la voce. «C'è qualcosa che non mi dite, e tra noi non ci sono mai stati segreti.»
    Jared sciacqua il bicchiere che tiene tra le mani, indugia su un paio di forchette e poi decide di lasciar perdere. Appoggia le mani sul bordo del lavandino, sostenendo per un istante il peso del proprio corpo con le braccia. Attraverso la finestra sbircia in giardino, dove Shannon sta giocando con il proprio cane2: per ovvie ragioni non può portarlo con sé quando sono in tour, perciò ad ogni ritorno passa ore a recuperare il tempo perduto. «Che cosa vuoi sapere?»
    «Tutto quello che puoi dirmi. Perché tuo fratello è così giù di morale, per esempio. E di conseguenza, perché lo tieni d'occhio come se avessi paura di vederlo sprofondare nel pavimento ad ogni minuto che passa.» Jared trova finalmente il coraggio di voltarsi per guardarla negli occhi, e nel suo sguardo legge la sincera preoccupazione di una madre che non vuole più veder soffrire i propri figli, per quanto cresciuti e pronti a fare le loro esperienze. «So che c'è qualcosa che non va, ma non posso aiutarvi se non mi dici nulla.»
    «Io non ho bisogno di aiuto, mamma. Io sto bene.» Guarda di nuovo in giardino: Shannon sta controllando il cellulare, gesto che ormai ripete ad intervalli regolari di trenta minuti. «Ma lui...» inizia, interrompendosi subito dopo. La voce gli si è incrinata come mai è successo prima, e prima di continuare deve trarre un respiro molto profondo. «Lui non sta bene. Sono preoccupato per lui.»
    «Cos'è successo?»
    «Ha conosciuto una ragazza.»
    «Tutto qui? E da quando conoscere una ragazza vi spaventa?» replica lei con un sorriso. «Chi è? La conosco?»
    Jared scuote la testa. «L'ha conosciuta in Italia, all'inizio di novembre. Si sono sentiti per un po', circa un mese, e poi lei è sparita.»
    «Sparita... in che senso?»
    «Lo ha lasciato e gli ha chiesto di non cercarla più.»
    «Lo ha... lasciato? Stavano insieme?»
    «Mamma, è una storia un po' complicata da raccontare...»
    «Beh, io ho tempo.»
    Un po' riluttante a ricordare tutta la storia che Shannon ha deciso di seppellire e che gli ha chiesto di dimenticare, Jared guarda ancora una volta fuori, per assicurarsi che il fratello sia impegnato e non lo possa così soprendere nell'atto di fare la spia. Torna ad immergere le mani nell'acqua saponata, iniziando a raccontare le cose così come le conosce lui, certo che alla fine del racconto Constance saprà fargli dono di un ottimo consiglio.


