Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: _Kore    28/12/2014    1 recensioni
[Una storia di Agnes Dayle, Emily Alexandre e Lyra Winter]
Chi non conosce il mito di Persefone? In questa storia, però, non siamo nell'antica Grecia e non si parla nemmeno di Dei. In questo racconto siamo in una New York che attraversa tre epoche diverse: il 1920, il 1969 e il 2013. Persefone, poi, ha tre volti differenti: Maia, la beniamina delle serate alcoliche in barba al Proibizionismo; Merope, l'eterea pupilla estranea al mondo underground degli anni sessanta e Taigete, energica figlia pronta a guidare una grande società.
La loro esistenza, in quell'Olimpo che è stato creato da chi le ha precedute, sembra perfetta, ma basta un nulla perché il gelo dell'inverno faccia breccia in quella perenne estate. In effetti, basta un incontro: lui è Ade, che ha un unico scopo - sedurre Persefone e attrarla nel suo mondo - e tre arti differenti per realizzarlo: la pittura, la scrittura e la recitazione.
Né Ade né Persefone, però, hanno fatto i conti con la maledizione che grava sulla famiglia Core... Una maledizione antica come la famiglia, di cui l'unica traccia sono una collana di diamanti rossi e un diario.
Genere: Erotico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Storico
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

 

 

 

 

 

Atto

VII

 

 

 

 

1920

 

La villa era lì, davanti a lei, immutata; Maia aveva sempre pensato che quando il suo primogenito, o la primogenita, fosse stata abbastanza grande da prendere le redini della Demeter, avrebbe trascinato Nathanael negli Hamptons e non se ne sarebbe più allontanata. L’ennesimo sogno spezzato, l’ennesima certezza che quella notte del 1912 aveva spazzato via, finché qualcosa di altrettanto devastante non era entrato nella sua vita rimescolando tutte le carte, di nuovo.

Le bastò un istante, però, per dimenticare la ragione che l'aveva spinta a compiere quel viaggio, per sentire le lacrime agli occhi che si beavano di quelle sfumature di blu e il cuore colmo di così tanti sentimenti che sembrava esplodesse. Il mare era sempre stato la sua casa, quel grembo materno e accogliente che le aveva regalato attimi di pura gioia sin da quando non era che una bambina, instabile sulla terraferma ma perfettamente a suo agio tra quelle onde al punto che balia aveva preso l'abitudine, ad un certo punto, di poggiarle sul comodino un bicchiere di acqua dell'oceano, così che si addormentasse con il profumo della salsedine a cullarla. 

Era l’unico posto in cui si fosse mai sentita completamente, totalmente felice, al punto che se molte sue amiche non tornavano a casa per anni pur di non affrontare giorni di viaggio attraverso l’oceano, Maia aspettava trepidante il momento in cui avrebbe lasciato la terra per abbandonarsi al mare, perfetta congiunzione tra il vecchio e il nuovo mondo, l’unico luogo in cui Maia era semplicemente Maia, e non la studentessa modello o la pupilla di New York.

Il mare, oltre il molo, era una promessa di infinito. Era stato il suo peccato, credersi inaffondabile, ed era il peccato di tutta la loro generazione, che coltivava il sogno americano e poi falliva miseramente, perché tutto ciò che avevano non era che una grottesca imitazione di vita perfetta.
Il Titanic non aveva insegnato loro nulla.

Si tolse le scarpe e si sedette lasciando che le onde le sfiorassero i piedi coperti solo da calze leggere: era stata così impegnata a fuggire che aveva dimenticato quanto amore vi fosse in quei luoghi. Il mare l'aveva tradita e quella ferita non si era mai rimarginata, come quella degli orfani abbandonati dai genitori che non si sentiranno mai davvero completi. Si era chiesta mille e mille volte perché avesse tradito proprio lei, ma in quel momento la risposta a quella domanda non aveva più importanza. 
Quando si ama qualcuno fino a star male si finisce per perdonarlo, perché non vi sono alternative possibili. Aveva perdonato il mare così come Nathanael, alla fine, avrebbe perdonato lei.
Maia era tornata a casa.
 
Il sole era tramontato quando infine si alzò e, dando le spalle a Villa Core, camminò costeggiando il mare finché non trovò la casa che stava cercando, piccola ma accogliente, così diversa da casa sua eppure al contempo così simile, profumata di salsedine: un rifugio.
Lei era lì, in giardino, il volto coperto da un velo azzurro. Ceridwen. La donna del quadro che tanto l’aveva colpita quella sera sul Titanic. L’immortale bellezza, che solo l’arte sapeva conferire e che il tempo non avrebbe mai corrotto.
Nonostante il volto sfigurato, Ceridwen sarebbe stata sempre bella agli occhi del mondo, perché anche se il quadro più bello giaceva sul fondo dell’Atlantico, molti altri adornavano case e musei, conferendole l’immortalità che Maia aveva sempre inseguito.
E quando la donna alzò il capo e la vide, pur non potendole leggere lo sguardo, la giovane Core sapeva che era stata riconosciuta. Lei sapeva.

Aspettò che le si avvicinasse, poi si alzò in piedi in silenzio, lasciando che l’altra si chiedesse cosa fosse rimasto della donna che aveva ammirato anni prima, immobile nella tela, e studiando la creatura che aveva davanti, a piedi scalzi e con l’orlo dell’abito bagnato.
 
-Non comprendevo come Gabriel potesse essersi innamorato della pupilla di New York, ma ora che ti vedo non fatico a crederlo. Ben arrivata, Maia Core Myrthus. Ti stavo aspettando.
 
Quel cognome, l’amore di Gabriel, il fatto che lei la stesse aspettando. La modella osservava il mondo attraverso un velo e sembrava comprenderlo perfettamente, più di tutti loro; la stava aspettando e Maia fino a pochi minuti prima neppure sapeva che lo avrebbe rincorso, così come dubitava che lui se lo aspettasse. Ma lei li aveva compresi.
 
-Ho visto il tuo quadro, l’ultimo.

Non avrebbe saputo spiegarsi il perché di quel commento, soprattutto dal momento che, sicuramente, ricordare la bellezza perduta era doloroso per l’altra. Eppure la voce di Ceridwen sembrava quasi sorridere.
 
-Lo so, è per questo che lui ti ha trovata. Era ossessionato da quel quadro, voleva riportarmelo ad ogni costo. Io non l’ho mai voluto.
 
Le fece cenno di sedersi e Maia acconsentì: più che la gelosia, era stata la curiosità a condurla lì, perché Gabriel era tornato dalla sua musa e lei aveva bisogno di conoscere la donna che, involontariamente, li aveva uniti, perché Hasmal era entrato nella sua vita sin da quella notte sul Titanic.
 
-Si sentiva in colpa per… questo.- sfiorò il velo con una mano, –Inseguivo la bellezza proprio come Gabriel, ma se lui la trovava nella tela, per me risiedeva nell’amore. Ogni notte inventavo me stessa, tra braccia sempre diverse, ma sceglievo il mio compagno, sempre, e non mi sono mai fatta pagare. Di giorno posavo per pittori, scultori, scrittori, per chiunque avesse bisogno di una musa, e quello mi permetteva di vivere e di godermi la notte, libera da qualsiasi legame. Forse non puoi capire, ma per me quella era la vita, la massima espressione della Dea bellezza ed ero felice, totalmente felice. Poi arrivò quell’uomo e io compresi subito che c’era qualcosa, in lui, di crudele; lo rifiutai e lui non lo accettò mai. Una notte venne a casa mia e ci colse nudi, disarmati: colpì l’uomo che era con me, che per poco non morì, e poi si voltò verso di me. Nel tragitto aveva trovato dell’acido, non so se lo avesse sempre avuto con sé o in che modo se lo sia procurato, fatto sta che…

Tremò impercettibilmente sotto il velo e la voce si incrinò: Maia era raggelata, senza trovare parole per esprimere ciò che aveva dentro. Fin dove poteva spingersi la crudeltà dell’uomo…

-L’intervento dei domestici ha impedito che la situazione degenerasse ancor di più, ma nessuno ha potuto fare nulla per il mio volto. Gabriel era impazzito di dolore, mi ha trascinato di medico in medico per oltre un anno, finché non ho detto basta. Ero stanca, capisci? E lui, per qualche motivo, si mise in testa che riportarmi quel quadro mi avrebbe in qualche modo ricompensato. Dopo la guerra aveva smesso di cercare, comprendendo come non mi avrebbe fatto bene rivedere ciò che avevo perso, ma poi sei arrivata tu e hai risvegliato l’antico desiderio. O forse, in qualche modo, era la scusa per rivederti.
 
-Mi odiava.
 