*



Torino, 2 gennaio 2014


    Danilo bussa alla porta della camera della figlia, aspettando il suo permesso prima di entrare. «Si può? Volevo chiederti... vuoi che ti accompagni? Sembra che voglia mettersi a nevicare, e la strada fino a casa di Stefano è lunga.»
    «Non ti preoccupare, mi viene a prendere qui» risponde Francesca, finendo di chiudere la zip dello stivale. «Sono contenta che tu non abbia dato di matto quando l'ho portato qui, sai? Pensavo che la cosa ti avrebbe dato fastidio.»
    «Mi ha solo sorpreso un po', ma... no, infastidirmi mai. È la vostra vita, in fondo. Basta che tu faccia attenzione e che ti ricordi che per ogni cosa siamo qui, e a me andrà bene.» Indugia per un istante sulla porta, poi si fa avanti. «Posso... posso sedermi un attimo? Ti vorrei parlare di una cosa.»
    Francesca si sposta un po' per fargli spazio sul letto, infilandosi l'altro stivale. «Se vuoi farmi un discorso di tipo intimo, non ti preoccupare. Ho già parlato con Daria, mi ha fatto una paternale migliore di quella che mi potresti fare tu.» Per ovvie ragioni non ha raccontato al padre proprio tutto di Stefano, ma sa che tirando in ballo la sorella eviterà ad entrambi un profondo imbarazzo.
    «No, no, io... sì, insomma, tua sorella mi aveva detto che ti ha spiegato tutto lei, quindi... sono... sono abbastanza tranquillo. In realtà io... io volevo parlare proprio di Daria.»
    «Ah» è il commento di Francesca, che per non essere costretta a mantenere il contatto visivo si alza e va alla scrivania, iniziando a frugare nel portagioie alla ricerca degli orecchini giusti da indossare. «Perché vuoi parlare di Daria? È successo qualcosa?»
    «Beh, in verità speravo che questo me lo potessi dire tu. Ultimamente è... non lo so, la vedo strana. Non so, forse è soltanto una mia impressione, ma... ogni tanto mi sembra triste, come se qualcosa stesse... la stesse divorando dentro. E allora sai, mi chiedevo se... beh, se magari con te avesse parlato di qualcosa. In fondo siete sorelle, ha sempre avuto più confidenza con te che con me.»
    Francesca si volta, indossando uno degli orecchini scelti. «No, a me non ha detto niente. Insomma, non è successo nulla di preoccupante, che io sappia. Non la vedo neanche così giù di morale, se devo dire il vero. Lei è... lei è Daria, ecco.» Indossa anche l'altro orecchino. «Forse pensi che sia giù di morale perché sono le feste di Natale, e lei nelle feste è sempre stata qui. Sai, tipo... non so, pensi che sia triste perché non è qui.»
    Danilo scuote la testa, tenendo lo sguardo basso e aggrappandosi al bordo del materasso con entrambe le mani. «No, è... è da molto più tempo che la vedo così. Da quando è tornata da Parigi. È diversa, è... non so nemmeno come spiegarmi, accidenti. Non mi sembra la solita, tutto qui. Magari è successo qualcosa in quel periodo. Nemmeno allora ti ha detto niente?»
    «No, non che mi ricordi. E se fosse successo qualcosa di importante me lo ricorderei. Magari è soltanto un po' stressata, no? Sai, tra il trasloco, il lavoro... capita a tutti di essere un po' stanchi, no?»
    «Ma sì, certo... ma sì, probabilmente mi sono sbagliato. Forse è soltanto un po' sotto pressione.» Si alza e posa un bacio sulla fronte della figlia minore, sorridendole. «Scusa se ti ho disturbato, è solo che... io mi preoccupo per voi, lo sai.»
    «E noi siamo felici che tu lo faccia» sorride lei. Segue la sua ritirata e gli chiude la porta alle spalle, e immediatamente il sorriso la abbandona. È passato un mese da quando Daria si è costretta a rinunciare a Shannon, e anche se non ne hanno mai parlato apertamente, sa che la decisione la fa ancora soffrire come un cane. Lei ha saputo il necessario da Alice, e per un mese si è trattenuta a stento dall'urlare in faccia alla sorella che essere la maggiore non la rende la più saggia, perché soltanto una stolta avrebbe dato un calcio alla felicità come ha fatto lei. Si è costretta a tacere, sperando che il segreto potesse essere annegato dall'indifferenza, ma l'incursione del padre le dimostra che i segreti non muoiono mai.
    Il campanello di casa suona, distraendola dai suoi pensieri, e suo malgrado si costringe ad uscire con il sorriso stampato in volto, mentre il cuore somiglia sempre più ad un oceano in tempesta.



*



Los Angeles, 2 gennaio 2014


    «E non l'ha cercata? Non ha fatto il diavolo a quattro pur di riaverla con sé?» domanda Constance, sgranando gli occhi per la sorpresa, ma tenendo sempre la voce bassa. Dov'è finito il mio bambino, quello che combatteva per ciò che desiderava fino allo stremo delle forze?
    «Sono preoccupato per lui» sussurra Jared. «Non si è mai comportato così. Lui... lui è Shannon, ecco. Lui è uno schiacciasassi, è uno che non si ferma mai davanti a niente. Lui non è così, lui non è un...» Si blocca prima di dire la parola che stava pensando. Non può sopportare di ridurre il fratello ad una simile descrizione.
    «Stavi per dire debole
    «Lo so che i concetti di forza e debolezza sono relativi, ma è innegabile che lui sia sempre stato uno forte. Niente è mai riuscito ad abbatterlo.»
    «Proprio niente non direi» lo corregge Constance, abbassando lo sguardo. Jared la imita, ricordando quel periodo buio e nero di molti anni prima, quell'abisso in cui anche loro sono precipitati, quel lunghissimo anno in cui nessuno dei tre sentiva di poter tornare a vedere la luce. «Forse ha solo trovato una persona più forte di lui. C'è sempre qualcuno più forte di noi, là fuori.»
    «Non Daria» ribatte lui, voltandosi a guardarla. «Insomma, lei non... lei non sembrava affatto una persona forte. Lei sembrava... sembrava sempre così fragile. Personalmente, la prima volta che l'ho incontrata ho creduto che si sarebbe dissolta se solo l'avessi guardata
    «Ci sono persone che sono molto brave a dissimulare il loro vero io. Tu sei un attore, questo dovresti saperlo.»
    «Lo so, però... non lo so, forse non riesco ad accettare che qualcosa possa sconfiggerlo. È il mio fratello maggiore, no? L'ho sempre visto come un'icona, un modello, un eroe! È come se Lex Luthor riuscisse finalmente ad uccidere Superman. È impossibile da credere, e la sola idea fa male da morire
    «Che cosa ne dice lui? Insomma, come sta affrontando la situazione?»
    «Non dice nulla. E non fa nulla. Tranne controllare il cellulare ogni mezz'ora per vedere se lei lo ha cercato. So che lo fa, ma lui non lo ammetterebbe nemmeno sotto tortura.»
    «Chi è che non farebbe cosa sotto tortura?» Presi dalla conversazione, entrambi si sono dimenticati di controllare il giardino, e Shannon li sorprende insieme proprio sul finire dell'ultima frase.
    Per fortuna Constance ha sempre coltivato l'arte dell'improvvisazione, e con un sorriso riesce a salvare la situazione. «Tuo fratello è sempre il solito. Dice che non inizierà ad usare la lavastoviglie nemmeno sotto tortura, ma quando avrà l'artrite correrà da me a cercare conforto e io mi divertirò da morire a dire 'Te l'avevo detto'. Com'è il tempo fuori?»
    «Non così male. Si è alzato un po' di vento, ma siamo ancora nella media. Mi mancava l'inverno californiano» aggiunge Shannon con un sorriso, accarezzando la testa del cane, che si è drizzato sulle zampe posteriori e continua ad annusargli le mani alla ricerca della pallina con cui stavano giocando poco fa.
    «Sapete, mi è proprio venuta voglia di un gelato» esclama lei all'improvviso, guardando entrambi i figli.
    «Mamma, Natale è passato da una settimana» le fa notare Jared. «Va bene che siamo nella terra dell'eterna estate, ma non ti sembra di esagerare?»
    «Oh, se non sarà un gelato sarà un frappé. Comunque ho voglia di andare a fare un giro. Venite con me? Scommetto che anche Bruce ha voglia di uscire» aggiunge, accarezzando a sua volta il cane. È stato Shannon ad andare al canile per sceglierlo, ma è stata lei a decidere il nome, pretendendo che si chiamasse come quello che secondo lei è uno dei più grandi musicisti statunitensi. «Quando non ci siete andiamo a fare un giro in spiaggia quasi tutti i giorni, scommetto che gli manca da morire. È quasi una settimana che non ci andiamo. Che ne dite?»
    «Se è per fare contento Bruce...» sorride Shannon, facendo spallucce.
    «Jared?»
    Jared intercetta lo sguardo della madre, e quello, unitamente al fatto che abbia usato il suo nome di battesimo, gli fa capire le vere intenzioni di Constance: lo ha invitato, ma vuole che rinunci, dandole così l'opportunità di passare un po' di tempo sola con Shannon, per tentare di tirargli fuori quelle parole che il fratello non sarebbe mai tentato di pronunciare in sua presenza. «No, andate pure senza di me. Io devo chiamare Emma, abbiamo un po' di lavoro da sbrigare.»
    «Poveraccia, non la lasci in pace nemmeno durante le feste» lo prende in giro Shannon, spostandosi nell'ingresso per cercare il guinzaglio di Bruce. «L'hai chiamata anche a Natale?»
    «Certo, per farle gli auguri!» replica Jared, asciugandosi le mani e rivolgendo uno sguardo d'intesa alla madre, che segue Shannon per infilarsi la giacca e le scarpe. «Copritevi bene, che gira un sacco d'influenza. Non voglio convivere con i vostri microbi.»