-Sì, ti odiava, certo che ti odiava, tu eri tutto ciò che lui era stato e anche di più. E poi sei diventata ciò che lui era, è, perché avevi conosciuto la morte violenta, quella che ti si appiccica addosso e non ti abbandona più, e l’odio è mutato in amore.
 
-Non credo mi ami,- sussurrò appena. Era vero: aveva sempre pensato che Gabriel fosse ossessionato da lei, ma non innamorato.
 
-Lo credo io e questo basta. Conosco Gabriel come la mia stessa anima. Siamo cresciuti insieme, io e lui: mia madre era la cuoca degli Hasmal e Gabriel si incapricciò per quella bimbetta poco più piccola di lui, così la signora Calloway finì per badare anche a me. È stato un rapporto simbiotico, totalizzante, finché i suoi genitori non morirono: a quel punto lasciammo entrambi la sua casa, ma non perdemmo mai i contatti.
 
-Voi due…

Non aveva il coraggio di chiederlo fino in fondo, ma Ceridwen comprese il suo turbamento.
 
-Mai, Maia. Siamo come fratello e sorella. Ma tu perché sei qui? Cosa vuoi da lui? Sei fidanzata, tra pochi mesi ti sposerai e non ci sarà più posto per Gabriel nella tua vita, perché non credo vi potrete mai accontentare della clandestinità.
 
O tutto o niente.
 
-Ho bisogno di parlargli, di capire… Non può finire così.
 
Ceridwen sospirò e poi, con mano ferma, alzò il velo, permettendo a Maia di osservare quel volto sfigurato, deforme, ma in cui, in qualche modo, risiedeva l’eco della bellezza di un tempo, quella bellezza così a lungo inseguita. Non era ciò che, da sempre, faceva anche lei? La bellezza cristallizzata nei dipinti. La guardò negli occhi senza il minimo turbamento, rispettando profondamente quel gesto: solo una volta lei era stata capace di mostrare la propria tragedia, in quel cimitero con Gabriel, mentre Ceridwen si scopriva davanti ad un’estranea, per indicarle la via.

-Voglio che tu capisca la situazione. Esistono anime che possono essere salvate e anime che sono perdute per sempre, che neppure l’amore può far ritrovare perché, vedi, sono semplicemente troppo in là. Dicono che l’amore possa tutto, ma io credo piuttosto che l’amore possa molto, ma che vi siano luoghi irraggiungibili anche a lui. Luoghi troppo lontani e bui. Un Ade senza uscita.
 
-Persefone ha portato l’amore negli inferi.
 
-Persefone si è dannata nell’amore e per l’amore. Se è quello che cerchi, sii pronta ad andare fino in fondo.
 
-Lui dov’è?
 
-Dopo la curva, al molo.
 
***
-Allora Pietro si ricordò di quello che Gesù gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte». Ed egli uscì, e pianse amaramente.

Udì i suoi passi prima di quelle parole, ne riconobbe l’odore di limone che si mischiava con quello della salsedine e lasciò che il suo cuore, che così a lungo si era nutrito solo di sangue e rabbia, ritornasse alla bellezza che così a lungo aveva inseguito e che lei gli aveva donato. Ogni pennellata, ogni dipinto era stato un passo inconsapevole verso di lei, verso la sua Persefone di colori chiari e colori scuri, verso quella ragazza su cui si era sbagliato sin dal primo istante, comprendendolo troppo tardi.
 
-Dal Vangelo di Matteo, 26,69-75.
 
Si alzò lentamente, quasi non volesse spezzare quel momento, quasi temendo che, se si fosse voltato, lei sarebbe sparita.
 
-Avevi ragione. Hai sempre avuto ragione.
 
Il vento le muoveva i capelli che un tempo erano stati elegantemente legati e l’orlo bagnato dell’abito verde lo fece sorridere, comprendendo come Maia, finalmente, avesse vinto la paura del mare.
 
-È stato Francis a salvarmi, quella notte. Volevo rimanere, aiutare tutte quelle povere donne delle classi inferiori, quei bambini disperati, ma le scialuppe stavano finendo e il Titanic…- si fermò un istante, poi scosse la testa come se volesse rimuovere un brutto ricordo. –Tu dovevi imbarcarti con lui, vero?
 
Gabriel annuì: Millet aveva comprato due biglietti, per sé e per il suo ultimo amante, ma all’ultimo minuto questi lo aveva lasciato e così Francis aveva offerto a lui il secondo biglietto. Vite intrecciate da fili invisibili. Se si fosse imbarcato, si sarebbero incontrate due persone prive di mostri e di dolore e forse l’arte li avrebbe uniti comunque… O forse si sarebbero sfiorati senza sentirsi mai davvero.
 
-Dopo l’incidente di Ceridwen, mi rifiutai di lasciarla da sola, così saltò il mio viaggio a Londra e il conseguente rientro sul Titanic.
Maia lo sapeva già, Francis vi aveva scherzato su la sera in cui videro il quadro.
 
-Mi ricorda Manet, coglie la bellezza di questa donna e la fa vivere oltre la tela, eppure c’è qualcosa in più… Porta l’eco dell’Impressionismo.
Non avrebbe saputo spiegarlo.
Le parole, che mai le erano venute meno, in quel momento le apparivano insufficienti, come se solo il contemplativo silenzio potesse sciogliere i pensieri e le emozioni.
-Chi è l'autore?- si scoprì a chiedere.
-Gabriel Hasmal. Avete rischiato di conoscerlo, sapete? Sarebbe dovuto venire con me.
-Magari potreste presentarmelo, quando torneremo a casa. Mi piacerebbe conoscerlo.
 
Francis aveva sorriso e lei aveva compreso come, nonostante avesse affermato che non fosse una delle persone che preferisse al mondo, a legarli fosse un affetto profondo.
 
-Balla con me.
-Non c’è musica.
 
Ma nulla poteva impedire a Maia di ottenere ciò che volesse e Gabriel non l’aveva mai vista più bella, così serena come mai era stata con lui. Gli prese le mani, portandone una sul fianco e stringendo l’altra con la propria, poi iniziò a muoversi sulle note di una canzone immaginaria, una di quelle languide sinfonie di moda nei locali clandestini, posando la guancia sul suo petto.
Era un addio, quello? O era tornata per restare?
 
Maia era entrata nella sua vita dopo anni di rabbia e dolore e non li aveva portati via, non avrebbe potuto anche se lo avesse desiderato, perché troppo a fondo erano penetrati in lui, ma aveva condiviso quel peso, facendogli comprendere di non essere solo.
Insieme si erano assolti, perdonandosi l’essere sopravvissuti mentre tutti attorno a loro morivano. Insieme avevano camminato tra i mostri, mano nella mano, imparando a non temerli più. Insieme avevano deciso di vivere quella vita assaporandone ogni istante e non perché credessero, come la maggior parte della loro generazione, di essere immortali, ma proprio perché sapevano di non esserlo.
E fu per questo che la baciò, perché lei gli sarebbe appartenuta solo in quel momento, solo il tempo di quel ballo, di quel bacio. Lo sapeva. Lo accettava.
Non fu violento e imprevisto, come la prima volta, ma lento e consapevole, perché entrambi lo desideravano, perché non importava se fosse una promessa o un addio. Si immobilizzarono lasciando che la natura attorno a loro sfumasse, che il mare alle loro spalle li cullasse con il lento andamento delle sue onde.

Gabriel risalì con la mano lungo il fianco fino ad arrivare a quella collana, ai sei chicchi di melograno che appartenevano alle Core da sempre, così come l’eterna scelta tra l’essere Persefone o l’essere Demetra, o il non essere nessuna delle due, condannandosi ad un limbo perenne.
 
Ma Persefone aveva mangiato quei sei chicchi perfettamente consapevole di una incontestabile realtà: non avrebbe mai lasciato l’Ade. Non davvero. Non del tutto.
 
La baciò respirando il suo odore, stringendola a sé stropicciando la stoffa del vestito tra le dita e comprendendo come la Bellezza fosse tutta lì, in quel gesto antico come l’uomo, nel cedere completamente e senza remore a qualcuno, fidandosi; Maia si era fidata di lui quando lui voleva distruggerla e si stava fidando di lui anche in quel momento.

L’aveva inseguita per tutta la vita, la Bellezza, e l’aveva trovata alla fine, un ultimo regalo di quella vita che gli aveva tolto tutto, persino la sua arte finché un’anima affine non gliel’aveva restituita. Figli degli agi e della ricchezza, distrutti dalle vite che avevano osservato spezzarsi per la tracotanza umana, salvati dall’arte. E se chi non la conosceva poteva pensare che Maia non fosse altro che un bel fiore, il fogliame tra i boschi che incantavano la vista, lui sapeva che bastava scostare una foglia per trovare la roccia. Che la Maia che aveva lottato quella notte sul Titanic non era morta, non del tutto, e che sarebbe tornata a splendere, conquistando quell’immortalità così a lungo agognata.