*



Torino, 2 gennaio 2014


    «Daria, ti devo parlare. Quando hai finito puoi venire un attimo di là?» Marco scompare nel retro, e io resto come pietrificata. Ti devo parlare è una frase pericolosa e carica di significati negativi: quando mai al Ti devo parlare segue qualcosa di buono? Ho visto abbastanza film e letto abbastanza libri da parlare con cognizione di causa, e sono così certa della mia teoria che le gambe hanno iniziato a tremare non appena ho sentito Marco pronunciare quelle tre fatidiche parole. Cerco di svolgere i miei doveri con la solita calma e concentrazione, ma non è affatto facile: allo scoccare delle sette spengo le luci, chiudo i conti, scollego la cassa e volto il cartello da 'Aperto' a 'Chiuso'. Dopodiché cammino fino al retro, restando ferma sulla porta in silenzio per qualche minuto con lo sguardo fisso su Marco, quasi come se non mi andasse di stargli troppo vicina.
    Marco è, come Jared, uno di quegli uomini per cui il tempo sembra scorrere in modo diverso, più lentamente rispetto al resto del mondo: lo conosco da cinque anni, e se non fosse stato lui a rivelarmi la sua vera età, nemmeno in un milione di anni avrei creduto che fosse così vicino alla soglia dei quaranta. Negli ultimi mesi, però, le preoccupazioni legate al lavoro – la crisi economica, in generale, e la pigrizia di Carlotta, in particolare – sembrano averlo allontanato dalla linea della trentina, quella su cui era assestato ormai da tempo, per avvicinarlo finalmente alla maturità. «Marco, io ho finito» dico, consapevole che il mio è praticamente un sussurro strozzato, più che una frase vera e propria.
    Nel sentire la mia voce si toglie gli occhiali e appoggia i libri che stava esaminando sulla scrivania, per poi venire verso di me a passo lento. Il primo pensiero, per quanto lo ritenga impossibile, è che stia per farmi delle avances. «Daria, io ti devo parlare di una cosa importante. So che sei una ragazza intelligente, dunque sarà molto più facile farti capire quello che sto per dire.» Dal tono con cui mi parla, serio e grave, capisco che posso scartare l'ipotesi che ci stia provando – ma questo non fa diminuire la mia paura. «Immagino ti sia accorta che in questo ultimo periodo le cose non sono andate bene come un tempo.»
    «Sì, un lieve calo nelle vendite c'è stato» rispondo. Non sono un'ingenua, so bene che, un po' per la crisi e un po' per i nuovi modi di leggere, sempre meno gente si concede il lusso di un buon libro. «Mi sono accorta che non vendiamo bene quanto cinque anni fa, ma non mi sembra nemmeno che siamo sull'orlo del tracollo.» O forse sì?
    «Ecco, quello che volevo dirti è che io ho dovuto prendere una decisione importante. Insomma, con i guadagni minori e il giro d'affari che cala, io... io non mi posso più permettere di pagare due stipendi.»
    Improvvisamente mi sento come se mi avessero appena colpito in pieno stomaco con una palla da demolizione, e non sono sicura di conoscere la legge fisica che mi permette di stare con i piedi ancorati al terreno nonostante tutto – né, soprattutto, quella che mi permette di stare ancora in piedi in generale. Non ho bisogno di sentire altro: Marco mi sta licenziando. Mi sta licenziando, e non posso accettarlo. Non dopo aver lavorato per lui per cinque anni interi, non dopo aver svolto ogni compito che mi assegnava, non dopo essermi dimostrata, per sua stessa ammissione, 'la miglior commessa che abbia mai avuto'. Ma soprattutto, mi rode il fatto che stia licenziando me invece di Carlotta, la donna più pigra, sciatta e ignorante che abbia mai conosciuto. «Tu non puoi licenziarmi, Marco» riesco a dire infine, tenendo il tono basso. «Tu non puoi licenziarmi!» esplodo subito dopo, incapace di tenermi dentro la rabbia e la frustrazione. «In questi ultimi cinque anni non ho fatto che vivere e respirare per questo posto, ho fatto tutto quello che mi chiedevi, ho fatto un mucchio di straordinari senza mai chiederti nulla, ho coperto i turni più assurdi, ti ho sostituito alle fiere, ti tengo in ordine l'archivio, ci manca solo che ti lavi le mutande! E mi licenzi per tenerti Carlotta? Quella non sa nemmeno scrivere il suo nome, per la miseria!» Adesso sto deliberatamente urlando, ma non mi importa: ho passato tutta la vita a lasciarmi scivolare addosso dolori e ingiustizie, e ne sono stufa. E poi ho sempre considerato Marco come un amico, oltre che un capo, e non posso credere di aver riposto tanto male la mia fiducia... proprio io, che impiego così tanto a concederla. «No, sai cosa ti dico? Tu non mi licenzi. Me ne...»
    Non faccio in tempo a finire la frase che mi afferra le spalle, trattenendomi davanti a lui. «Ma che hai capito? Dio, volevo farti stare un po' sulle spine, ma tu ci sei cascata con tutte le scarpe... è Carlotta quella che ho licenziato. Carlotta, capito?»
    «C-carlotta?» balbetto, senza capire.
    «Ho licenziato Carlotta» ripete, a voce più bassa. «Scusa, volevo prenderti in giro, ma non credevo che la prendessi così...»
    «Scemo!» esclamo, spingendolo via. «Ti sembrano scherzi da fare?» aggiungo, dandogli un altro spintone. E lui che fa? Lui ride. Ride, e il suo volto torna ad essere quello del Marco che cinque anni fa mi ha assunto, quello del Marco spensierato e allegro che mi ha sempre trattata da pari. «Mi sono spaventata, sai?»
    «Scusa, ma la tentazione di prenderti un po' in giro era troppo forte. E poi avevo bisogno di ridere un po'» aggiunge. «E se posso dire la mia, anche tu sembri avere bisogno di divertirti, quindi ti darò un motivo per ridere. O per sorridere, almeno. Ti ho dato un aumento.»
    «Cosa?»
    «Niente di speciale, sono solo cento euro. Però ho pensato che potessero farti comodo.»
    «Certo che mi fanno comodo. Mi fanno molto comodo. Comunque non credere di cavartela così a buon mercato. Resti un cretino.»
    «Lo prenderò per un complimento. Senti, hai da fare stasera? Pensavo che potremmo andare a mangiarci qualcosa. Così, per festeggiare. Che ne pensi?»
    Fingo di rifletterci su per qualche secondo, mentre in realtà ho già deciso. «Ci sto. Ma solo se mi offri la cena. Con la sincope che mi hai causato, direi che è il minimo.»
    «Cosa? Ma se ti ho dato l'aumento contando sul fatto che avresti offerto tu...» mi prende in giro. «Dai, prendi le tue cose. Cinese?»
    «Cinese, va bene.»