Nonostante Maia, lui era perduto, ma lei aveva ancora molto da donare e vivere.
 
-Grazie.
Non aggiunse altro, ma sapeva che lei aveva compreso.
 
Maia lo guardò sorridendo, mentre il cuore le si spezzava nel petto: gli scostò i capelli dalla fronte, gli baciò quelle mani perennemente sporche, quelle mani che l’avevano toccata e ritratta e che l’avevano incantata sin dal primo istante, da quando il carboncino gli era caduto dalla tasca e lui aveva negato gli appartenesse.

Era fragile e immortale, Gabriel, come l'epoca in cui vivevano. Uomini e donne resi fragili da ciò che avevano vissuto, dagli orrori della guerra, dagli incubi che ancora li perseguitavano, ma che sarebbero divenuti immortali per il coraggio con cui si erano rialzati. Maia non dubitava neppure per un istante che il ricordo quei gloriosi anni '20 sarebbe riecheggiato nell'eternità. Fragili e immortali.
 
E in quel momento, mentre gli occhi di lui sembravano dirle addio, Maia comprese che la scelta non era mai stata tra Gabriel e Nathanael. La scelta riguardava solo lei, la possibilità di cambiare la propria vita oppure lasciarla così com’era, beandosi di quel bozzolo di sicurezza che le avevano creato attorno.

Non era, dopotutto, la scelta di ogni essere umano? Abbandonarsi all’ignoto o rimanere fermi nella certezza. Era come se esistesse un confine invisibile, una linea immaginaria che creava una netta separazione tra certo e incerto, tra ragione e istinto: alcuni uomini non avrebbero mai pensato di valicarla, altri muovevano un timido passo per poi tornare dov’erano, altri ancora si convincevano di essersi mossi mentre in realtà rimanevano ben ancorati a terra, al proprio posto.
Solo in pochi attraversavano quella linea e il segreto stava nel non voltarsi mai indietro, nel non perdere mai di vista ciò che li attendeva davanti, un nuovo inizio, un futuro diverso, forse non migliore, ma senza dubbio alcuno un futuro che avevano scelto.
Era necessaria una incrollabile fiducia per andare avanti senza mai voltarsi indietro.

Non aveva compreso, Maia, come avesse già scelto, anche prima di allora: aveva scelto Gabriel per il quadro e l’aveva scelto ancora quando l’aveva baciato, quando l’aveva seguito nel luogo che più temeva al mondo, quando l’aveva raggiunto al mare. In un’altra vita, senza quei cognomi ingombranti e quel passato, avrebbe scelto liberamente e spontaneamente Gabriel altre mille volte ancora, ma in quella vita, quel giorno, Maia scelse se stessa, scelse di proseguire il cammino che lui aveva tracciato per lei, perché sapeva, come lo sapeva Gabriel, che non esisteva futuro per loro due insieme.

Ma sapevano anche che Maia non sarebbe mai tornata ad essere la bambolina degli ultimi otto anni perché Gabriel aveva tracciato un percorso che l’aveva portata indietro, alla ragazza che era prima di attraversare l’Atlantico sul Titanic, per permetterle di andare avanti. L’Ade le aveva restituito la vita, così come lo aveva fatto il mare.
La dea dell’amore, quella Afrodite che Maia tanto amava, non era forse nata dalla sua spuma?
A pensarci bene, era così strano che proprio quel mare si fosse trasformato in una condanna a morte? Ciò che dava, a un certo punto lo chiedeva indietro.

-Stai lontano…

La voce le morì in gola. Stai lontano dall’acqua.

Quando si voltò, lì dove poco prima stava Gabriel non rimaneva che il sordo gorgoglio di un vortice nel mare.
 
***
Le strade di Manhattan pullulavano di vita, quel pomeriggio, e tutti erano in fermento per la notte che stava arrivando: gli adulti faticavano a contenere l’esuberanza dei bambini alla prospettiva di tanti dolci e maschere spettrali, mentre loro già pregustavano le feste a cui avrebbero partecipato quando i figli fossero stati soddisfatti e addormentati. Davanti alle Chiese i preti inveivano contro quelle tradizioni pagane che oscuravano la ricorrenza cristiana, ma in pochi prestavano loro attenzione, solo i più anziani, che ancora non si erano rassegnati al tempo che scorreva.

Maia salutò il vescovo della Cattedrale di San Patrizio con affetto: era uno dei pochi che aveva appena terminato di celebrare la messa senza perdersi in chiacchiere inutili contro una festa che, in fondo, era totalmente innocua e non era che l’ennesimo modo che l’uomo aveva trovato per esorcizzare la morte.
 
-Manca poco, mia cara. Sei pronta?
 
La ragazza sorrise, poi chiese al vescovo ciò che desiderava, le modifiche che aveva apportato alle musiche che l’organista avrebbe suonato durante la celebrazione, l’ultima tappa di un viaggio che l’aveva condotta lungo i più celebri negozi di Manhattan –il fioraio, la pasticceria-, modificando leggermente ciò che Potnia aveva programmato ossessivamente per mesi e mesi. Non le importava: forse sua madre si sarebbe infuriata, ma il giorno dopo il matrimonio sarebbero partiti per il viaggio di nozze e, al loro rientro, un nuovo appartamento li avrebbe aspettati. Nathanael aveva mantenuto la promessa e, una settimana dopo la sua fuga agli Hamptons, rimasta segreta, le aveva fatto trovare le chiavi di un appartamento a Chelsea, molto più piccolo rispetto alla casa in cui era cresciuta, ma perfetto per loro. Aveva iniziato ad arredarlo, soffermandosi soprattutto sui beni di prima necessità e riservando il resto al loro ritorno dall’Europa.

L’Europa…

Otto anni dopo, Maia sarebbe tornata ad attraversare l’Atlantico, dal nuovo mondo al vecchio: nessuno aveva commentato, ma sapeva che tanto Nat quanto i suoi genitori, Abbie e sua nonna erano rimasti sconvolti e perplessi. O, almeno, tutti perplessi tranne il suo fidanzato.
 
Salutò il vescovo ed uscì, soffiando sulle mani guantate per cercare di vincere il freddo che era infine giunto a New York, e passeggiò senza particolare fretta, sapendo che lei, al contrario di quasi tutte le persone che le correvano accanto, quella sera non sarebbe uscita; in quelle settimane non era mancata ad un solo evento, tornando apparentemente la Maia che tutti conoscevano e amavano, ma per quella festa particolare aveva declinato ogni proposta, lieta di avere la casa tutta per sé. Natahanael sarebbe voluto rimanere con lei, ma l’aveva convinto ad unirsi alla madre nella festa che aveva organizzato, non foss’altro che per scusare la sua assenza con qualche menzogna; non lo meritava, non meritava nulla di quello che gli era capitato nell’ultimo periodo e soprattutto non quello, ma Maia era stanca di chiedere scusa, di essere perfetta…  Aveva bisogno di ricostruire la sua vita da dove l’aveva lasciata quel 15 aprile del 1912, perché solo in quel modo sarebbe stata in grado di essere una brava moglie e di diventare la donna che desiderava essere, che aveva promesso di essere.
 
La vide quasi per caso, attirata dalle decorazioni della vetrina di quella sala da thé: Molly Brown, seduta da sola e rapita dalla lettura di un romanzo, ma quando le si sedette davanti lo chiuse e la fissò come se la stesse aspettando.
 
-Thè verde al gelsomino e limone, se non ricordo male.
 
La ragazza annuì e chiamò con un cenno un cameriere per ordinare, poi tornò a voltarsi verso la donna il cui sguardo non l’aveva abbandonata un attimo.
Molly Brown era stata una compagnia in quei giorni sulla nave; Potnia non l’aveva mai sopportata, ritenendola troppo esuberante, poco compita e soprattutto di una ricchezza troppo nuova, così difficilmente si erano frequentate a New York, ma sul Titanic avevano trascorso molto tempo assieme, passeggiando lungo i ponti della prima classe o sedendo leziose nelle sale. Thè verde al gelsomino e limone.

Maia si era aperta con lei, le aveva confidato i proprio progetti con la gioia che solo i sedici anni sanno conferire, con l’esuberanza di chi ha il mondo ai propri piedi e sa di poter fare qualsiasi cosa desideri. Da quando avevano lasciato il Carpatia, da quando si era ritrovata tra le braccia di Nathanael, aveva fatto di tutto per evitarla, per impedirle di costringerla a ricordare.
 
-Sembrate diversa.

Schietta. Diretta. Il motivo per cui Potnia non la sopportava, il motivo perché la maggior parte delle vecchie signore della “nobiltà” non la sopportavano: Molly Brown non aveva peli sulla lingua, soprattutto non da quando aveva conosciuto la morte e l’aveva evitata per un pelo. Era una sopravvissuta anche lei.
 
-Lo sono.

Perché fingere? Lo era e la Brown sapeva anche perché. Per chi.

Maia si guardò attorno, cercando di sfuggire allo sguardo inquisitore della donna.
Conosceva la maggior parte delle persone presenti nel locale, ragazze della sua età che sfoggiavano un caschetto ribelle ma al cui dito brillava una fede o un anello di fidanzamento, donne che non riuscivano a stare al passo con i tempi e che guardavano le ragazze con disprezzo e, forse, con invidia. Due tavoli dopo il loro riconobbe la signora Cuveé insieme al figlio, un bambino di cinque anni, l’erede dell’impero familiare che in quel momento piangeva disperato perché la cioccolata calda non era abbastanza dolce: contrariamente a quanto facevano Lady Potnia e il signor Myrthus, il signor Cuveé dirigeva l’azienda senza curarsi minimamente del domani, sperperando in donne, alcol e gioco tutti i loro beni e sentendosi, da degno figlio di quel tempo, immortale. La moglie, d’altro canto, era una donna che accettava l’eccentricità del marito, le amanti e l’arroganza di quel bambino viziato in perfetto silenzio. Alain Julian Cuveé, ecco come si chiamava.
Sorrise quando realizzò che lo sbuffo infastidito davanti ai capricci del piccolo A. J. era sua cugina Corinne, che beveva thé insieme ad un gruppo di amiche: l’aveva invitata spesso, negli anni, a quelle riunioni femminili, ma il suo continuo declinare l’aveva fatta desistere. Ricordò quanto ne avesse invidiato la libertà, quando era più giovane: i suoi cugini avevano i privilegi di un cognome importante senza subirne le pressioni, perché era lei l’erede, quella sulle cui spalle poggiava il futuro della Demeter.
 
Non avrebbe saputo dire quanto a lungo fosse rimasta assorta nei propri pensieri e quanto a lungo la donna avesse rispettato il suo silenzio.
 
-So di avervi evitata in questi ultimi anni, ma non volevo ricordare quella notte, tutte quelle morti.
 
-Lo so, ho provato mille volte a parlare con vostra madre o con Rafael, a spiegare che non era nascondendovi che vi avrebbero aiutata a superare quell’incubo, ma loro…
 
Il sorriso di Maia si incrinò appena, - Hanno fatto ciò che ritenevano giusto per me e io li ringrazio per questo. Mi hanno donato anni di spensieratezza. Non ero pronta ad affrontare tutto.
 
Vedeva gli occhi della donna scrutare nei suoi, cercando di comprenderla, ma lo sguardo di Maia era un’intricata ragnatela di pensieri, come sempre e più di sempre.
 
-Ora lo siete? Grazie ad Hasmal?
 
-Sto per sposarmi, signora Brown, sto per intraprendere un nuovo percorso nella mia vita, ecco perché è arrivato il momento, ma non negherò che sia stato Gabriel a farmelo comprendere.
 
Pronunciare quel nome ad alta voce era stata una liberazione. Gabriel Gabriel Gabriel. Gabriel, per l’ultima volta.
 
-Eppure non lascerete Nathanael.

Irriverente, sfacciata. In un altro momento, forse solo pochi giorni prima, Maia si sarebbe alzata, mortalmente offesa per quel giudizio poco velato, e se ne sarebbe andata, ma rimase lì, a rispondere alle domande di una donna che aveva ignorato troppo a lungo, per un ultimo giro di vite.
 
-Non potrei mai ferire Nathanael, anche se l’ho fatto ripetutamente in questi ultimi mesi, ma sono destinata a lui e ho intenzione di essere la moglie che merita di avere, perché lui è la mia salvezza. Io e Gabriel ci saremmo distrutti a vicenda, ma abbiamo capito in tempo che dovevamo fermarci e abbiamo trovato la pace. Entrambi. E io gli devo così tanto… Non avrei mai potuto immaginare, quella sera sul Titanic, quando sentii per la prima volta il suo nome, il ruolo che avrebbe svolto nella mia vita, ma per la prima volta dopo anni ringrazio Francis per avermi permesso di vivere e di incontrarlo. Ora so cosa devo fare.
 
C’era una risoluzione nuova in lei, una gratitudine che fino a quel momento non aveva mai provato perché troppe volte aveva pensato che, piuttosto che sognare ogni notte quei volti congelati sul filo dell’acqua, avrebbe preferito essere morta lei stessa.
 
-Avete trovato la risposta alla vostra domanda? Ade può sopravvivere senza Persefone?- quando Maia non rispose, volgendo altrove lo sguardo, Molly le prese la mano e continuò: -Ricordo cosa mi disse di lui Francis, quella sera, mentre osservavamo il quadro di Ceridwen. Lo ricordo così bene, dopo così tanti anni, in parte perché non c’è dettaglio che abbia rimosso di quel viaggio, in parte perché pronunciò quelle parole estasiato, con profondo rispetto nei confronti dell’amico. Disse: Gabriel ha trasformato il dolore per ciò che era accaduto alla sua musa in estatica bellezza. È sempre stato sublime, ma c’è un netto stacco tra i quadri precedenti e quelli successivi: se prima dipingeva la bellezza o il dolore, in modo sublime, è vero, ma quasi impersonale… Successivamente, però, ha usato la passione e il dolore per rappresentare la magnificenza di ciò che lo circondava ed è un dono che pochi hanno. È un peccato, per lui e per noi, che la guerra lo abbia allontanato dalla sua arte, ma sono sicura che il vostro ritratto, Maia Core, sia il suo capolavoro. Quindi ora vi chiedo, se è vero ciò che mi avete detto finora, se lui ha davvero fatto la differenza, verrete con me alla riunione dei superstiti del Titanic?
 
Maia non rispose subito, perché un nodo in gola le impediva di parlare. Era davvero il suo capolavoro, quel quadro che mai aveva visto? O era lei stessa la sua creazione migliore? La donna che era diventata grazie a lui, mai più terrorizzata dai mostri del passato. Mai più annichilita dalla paura.
 
-Non lo farò.
 
Fu come se l’avesse schiaffeggiata. Molly Brown aprì la bocca più volte prima di trovare le parole giuste.
 
-Quindi Hasmal non ha cambiato nulla? Volete dimenticarlo, come avete dimenticato il resto?
 
-Vorrei potervi rispondere di sì, signora Brown, vorrei potervi dire che lui non ha cambiato nulla nella mia vita, ma mentirei: ha cambiato tutto, mi ha ricordato chi ero, chi sono. C’è una maledizione, legata a questa collana. Non sono solita credere a certe cose, ma se avete cinque minuti per me ve la racconterò.
Molly Brown annuì.
 –Jane Pleis Clinton è una mia antenata, vissuta all’epoca dei Tudors, fidanzata con il conte di Huntingdon. Una vita perfetta, finché non incontra William Fitzherbert, un figlio bastardo che si guadagnava da vivere con la sua musica. Si innamorano perdutamente e lui le dona questa collana, sei chicchi di melograno perché lui era l’Ade che la rapiva dalla sua vita alla luce del sole, ma nel frattempo sale al trono Maria la Sanguinaria. La famiglia di Pleis e il conte fanno in fretta a rinnegare il protestantesimo, ma William non vuole e deve scappare, o sarà bruciato come eretico. Pleis vuole scappare con lui, ma la notte stabilita il padre la ferma e lei non ha la forza di ribellarsi; William, però, l’aspetta e quell’attesa è fatale. Viene arrestato e condannato a morte. La notte prima dell’esecuzione, corrompendo le guardie, Pleis va da lui e viene maledetta: nella sua famiglia non sarebbero più nati figli maschi e le femmine sarebbero state donne Persefone o donne Demetra, finché una non avesse spezzato la maledizione. Per quanto ridondante sia, la storia ci dice che Pleis mise al mondo solo quattro figlie femmine e così le loro eredi e quando la collana giunse in America, a seguito dell’estinzione del ramo inglese, una famiglia prolifica di figli maschi iniziò ad avere solo femmine, fino a me. Io sono una donna Persefone, e avrò solo figlie femmine.
Chloe. Il pensiero la scosse all’improvviso. Chloe. Aveva sempre pensato che le sarebbe piaciuto chiamare così sua figlia. Chloe Core Rafael e, in cuor suo, sperava che fosse una donna Demetra: una vita d’estate, perché avere lei come madre sarebbe stata già una sfida.
-Per quanto moderni siano questi anni ’20, non sono ancora così moderni: verrà il tempo in cui una donna Core saprà sciogliere il gancio di questa collana, spezzerà la maledizione e sceglierà una vita diversa, ma quel tempo non è ancora arrivato e io ho dei doveri verso la mia famiglia e verso il mio fidanzato. Ma non lo dimenticherò, non potrei mai. Non ricordare non significa dimenticare.
 