*


Los Angeles, 2 gennaio 2014


    Bruce mi restituisce il bastoncino e mi strofina il naso umido contro i jeans, facendomi capire che vuole continuare a giocare – so che è soltanto un animale, e che secondo molte persone gli animali non hanno sentimenti umani, ma da quello che ho visto in questi giorni proprio non si direbbe che quel cane non abbia un che di umano. Dal modo in cui mi sta sempre appiccicato, senza mollarmi mai, nemmeno quando dormo, si direbbe che abbia davvero sofferto per la mia lontananza, nonostante sia certo che mia madre non gli abbia mai fatto mancare nulla. Ma d'altra parte, anche a me è mancato lui, nonostante la vita piena e i mille impegni. Torno a lanciare via il legnetto e lo guardo partire all'inseguimento con uno scatto che nemmeno Usain Bolt saprebbe fare.
    «Sai, credo che tu gli sia mancato» sorride mia madre, guardandolo allontanarsi. «Quando non ci sei, a volte la sera si intristisce. Se ne sta tutto solo in un angolo come un cucciolo abbandonato. All'inizio non sapevo che fare quando gli succedeva.»
    «E poi l'hai scoperto?»
    «Mi sono dovuta ingegnare, ma sono riuscita a trovare il modo di farlo sentire meglio.»
    «Ah, sì? E come?»
    «Gli facevo ascoltare Convergence. Non so, era come se sapesse che l'avevi scritta tu. La ascoltava e... non lo so, stava meglio. Certo, i primi tempi dovevo fargliela ascoltare a ripetizione, anche dieci o quindici volte. Per fortuna i vicini sono lontani.» Continuiamo a camminare, mentre Bruce annusa la sabbia e si guarda intorno, come esplorando l'ambiente. «A volte sembra quasi umano, sai? Insomma, forse è solo la fantasia di una vecchia e sciocca signora sola, ma... a volte mi sembra di avere un altro figlio. Bisogna dargli da mangiare, fargli il bagno, mandarlo a dormire, coccolarlo, consolarlo quando è triste...»
    «Non sei una vecchia e sciocca signora sola» replico, stringendole le spalle in un abbraccio. «E poi sei stata un'ottima madre. Perché non dovresti essere anche una brava dogsitter?» aggiungo, schioccandole un bacio sulla tempia.
    «Sai, essere un genitore è un lavoro che non finisce mai. Essere una madre, poi, è ancora più difficile. Inizia quando scopri di essere incinta e finisce solo quando muori. O forse non finisce nemmeno lì, non lo so.» Alza la mano libera per stringere quella che le tengo sulla spalla, e in quel semplice contatto leggo – io, che non sono mai stato un asso a capire le persone – che c'è qualcosa di cui mi vuole parlare. «Insomma, non importa che tu e Jared abbiate quarant'anni suonati e stiate andando per la vostra strada, io... io continuo a preoccuparmi per voi.»
    «Ma tu non devi preoccuparti per noi, mamma. Siamo perfettamente in grado di badare a noi stessi» tento di tranquillizzarla, pur sapendo che il mio tono manca di convinzione – e se anche la convinzione ci fosse, non posso dimenticare che lei è mia madre, e riuscirebbe a smascherare le mie bugie anche bendata.
    «Mi piace pensare che siate forti e imbattibili e che il mondo non vi possa ferire. Mi piace pensarlo, davvero, però... però lo vedo che c'è qualcosa che ti sta mangiando dentro, Shannon. Lo vedo da quando siete tornati. Ce l'hai scritto in faccia che qualcosa non va. Non so che cosa sia, ma è chiaro che qualcosa... qualcosa ti sta mangiando dentro» ripete, voltando il viso verso di me.
    Le mie dita scivolano via dalla sua stretta e il braccio le lascia le spalle. Prendo il bastoncino che Bruce mi sta di nuovo porgendo e lo lancio ancora, sapendo di farlo senza troppa energia. «Hai parlato con Jared, vero? Che cosa ti ha detto?»