***
 
La notte di Halloween, l’antica festa celtica che segnava la fine di un anno e l’inizio del successivo, era il momento in cui il velo che separava il regno dei vivi da quello dei morti cadeva e i defunti tornavano a camminare in superficie.

Una candela sul davanzale, per indicare la strada e far sapere loro di essere i benvenuti.
Nel silenzio di quella notte senza tempo, nel buio di un’abitazione deserta mentre le feste venivano celebrate nelle altre case, quella fiammella tremolante era l’unica cosa che per Maia fosse importante.
Non sapeva dove fosse Gabriel, preferiva credere che fosse tornato da Ceridwen piuttosto che contemplare qualsiasi altra prospettiva, ma era pur sempre il suo Ade, il dio dei morti, e chi più di lui aveva diritto a varcare quel confine e tornare tra i vivi?
Non avrebbe dimenticato, troppo a lungo si era nascosta, impedendosi di vivere davvero.
 
-Quella candela è per lui?
 
Maia sobbalzò, presa alla sprovvista: non l’aveva sentito rientrare, persa com’era in mondi troppo lontani da lì, ma negare sarebbe stata un’offesa all’intelligenza del suo fidanzato, così si limitò al silenzio.
 
Ascoltò i suoi passi sempre più vicini, il calore del suo respiro sul collo nudo e quando si voltò seguì il suo sguardo che si posava sugli oggetti che aveva davanti, la candela e i due diari, di Pleis e il proprio. Aveva affidato la sua storia a quelle pagine, così come aveva fatto l’antenata.

-Lui sa, vero? A lui hai raccontato ogni cosa di quella notte maledetta. Ho ragione?
 
Non negò, e davanti quella tacita conferma di ciò che aveva sempre sospettato, Nathanael crollò. -Vorrei un istante dei ricordi che hai donato a lui. Vorrei che una volta, una volta sola tu guardassi me come hai guardato lui quella sera al locale. C'era il mondo nei tuoi occhi e nulla attorno a voi, nessuno di noi. 

La fiamma tremò, forse mossa dai movimenti dell’uomo, forse solo per farle capire che non era sola, che lui sarebbe sempre stato al suo fianco.
 
-Potrei rompere il fidanzamento, sai? Credi che non ne avrei il coraggio? 

Fu quella parola a riscuoterla? O il tono gelido di Nathanael? Una rabbia focosa avrebbe saputo affrontarla, forse, ma quella freddezza la spinse a voltarsi verso di lui. 
 
-Tu non lo farai, né lo farò io. Il coraggio, Nathanael, è a me che fa difetto: il coraggio di scegliere e non lasciarmi semplicemente andare in balia degli eventi. Ho fatto una scelta sul Titanic quella notte: la scelta di rimanere, di lottare perché tutti avessero una possibilità, ma Millet mi ha tolto quella possibilità, condannandomi a vivere. 
 
-È una condanna per te, questa vita dorata?
 
-Era la vita di una persona che non conosceva il dolore e quelle persona, Nathanael, è morta il 15 aprile 1912, lasciando che ciò che rimaneva di me proseguisse quel cammino. Perché credi che sia terrorizzata dalla morte? Io l'ho conosciuta, Nat, e non è più la donna vestita di nero che mi avrebbe portato via bellezza e successo. Sono le acque gelide dell'Atlantico che hanno inghiottito donne e bambini e l'immortalità degli uomini che si credevano intoccabili, me compresa. Io non ho mai avuto il coraggio di affrontare questa realtà, vivendo a metà e comportandomi come se nulla fosse successo. In fondo è per questo che mi amano, sai? Se io sono io, dopo il Titanic, loro possono essere tutto ciò che vogliono dopo la guerra.
 
-Tranne Hasmal. 
 
-Lui non ha mai accettato la finzione in cui viviamo... E ha compreso che neanche io l'avevo mai fatto totalmente. Siamo due anime perse, Nathanael.
 
L'uomo si inginocchiò ai suoi piedi, prendendole le mani tra le proprie.
 
-Perché non me l'hai mai detto?
 
-Perché non volevo corromperti.

Eccola, la verità.
Nathanael era sempre stato, e tale sarebbe rimasto per sempre ai suoi occhi, la promessa di una vita diversa, non corrotta dal dolore e dalla morte. Se Gabriel era Ade, Nathanael era l’estate, era la speranza nel fondo del vaso di Pandora che aveva scoperchiato.
Nathanael era la bellezza che cercava e Gabriel l’aveva aiutata a comprenderlo.

-C'è così tanto amore, in te, che credevo potesse bastare per entrambi. E basterà, mio adorato, perché se Gabriel è l'angelo del cambiamento, tu hai il nome di un angelo salvatore, di colui che viene dopo l'apocalisse. Tu avrai il coraggio di starmi vicino finché morte non ci separi.
 
L’unico uomo che avrebbe mai potuto sposare, l’uomo che l’avrebbe aspettata, sempre.
Gabriel,l’arcangelo, colui che governa le acque, custode della creatività in tutti i campi dello scibile.
Nathanael, l’angelo che presiede il fuoco e salva i giusti dalla fornace di Baal.
 
-Il nome Nathanael, - concluse l’uomo con la voce intrisa di dolore-è anche una versione apocrifa di Gabriel.


 

Corrompere le guardie non era stato facile, ma Pleis doveva vederlo un’ultima volta, per chiedere un perdono che sapeva non sarebbe mai arrivato.
 Alle sue spalle, mentre percorreva i luridi corridoi della prigione, sentiva i falegnami armeggiare con i pali delle esecuzioni.
-Potete parlargli da qui.- disse la guardia indicando una finestrella sulla porta di una cella,-ma non posso farvi entrare.
Pleis annuì e lo pagò metà del dovuto, lasciando il restante per quanto fosse uscita salva da lì.
Era gelida, la prigione, eppure le sembrava quasi di poter vedere le fiamme dell’inferno che si chiudevano attorno a loro.
Ironico che colui che si era sempre definito il suo Ade, andasse incontro alla morte sul rogo.
L’uomo che si trovò davanti quando aprì la finestrella era lo spettro di colui che aveva amato.
Le si avvicinò lentamente, osservandola con un solo occhio grigio perché l’altro era troppo tumefatto perché potesse aprirlo.
-William…
-Non distogliere lo sguardo, Pleis.- La voce, nonostante tutto, era forte. –Guarda la tua opera. Sarei potuto essere in salvo, se tu avessi avuto il coraggio di dirmi che non saresti fuggita con me.
Qualcosa si spezzò in Pleis.
-William, amore…
-Che tu sia maledetta, Jane Pleis Clinton. Che quella collana di melograno perpetui la mia maledizione finchè una tua discendente non sarà in grado di spezzarla.
Mentre il fuoco lo divorava, purificando il mondo dai protestanti, William continuò a maledire la donna che lo aveva condotto alla morte per cercare di non impazzire dal dolore.
 
 
-Avevo scelto Amanti costanti di Mozart come marcia nuziale, ma ho visto altri spartiti.
Maia non la guardò neppure. –L’ho chiesto io.
-Tu?- Lo stupore che trapelò dalla voce di Potnia fu un motivo sufficiente per farle alzare il capo dalla rivista.
-Io, madre. È il mio matrimonio, dopotutto. Niente Mozart.
Potnia non replicò. Aveva udito le voci, ovviamente, aveva sentito raccontare dell’orchestra che aveva continuato a suonare mentre il transatlantico si inabissava nell’oceano.
Songe d’Automne, di Archibald Joyce, l’ultima canzone.
Era un addio ad Hasmal, al loro sogno d’autunno che l’inverno ormai inoltrato avrebbe seppellito sotto la neve?
O era un modo per chiedere perdono su quelle note che parevano danzavano sulle onde dell’ Atlantico?

 

1969

 

 

I suoi occhi sono fissi su di lei, mentre la fa sedere sul letto e si china per sfilarle prima uno stivale, poi l’altro; non le concedono un attimo di tregua neanche quando le mani si insinuano sotto la gonna e tornano indietro insieme ai collant, in un movimento sicuro e senza ripensamenti. Solo quando l’aiuta a togliere l’abito, quegli occhi perennemente imperturbabili tradiscono un sentimento che Merope fatica a riconoscere: incertezza, emozione, paura… Ma lei è così fragile rispetto a quel corpo statuario che la sovrasta da non poter credere di provocargli qualcosa di simile a un turbamento. Poi entrambe le mani di lui raggiungono il suo viso e la sfiorano appena, una delicatezza che lei sente di non meritare, che la fa ribellare e la spinge ad allungare le braccia e a portare quel corpo solido sopra di lei. Lo spoglia con movimenti goffi, lo bacia, si muove impaziente. Ma lui vuole delicatezza, vuole lentezza e glielo bisbiglia all’orecchio: “piano”, “aspetta”, “piano”… e la bacia e la accarezza, mentre finisce di spogliarla e torna sopra di lei, poi le fa male… Non fisicamente, quello è solo un fastidio passeggero e necessario; le fa male più profondamente, perché in quel momento torna di nuovo a guardarla alla luce soffusa della lampada e lei lo vede con estrema chiarezza: capelli biondi, chiarissimi intorno alle tempie; occhi azzurri determinati e soprattutto… soprattutto vede l’amore, quello vero.

A metà cerimonia aveva iniziato a piovere, come le dense nuvole che coprivano il cielo avevano promesso fin dalle prime ore del mattino. Qualcuno aveva aperto un ombrello sopra la testa del sacerdote e questi aveva proseguito, imperturbabile, senza asciugare gli occhiali screziati d’acqua e senza guardare i numerosi ombrelli che venivano aperti uno dopo l’altro.

Era come se ogni goccia sottile avesse dipinto il paesaggio di un grigio acquoso, come se questo avesse sostituito ogni altro colore esistito fino a quel momento. Tutto sparito, tranne il nero, che in qualche modo adesso spiccava più profondo che mai.

Neri erano gli impermeabili e i cappotti con cui ci si proteggeva dal vento autunnale, così come i copricapo e gli ombrelli da cui gocciolava altra acqua grigia.

Neri erano stati anche gli occhi del defunto, quando era stato in vita, pensò Merope improvvisamente. Non ricordava molto altro di Virgile, se non un volto magro e sfatto su un corpo fatto di ossa troppo lunghe e sottili. Ricordava come quel nero si fosse acceso in una luce abbagliante quando lei gli aveva chiesto della sua arte, un tempo che sembrava così distante; ricordava come il nero fosse diventato una pallida ombra, mentre lo aveva visto ballare tra gli amici di una vita a Woodstock; ricordava…tutti quei colori, dov’erano spariti?, si domandò trattenendo delle lacrime fuori posto.

Non aveva mai saputo il cognome di Virgile ed era assurdo che lo avesse scoperto solo lì, al suo funerale. Ancora più assurdo se pensava a come quel cognome per i Core avesse un significato ben preciso: i Cybel, infatti, controllavano una società loro omonima, la concorrente più agguerrita della Demeter.

Avevano fama di persone spigolose, rigide e ligie al dovere e Merope, mentre guardava le loro facce imperscrutabili di fronte alla bara, trovò impossibile conciliare l’immagine di Virgile con quella famiglia che apparteneva alla sua stessa cerchia dorata. Per lei, Virgile non era stato altro che una delle interessanti creature che popolavano il mondo oscuro di Julian.

Poi riconobbe i tratti di Virgile in una bambina di fronte a lei e dovette arrendersi all’evidenza: era alta, così tanto da sembrare quasi una ragazza, ma la tradivano quei segni di un’infanzia che sembrava voler nascondere a tutti i costi; aveva cercato di mantenere un’espressione distaccata per tutta la durata del funerale, ma c’erano stati dei momenti in cui la sua bocca si era piegata in una smorfia di disappunto, di disprezzo. Sì, doveva essere un’autentica tortura per una famiglia orgogliosa come i Cybel presenziare al funerale di un ventisettenne morto per overdose e la loro piccola sprezzante erede non era brava quanto loro in quell’arte che era la recitazione dell’alta società.

Chissà cosa avrebbe detto la piccola… Maureen, ecco come si chiamava!, chissà cosa avrebbe detto se le fosse andata vicino e le avesse detto che aveva gli stessi occhi del suo parente scapestrato e che forse, dopotutto, quella tara poteva essersi tramandata anche a lei. Chissà come avrebbe reagito se le avesse detto che magari anche lei un giorno avrebbe sentito il bisogno di uscire da quella teca luccicante e sporcarsi con il mondo reale.

Come se le avesse letto nel pensiero, Maureen alzò il viso nella sua direzione e i suoi occhi neri – profondi, gelidi, terrificanti – le risposero che no, a lei non sarebbe mai capitato.

Merope deglutì con difficoltà, sentendosi costretta a distogliere gli occhi da quel muro di indifferenza e andare alla ricerca di qualcuno che fosse davvero addolorato per la morte dell’artista. Li individuò – erano un po’ distanti, come se non volessero prendere parte a quella farsa portata avanti dai Cybel – e se anche sui loro volti non vi era traccia dei tratti di Virgile, Merope poté riconoscervi un’autentica familiarità: Virgile era passato su ognuno di quei visi, che adesso erano tirati, ma prima avevano riso, discusso, sognato insieme a lui.

Nel frattempo il prete, conclusa la cerimonia, si era avvicinato ai parenti del defunto per stringere le loro mani in un inutile gesto di conforto, presto seguito da altri sconosciuti che con Virgile non avevano nulla a che fare. Merope invece non ci riuscì, rimase ferma a guardare Sibylle prendere per mano un Blind assente e condurlo vicino alla bara.

Alle loro spalle, vide Julian.

La vista di quella pelle bianca bianca circondata dal nero dell’ombrello, dell’impermeabile e del dolcevita le tolse il respiro, mentre lo osservava avanzare ad occhi bassi. Quando fu abbastanza vicino alla bara, una mano altrettanto bianca scomparve nel nero della tasca per ricomparire subito dopo con qualcosa stretto nel pugno, che posò con cura sul legno scuro e lavorato. Non era altro che un semplice pennello dalla punta macchiata di colori, l’arte di Virgile, lo strumento con cui aveva abbandonato la vita dorata tra i Cybel per immergersi in quel mondo terribile in cui la libertà gli era costata la vita.

Indifferente alla reazione provocata nei familiari, Julian sollevò lo sguardo e finalmente lo posò su Merope, che si sentì come se tutto quel nero e quel grigio opaco si fossero condensati in lui e, attraverso i suoi occhi di piombo, fossero infine giunti a lei.

Le fece un cenno e si allontanò verso l’uscita del cimitero. Lei lo seguì senza un ripensamento.
***
Quando aprì la porta di casa non badò al buio in cui era immersa. Non si vedeva nulla, ma lui cercava solo l’oblio che gli avrebbe donato il letto e stava proprio per dirigersi in quella direzione, quando avvertì un tocco leggero sulla schiena e realizzò di non essere solo. Trattenne un sospiro e si diresse alla sua sinistra dove a fatica trovò la lampada della scrivania e poi a destra dove accese quella sul comodino, luci sufficienti per illuminare la stanza ma abbastanza tenui perché il suo mal di testa non lo opprimesse troppo.

Si guardò alle spalle e vide che lei era rimasta vicino alla porta, con un’espressione incerta sul bel viso. Non poté che seguire il suo sguardo e un moto di imbarazzo lo colse quando vide il posto con gli occhi di lei: piatti di cibo intatto sulla scrivania e sul tavolo, bottiglie piene e vuote ovunque, le lenzuola e le coperte gettate a terra…

- Se avessi saputo che saresti venuta avrei chiamato la colf.

Ironico, pungente… l’unica difesa rimastagli.

Lei sobbalzò leggermente e lo guardò smarrita, in un primo momento senza capire a cosa si riferisse. Poi dovette realizzarlo perché annuì e fece un sorrisetto divertito.

- Vedo che hai scritto.

Non guardava il disordine intorno a lei. Forse non si era resa conto nemmeno dell’enorme macchia di vino rosso che spiccava sulla parete né del vetro rotto che era rimasto a terra lì vicino. No, Merope guardava quel fiume di parole che riempivano il suo monolocale: fogli, fogli ovunque… il risultato di giorni e giorni in cui Julian aveva perso se stesso per ritrovarsi in ogni più piccola parola che aveva riversato sulla carta. Erano ovunque: ai piedi del letto, sul materasso, sulla macchina da scrivere, sulle sedie.

Adesso si sentiva come svuotato, come se dentro di lui non fosse rimasto neanche un briciolo della sua arte, come se fosse riuscito a liberarsi una volta e per tutte di ciò che per lui era condanna e dono insieme.

- Sì, ero ispirato,- e la voce gli uscì roca, fin troppo rivelatrice.

Lei sorrise di nuovo, mentre faceva qualche passo verso di lui, si toglieva il cappotto e lo posava insieme alla borsa su una sedia rimasta indenne dalla smania degli ultimi giorni. La osservò, nel suo abito nero e nei suoi capelli tirati in una morsa che sembrava assai dolorosa, e qualcosa gli si agitò dentro: aveva di nuovo voglia di scrivere, dannazione, ma non con lei lì, non poteva se lei lo guardava.