    «Non prendertela con lui. Ho dovuto pregarlo per farlo parlare, e tu sai quanto detesti le suppliche.» Sento che un breve sorriso mi muove le labbra, perché se ci sono due cose che mia madre non sopporta sono le suppliche e le falsità – e se mio fratello l'ha costretta alle prime, per tutto questo tempo io l'ho sottoposta alle seconde. «Mi ha raccontato della ragazza che hai conosciuto in Italia. Mi ha detto della vostra... della vostra storia, se vogliamo definirla così.»
    «Non è che possiamo proprio definirla relazione. Non abbiamo mai parlato concretamente della possibilità di stare insieme. Insomma, non... non abbiamo mai dato definizioni. Non era la mia ragazza.»
    «Forse non ufficialmente, ma tu l'hai amata. Lo so, Shannon, so che l'hai fatto. Ti conosco, so che non concedi facilmente il tuo cuore, ma se davvero le cose stanno come dice tuo fratello, io... io credo che tu l'abbia amata profondamente. E credo che tu la ami ancora, nonostante tutto» aggiunge, abbassando la voce.
    «Credevo di amarla, ma ho soltanto preso un abbaglio. Può succedere di sbagliare.»
    «Non a te, però. Né a te né a Jared. Se c'è una cosa che sono felice di avervi insegnato, è il valore di concedere il proprio cuore con giudizio.» Tace, forse aspettando una risposta che non sono in grado di fornirle. «Io ho sbagliato molte volte, ti assicuro che so di che cosa sto parlando. Ho sempre creduto di non aver avuto abbastanza amore, e così l'ho sempre cercato nei posti sbagliati, finendo spesso ferita. Se potessi mostrarti il mio cuore, perderesti il conto delle cicatrici. Questa è una cosa che a te e a tuo fratello non può succedere. Voi sapete che cosa state cercando, e sapete anche dove cercarlo. Questo è il vostro vero talento.»
    Bruce si avvicina per l'ennesima volta, e dopo essere stato per l'ennesima volta al suo gioco mi fermo, i piedi ben piantati nella sabbia umida. «Se potessi mostrarti il mio cuore, ti stupiresti nel vedere quanto è profonda la mia cicatrice» sussurro, sapendo che se non serrassi forte le labbra potrei ricominciare a piangere, esattamente come a Parigi.
    «Se brucia ancora così tanto, significa che a lei tenevi. E se a lei tenevi così tanto, forse significa che non dovresti rinunciare. Non dovresti gettare la spugna senza lottare.»
    «Lottare...» ripeto in tono sarcastico. «Io avrei lottato, mamma. Avrei lottato, credimi. L'hai detto tu, mi conosci, sai che l'avrai fatto. Ma è stata lei a... mi ha chiesto di non cercarla. Mi ha chiesto di dimenticarla. Mi ha chiesto di fingere di non averla mai incontrata. Mi ha chiesto di non lottare
    «E tu le hai dato retta? Da bambino faticavi ad obbedire a me che sono tua madre e improvvisamente cedi alle richieste di una ragazza che conosci da un mese?» Il suo tono è decisamente incredulo, ma la cosa non mi stupisce: so che non riesce a credere che io – io, un uomo noto per non essere mai sceso a compromessi – abbia accettato di buon grado una simile situazione. Non riesce a credere che sia rimasto zitto e buono in un angolo ad accettare di passare il resto della vita a leccarmi le ferite – sinceramente, a volte non riesco a crederci nemmeno io.
    «Era l'unica soluzione possibile» rispondo, citando senza volerlo la lettera di Daria. Qualunque altro uomo probabilmente l'avrebbe distrutta e dimenticata, ma io non ci sono riuscito: l'ho conservata, e la rileggo un giorno sì e l'altro no, tanto per non dimenticare il dolore – so che è da masochisti indugiare in una simile pratica, ma ho paura che se mi liberassi di quei due pezzi di carta finirei per dimenticare, e io non voglio dimenticare. Per quanto sia stato doloroso, per quanto il cuore continui a bruciare come stretto da una morsa rovente, io non voglio dimenticare. «So che sembra crudele da parte sua, ma... l'ha fatto per il nostro bene. Sarebbe comunque finita, e lei non ha voluto prolungare l'agonia.»