- Di nuovo nei bassi fondi?- le domandò, muovendosi per la stanza alla ricerca di qualcosa.

Lei lo guardò stranita: - La poesia…

Fu allora che Julian ricordò: la notte scorsa Sibylle era andata da lui per dirgli di Virgile e, preoccupata dallo stato in cui lo aveva trovato, lo aveva quasi costretto a scegliere una delle sue poesie da far avere alla sua Persefone. Lui aveva detto più volte di no, che non la voleva lì con lui, ma Sibylle aveva detto quelle parole…Non è questione di ciò che vuoi, Julian, ma di ciò di cui hai bisogno per sopravvivere.

- Un altro chicco di melograno, quindi,- commentò lui con un sorriso sarcastico, - Un altro passo verso la dannazione della nostra candida Persefone.

Lei accusò il colpo, strizzando gli occhi e distogliendo lo sguardo, poi prese uno dei fogli da terra e fece per leggere.

- Io starei attento, fossi in te. Tra quella roba ce n’è qualcuna un po’ troppo… spinta, per te,- la avvisò, mentre finalmente trovava ciò che cercava: una bottiglia di assenzio semipiena, qualche zolletta di zucchero e il necessario cucchiaino bucato.

Portò il tutto alla scrivania, andò a reperire un bicchiere e dell’acqua e si sedette, dandole le spalle.

- Hai mai bevuto l’assenzio?- le domandò, versando il liquido verde nel bicchiere.

- No, credo di no.

Lui sorrise: - No, certo che no,- e scosse la testa mentre posava la zolletta sul cucchiaino, - Oscar Wilde diceva che dopo il primo bicchiere di assenzio, vedi le cose come vorresti che fossero; dopo il secondo, le vedi per quello che non sono. Infine, le vedi per quello che sono realmente, ed è la cosa più orribile del mondo.

Prese l’accendino, lo avvicinò al cucchiaino e, dopo il clic, la zolletta prese fuoco.

- Cosa vedrai dopo il primo bicchiere?- gli domandò piano alle sue spalle.

- Vedrò te,- le rispose onestamente, - Ma senza quell’espressione…

- Quale espressione?- domandò e la sua voce tradì il fastidio che lui aveva voluto provocare.

Lo zucchero fuso gocciolava lento all’interno del bicchiere, senza che Julian riuscisse a distoglierne lo sguardo.

- Quella che mi fa sentire un pervertito perché ti desidero.

L’assenzio prese fuoco e, dopo un attimo di esitazione, Julian ci gettò sopra l’acqua gelida. Quasi trattenne una risata: il perenne candore di Merope riusciva sempre a mandarlo a fuoco e a bloccarlo in una morsa gelida.

- Non…,- iniziò lei, senza riuscire a proseguire, - Non c’è bisogno dell’assenzio per questo.

Stava girando il cucchiaino dentro il bicchiere, quando il significato di quelle parole lo raggiunse. Lentamente, si girò e, come se ce ne fosse bisogno, quel significato lo lesse negli occhi colpevoli e nelle labbra tese.

Annuì e la bocca gli si strinse in una smorfia divertita: - Il principe amministratore non ha saputo aspettare, dopotutto.

Strinse il bicchiere tra le mani per nasconderle ciò che gli aveva provocato quel pensiero, poi aggiunse: - E adesso cosa vuoi?

- Nulla, voglio solo dire che… sì, insomma, sono una persona diversa.

Merope non sarebbe mai cambiata. Anche dopo vent’anni, avrebbe continuato ad essere una ragazzina a un passo dall’età matura, una tenue primavera che non avrebbe mai visto maturare i suoi frutti. Perché si ostinava in quel gioco? Per provocarlo, forse, e allora anche lui l’avrebbe provocata, per mostrarle che si stava illudendo e che non sarebbe mai cambiata.

- Dunque avvicinati,- la invitò con un cenno della testa, - Questo l’ho preparato per te. Dimmi cosa vedi dopo.

Merope prese il bicchiere che le porgeva e, dopo un attimo di esitazione, ne mandò giù un profondo sorso. Poi un altro e un altro ancora, mentre il silenzio si tendeva tra loro.
Julian non aveva voglia di prendere un altro bicchiere, ma doveva pur bere e decise di farlo direttamente dalla bottiglia, un’altra provocazione diretta stavolta alle sue buone maniere.
Poi allungò la mano verso di lei, facendole trattenere il respiro, ma si limitò a toglierle il bicchiere quasi vuoto dalle mani.

- Sciogliti i capelli,- le disse.

Ubbidì ancora, senza tradire alcuna incertezza. I suoi occhi non riuscirono a trattenersi dal carezzare le ciocche bionde che scivolarono sulle spalle, finalmente libere.

- La collana…

Lei sfiorò ciascuno dei diamanti rossi che le circondavano il collo sottile, il simbolo dei Core, ciò che ad agosto aveva spinto Julian a non proseguire oltre. Voleva che le fosse chiaro che quella volta non ci sarebbero stati ripensamenti e, a quanto pareva, dovette intuirlo, perché un lampo di comprensione attraversò gli occhi chiari, ma subito dopo Merope aprì il gancetto della collana e la posò da qualche parte.

- Adesso i vestiti,- mormorò, sentendosi quasi crudele. Lei non l’avrebbe fatto, lo sapeva, voleva solo provocarla, solo…

Le mani sottili, appena scosse da un tremito, sbottonarono il cardigan e lo fecero cadere a terra, poi fu il turno del vestito, delle scarpe e delle calze e ogni gesto - lento e misurato -  ebbe su di lui l’effetto di un pugno nello stomaco.

Il gioco gli si era ritorto contro e adesso non riusciva più a ragionare lucidamente, davanti a quella pelle morbida e chiara, alle ossa che sporgevano invitanti dal bacino, alle gambe sottili e lunghe. Poi un barlume di razionalità: lei aveva appena tolto il reggiseno e un braccio sembrava sul punto di celare ciò che lei stessa aveva scoperto ma si tratteneva. Un segno di fragilità, questo, che lo riportò alla realtà…

- Vieni più vicina,- bisbigliò, toccandole quello stesso braccio.

Ubbidì ancora, ma non nascose il suo stupore quando lui le passò le braccia intorno alla vita e le diede un piccolo bacio sullo stomaco, una carezza grata per tutto quel coraggio.

- È stato gentile?

Trascorse un istante prima che Merope comprendesse la domanda e, quando prevedibilmente si ribellò ad essa, Julian dovette rafforzare la stretta intorno a lei.

- Questa è una domanda volgare,- bisbigliò lei, risentita,- Non è da te.

Lui scosse appena le spalle e poggiò la fronte sul suo ventre: - Non importa.

- Sì, comunque,- rispose dopo un silenzio interminabile.

- E sei comunque qui?

Lei sbuffò, posando le braccia sulle sue spalle: - Non costringermi a spiegarti tutto, sono qui e basta.
Julian chiuse gli occhi, circondato da tutto quel calore: - Vai a letto.

Si costrinse a lasciarla andare e, mentre lei attraversava la stanza, si tolse il dolcevita, mandò giù altro assenzio dalla bottiglia e infine la raggiunse.

Lì accanto a lei, si sentiva impacciato nei movimenti e nelle intenzioni, ma poi la vide distesa tra tutti quei fogli pieni di inchiostro e si sentì improvvisamente sicuro: Merope era nel posto giusto, circondata da parole che Julian aveva cercato e modellato solo per lei.

Gli sembrò che il suo stesso respiro si placasse, mentre intrappolava i capelli biondi tra le  dita, catturava i grandi occhi azzurri nei suoi e reclamava la bocca e il collo sottile con baci lenti e profondi e tutto questo senza che la sua vittima si ribellasse a quel rapimento: il corpo si faceva sempre più malleabile tra le mani, la bocca morbida si abbandonava ai suoi baci, il respiro si spezzava in ansiti carichi di attesa.

Perse il contatto con la realtà – forse era colpa dell’assenzio, forse era nella sua natura – e avvertì soltanto la sensazione di parole che fluivano per la mente e per le labbra, mentre continuava a baciare, a prendere, a intrappolare. Erano le parole che nei giorni passati aveva riversato sulla carta e che adesso, con la stessa smania e ossessione, sentiva di dover donare a lei. L’aveva scelta come sua Persefone, poi ne aveva decifrato i mille volti che sapeva assumere per fare contenti tutti quelli che la intrappolavano e alla fine… alla fine l’aveva rapita davvero, spogliandola di ogni volto fasullo e lasciando nient’altro che Merope.