    «Smettila di parlare come un manuale d'istruzioni, per favore!» esclama, alzando gli occhi al cielo. «Non esistono due relazioni uguali, e sicuramente non si può conoscere in anticipo il destino di una storia. Va bene, forse sarebbe finita, ma chi può dirlo con certezza? Non ci avete nemmeno provato! Avreste potuto avere un futuro felice. Il punto... il punto è questo: avreste potuto avere un futuro, in barba a tutti quelli non ce l'hanno fatta. E se fosse finita... va bene, forse è vero, forse avreste sofferto come cani, ma vi sarebbero comunque rimasti i ricordi. I ricordi sono... i bei ricordi sono una delle cose più importanti che abbia l'uomo, sono... sono una delle poche cose che ti impediscono di non affondare nei momenti bui, sono una delle poche cose che ti impediscono di non crollare quando tutto il mondo sembra esserti contro. Così tu... tu... che cosa avrai, quando arriverà un momento in cui ti sentirai con le spalle al muro? Ti aggrapperai a quei pochi ricordi che hai di lei? Avresti potuto avere molto di più, e lo sai. Potresti avere di più.» Impiego qualche secondo per riprendermi da quella che è una vera e propria aggressione, ma quando apro la bocca per ribattere lei mi interrompe: «Va bene, adesso mi calmo. Non sono affari miei, in fondo. È vero, sono tua madre, ma tu sei un uomo adulto. Sei adulto e puoi gestire la tua vita senza il mio intervento. Sarò sempre pronta ad ascoltarti e ci sarò se mai dovessi avere bisogno di aiuto. E perdonami per quello che sto per dire, ma... in questo momento mi sembra davvero di aver cresciuto un idiota.» Ricaccio in gola le poche parole che avevo pensato di dire e resto fermo a fissarla con la bocca spalancata. «Adesso è meglio che ritorni a casa. Sta iniziando a fare freddo.» Si allontana lungo la spiaggia con le braccia conserte, stringendo ancora il suo bicchiere colmo di té.
    La guardo andare via senza dire una parola, e senza riuscire a muovere un muscolo. Bruce, che sentendoci discutere ha rizzato le orecchie, guarda entrambi con aria confusa, apparentemente senza capire chi dei due sia più conveniente seguire. Mi siedo sulla sabbia, guardando fisso verso l'oceano, e in quel momento sceglie di raggiungere me. Lascia cadere il legnetto accanto ai miei piedi, ma comprendendo che il tempo dei giochi è finito si stende senza un fiato, appoggiando il muso sulle zampe con un fare che definirei a dir poco sconsolato. Lo fisso per un istante, poi torno a guardare davanti a me; mi porto il bicchiere alle labbra e bevo un sorso di caffè, senza riuscire a gustarlo appieno. Mi ferisce aver discusso con mia madre, ma non mi ferisce il suo ultimo commento: so che ha ragione, so che sono davvero un idiota, perché solo un idiota smidollato si comporterebbe come mi sono comportato io – o meglio, solo un idiota smidollato non farebbe nulla, come ho fatto io. Solo un idiota rimarrebbe seduto a sperare che il dolore svanisca, e soltanto un idiota continuerebbe ad alimentare quello stesso dolore con piccoli gesti come rileggere una lettera di addio o riguardare le fotografie che lo ritraggono insieme a quello che capisce essere l'amore più grande della sua vita. Solo un idiota farebbe questo – e siccome questo è tutto quello che riesco a fare, significa che mia madre ha ragione, e io sono un idiota di proporzioni elefantiache.



*



Torino, 2 gennaio 2014


    «Dimmi che stai scherzando di nuovo, ti prego» è l'unico commento che riesco a fare quando la cameriera appoggia davanti a Marco il riso alla cantonese che ha ordinato. «Siamo al cinese, niente posate.» Gli sfilo la forchetta dalle mani, gli requisisco il coltello e consegno tutto alla ragazza. Poi, per sicurezza, le restituisco anche le mie. «Non ci serviranno, grazie» le spiego, consapevole del fatto che mi stia guardando come se fosse certa di avere davanti agli occhi una pazza scriteriata.
    «Ma io non le so usare le bacchette!» protesta lui, agitandomi i legnetti davanti agli occhi.
    «Beh, c'è sempre una prima volta, no? E comunque sei stato tu a proporre il cinese, quindi puoi prendertela soltanto con te stesso» aggiungo, pinzando un raviolo al vapore e soffiandoci sopra per evitare di ustionarmi la lingua. «Su, datti da fare.»
    «Ma è riso!» protesta ancora, guardandomi con una vera e propria espressione da cucciolo bastonato.
    «Problema tuo.»
    «Sei crudele, lo sai? Forse dovrei revocarti l'aumento, così non rideresti più così tanto.»
    «Dai, vieni qui» lo incalzo, rimettendo nel piatto il mio raviolo e prendendogli la mano. «Ecco, devi mettere le dita così» gli spiego, guidandolo passo passo nell'impresa. «Tieni ferma la bacchetta inferiore e muovi soltanto quella superiore. Apri la forbice, pinzi, chiudi la forbice e tiri su.» Mentre lo guardo fare un primo, goffo tentativo, alla mia mente si affaccia un chiarissimo – e, inutile dirlo, dolorosissimo – déjà-vu: in un istante mi rivedo seduta su uno sgabello al bancone della cucina di casa mia, davanti ad un piatto di spaghetti al pomodoro e al sorriso di Shannon, che mi prega in tutti i modi per avere un coltello con cui sminuzzare la pasta. Cerco di non pensarci, di concentrarmi su altro e di proseguire la cena, ma quell'immagine sembra non avere intenzione di abbandonarmi. Abbasso la testa e fingo di grattarmi la fronte, tentando di celare gli occhi, che so essere tristi e quasi colmi di lacrime, ma non riesco ad ottenere nemmeno un barlume della naturalezza che bramavo.
    «Ehi, che succede? Ho detto qualcosa che non va?»
    «No, no, non ti preoccupare, è solo che...» Incerta su come proseguire, decido di affidarmi alle bugie, che mai come in questo periodo mi sono risultate utili. «Durante le feste sono sempre un po' triste. Sai, mi viene da pensare che le feste si passano in famiglia, e... ripenso sempre a mia madre.» Durante tutti questi anni in cui ho lavorato per lui, mi è successo di raccontargli dettagli della mia vita, tra cui l'abbandono di mia madre, perciò non ho bisogno di spiegargli nulla di più. Mi sento malissimo all'idea di mentirgli a questo modo, ma d'altra parte non è vero che non penso a mia madre, di tanto in tanto, e a quanto sarebbe stata diversa la mia vita se lei non avesse deciso di arrendersi.
    «Posso capire. O meglio, posso... provare a immaginare. Però secondo me non dovresti lasciare che questo ricordo ti avveleni così il sangue. Insomma, lei se n'è andata, e ormai sono passati tanti anni... tu hai comunque una famiglia, anche se lei non ne fa parte. Non hai motivo di intristirti. Hai qualcosa di speciale, qualcosa che è solo tuo e che nessuno ti può portare via.» Conclude con un sorriso, ed è qui che capisco che non sarà mai soltanto un capo, per me: mi vuole bene, in fondo, e come ogni amico è sempre pronto a dire una parola gentile, a dare un consiglio, e a sostenermi quando sto per cadere.
    «Ma sì, hai ragione» decreto, alzando gli occhi con un sorriso. «Non roviniamoci la serata, dai. Forza, muoviti con quelle bacchette. Non voglio invecchiare qui dentro!»



*



Los Angeles, 2 gennaio 2014


    Sono rimasto seduto sulla spiaggia per ore, senza rendermi conto del tempo che passava – e, per la prima volta da quando sono tornato a casa, senza controllare il telefono ogni mezz'ora. Ho passato ore guardando l'oceano, cercando di riflettere su quale sia la cosa giusta da fare, senza trovare una risposta. Mi risveglio dal mio torpore soltanto quando Bruce mi sfiora la coscia con il naso, chiedendomi attenzione. «Ehi, bello... che c'è? Vuoi tornare a casa?» In risposta, lui abbaia e indica il cielo con il muso. Guardo in su, e mi accorgo dei nuvoloni che hanno coperto il celeste. «Sì, direi che sta per piovere. Meglio se torniamo a casa, vero? Su, andiamo.» Mi alzo e mi incammino, tallonato da lui – che però torna indietro dopo pochi passi. Mi volto per controllare che diavolo stia facendo, e mi rendo conto che è tornato sui suoi passi soltanto per riprendersi il bastone. «Ma da chi diavolo sei posseduto, me lo spieghi?» gli domando, abbassandomi per agganciargli il guinzaglio al collare. Gli accarezzo la testa, forse aspettando che mi risponda, e poi riprendo a camminare.
    La pioggia ci sorprende per strada, ma nessuno dei due fa in modo di accelerare il passo: continuiamo a camminare lentamente, senza fretta, come se sapessimo che nessuno si preoccuperà per la nostra assenza – anche se questo non è del tutto esatto. O forse, inconsciamente spero che la pioggia lavi via tutte le mie pene, tutto il mio dolore, tutto questo senso di vuoto che sento dentro, e del quale credo non riuscirò mai a liberarmi. In uno slancio di estremo sentimentalismo – o di estrema idiozia, non riesco a capirlo – mi chiedo se si possa morire per un cuore spezzato: perché se fosse possibile, probabilmente io sto già morendo – e così lentamente da non riuscire nemmeno ad accorgermene.



1Ma chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo. | Il titolo del capitolo è ispirato ad una frase contenuta nel romanzo Emmaus, di Alessandro Baricco.
2Shannon sta giocando con il proprio cane. | Mi pare che un tempo Shannon avesse un cane, uno splendido husky di cui mi sfugge il nome, purtroppo poi venuto a mancare (se qualcuno avesse notizie al riguardo, non si faccia problemi a farsi avanti ed illuminarmi). Non so se abbia avuto altri animali domestici, ma al fine della storia ho voluto inserire un nuovo cane, un Border Collie Australian Red (praticamente il cugino rosso del cane Infostrada =D).
   
 
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