- Merope…- la chiamò. Nessuna Euridice né Gala né Persefone. Solo Merope.

La mano strinse la pelle morbida della coscia, i denti sfiorarono quella sottile della clavicola e un ansito gli ruppe il respiro, per il piacere che gli provocò l’incastro tra i loro corpi.

- Julian…

Un mormorio basso, un movimento appena accennato di labbra e poi anche il suo respiro si fece difficoltoso, per il piacere, solo il piacere…
***
Era distesa su di lui, troppo intenta a mormorare le parole di Mrs. Robinson per curarsi dell’effetto che gli facevano le sue ossa appuntite e il suo bisbigliare stonato sul petto. Sebbene non la vedesse in viso, non ci voleva molto a capire che Merope era felice di stare lì dov’era e quel pensiero, nonostante tutto, lo fece sorridere, mentre le accarezzava i capelli sciolti e guardava la grande macchia di vino sulla parete.

- Questa non la conosci?- le chiese quando, attraverso il giradischi, Simon e Garfunkel iniziarono a cantare una nuova canzone.

La sentì scuotere la testa piano.

- Una delle mie preferite,- le disse lui.

Continuò ad accarezzarle i capelli e la schiena, mormorando di tanto in tanto qualche parola di Scarborough Fair. Gli occhi sempre fissi sulla macchia rossa.

- Generals order their soldiers to kill, And to fight for a cause they've long ago forgotten.

- Nelle tue poesie non parli mai di guerra.

La macchia era più scura in centro, probabilmente il punto in cui si era frantumata la bottiglia, e da lì si espandeva da ogni lato, allungandosi poi verso il basso. Vista la situazione gli venne spontaneo immaginarlo come un melograno ormai guasto, qualcosa che nessuno avrebbe più osato assaggiare.

- La guerra ha condizionato tutta la mia esistenza,- disse, - Ogni mia parola, ogni mio pensiero, ogni mia scelta, il mio stesso modo di essere. Sono nato mentre il mondo era sconvolto da una guerra e, davvero, non te lo so spiegare in altro modo, ma è come se tutto quel terrore, quell’odio, quella morte mi fossero stati trasmessi, quasi fossero i capelli neri di mia madre e gli occhi chiari di mio padre. Non parlo di guerra, dici?,- sbuffò, - È ovunque…

Merope si sollevò sui gomiti e lo guardò dall’alto, visibilmente perplessa.

- Julian, non hai mai partecipato alle proteste contro la guerra nel Vietnam, ti ho visto deridere Blind e altri scrittori per il loro impegno politico, non hai mai fatto nulla…

- Semplicemente perché non ci credo,- le sorrise, mentre la faceva abbassare di nuovo su di sé, - Non fermeremo questa guerra, né quelle che la seguiranno: dovremo solo combattere per l’ennesima causa che ci verrà propinata e che finiremo col dimenticare, sotto il peso del terrore, dell’odio, della morte.

- Tuo padre,- la sentì bisbigliare, - Parli così per tuo padre.

- Mio padre…

- Parlami di lui.

Si costrinse a ridacchiare.

- Qualcuno l’avrà sicuramente fatto, per metterti in guardia contro i viziosi Cuveé.

- A me interessa quello che hai da dire tu.

Studiò di nuovo i tratti sfumati di quella macchia sulla parete, mente ripensava ai ritratti in bianco e nero di Alain Julian Cuveé, lo sguardo di sua madre quando passava un aereo in cielo e le medaglie, soprattutto le medaglie…

- Amava scrivere, non che fosse molto bravo, ma amava farlo e, visto che era nato in una famiglia come la tua, poteva permettersi il lusso di illudersi che avrebbe vissuto di questo. Quando però il cadavere di suo padre venne ritrovato a galleggiare sull’Hudson, dissero suicidio, ma viste le conoscenze che vantava mio nonno nessuno ci credette, Alain fu costretto ad aprire gli occhi, mentre i creditori rosicchiavano gli ultimi resti dell’impero dei Cuveé e centinaia di persone perdevano il loro lavoro.

Dovette scegliere una carriera nell’aviazione, contando sulle poche conoscenze che gli erano rimaste e nel frattempo si innamorò della cameriera che ogni giorno gli serviva il caffè, un tale e scontato cliché per gli uomini della mia famiglia, e finì per sposarla. Poi ci fu Pearl Harbor e tutto cambiò: Alain dovette partire e seppe di me solo per lettera.

Scomparve in una qualche missione in Giappone…- stava mentendo, sapeva ogni particolare della morte di suo padre, ma quel tono vago e indifferente era l’unico modo che conosceva per poter raccontare quella storia.

- E il libro?- domandò lei a voce bassissima.

- L’Averno sulla terra, intendi? A mia madre portarono dei taccuini che mio padre portava sempre con sé e lei si convinse che erano poesie bellissime e che tutti dovevano conoscere l’orrore di un uomo costretto a portare morte attraverso il cielo. Si era convinta anche che la creatura luminosa di cui parlava in quelle poesie, l’unica cosa che avrebbe potuto salvare la sua anima, era lei, sua moglie, e che era suo compito far pubblicare quella raccolta.

- E non era lei?

Scosse la testa:- No, mia madre era così debole da non poter salvare nemmeno se stessa.

Un’ombra scura passò nello sguardo di Merope e fu facile per lui indovinare cosa stesse pensando.

- Tu non sei come lei. La tua forza scorre oltre l’apparenza di un volto delicato e di parole ben educate. Sei qui, dopotutto, no?

Si sorrisero per un attimo, complici come non lo erano mai stati fino a quel momento.

- Eppure c’è riuscita,- commentò lei mentre si stiracchiava, - A pubblicare il libro, dico.

- Sì, ma a che prezzo? Per farlo dovette spendere gli ultimi risparmi della famiglia e credette di aver salvato mio padre.

Si alzò dal letto per andare alla ricerca delle sigarette. Ne accese una, fingendo di non accorgersi dell’imbarazzo e della curiosità che provocava in Merope il suo muoversi per la stanza completamente nudo e rilassato. Tornò a letto, con lo stesso passo tranquillo e le si sdraiò accanto passandole la sigaretta. La prese con naturalezza e altrettanto naturale fu il gesto con cui la portò alla bocca e cacciò fuori il fumo dalle labbra.

- Non solo la guerra, quindi…- disse, passandogli la sigaretta. Lui, però, non la prese, limitandosi ad avvicinare la bocca e a sfiorarle le dita mentre aspirava.

- Che intendi?- domandò, trovando fatica a concentrarsi sulle parole.

- Ad aver condizionato la tua esistenza non è stata solo la guerra, ma anche le parole,- gli spiegò, portando la sigaretta alla bocca,- C’è la guerra, sì, e forse hai ragione e la guerra non finirà mai, ma ti hanno fatto dono della scrittura e, se solo lo volessi, stasera potresti portarmi in un mondo in cui è sempre estate, un luogo in cui noi stiamo ballando e sappiamo che lo potremo fare per sempre, un posto in cui Orfeo si potrà girare senza la paura di non trovare la sua Euridice…

- L’assenzio sta facendo il suo effetto,- commentò lui, preso da una tenerezza che non aveva mai conosciuto prima di incontrare quella donna-ragazzina, - O forse sarà la sigaretta, visto che non contiene solo tabacco.

Lei ridacchiò, facendo un altro tiro e lui la costrinse a restituirgliela.

- Dove vorresti andare, quindi? Al Max’s? Vediamo…- si fermò, cercando un’immagine nella sua mente
e, una volta trovata, riprese a parlare:- Indossi vestiti provocanti e ogni artista presente ti sta pregando di posare per lui o lei, ma tu sei una Gala fedele al suo Dalì, dici di no a tutti e pensi a quando saremo a casa e farai l’amore con me, tra poesie che ti vedono come unica e incontrastata musa.

Spense la sigaretta, andò alla ricerca dell’assenzio e lo portò con sé a letto. Lei glielo prese dalle mani e ne mandò giù un sorso.

- Vuoi proprio mettere alla prova quello che diceva Wilde?- commentò ridendo lui.

Lei scosse la testa, adagiandosi sui cuscini con un’espressione molle sul viso.

- Oppure potremmo essere a Woodstock. Indosso quell’abitino bianco e…

- Quello trasparente?- la interruppe per stuzzicarla.

 Lei lo guardò maliziosa, mentre proseguiva: - Ho dei fiori tra i capelli, c’è della musica … percussioni, chitarre elettriche, una voce intensa…Fa così caldo che mi spoglio davanti a te e, con tutta calma, mi immergo in acqua, mentre tu mi guardi da lontano.

- Non così lontano, spero,- disse dandole un rapido bacio sulle labbra sorridenti, - Sarebbe bello, mi ci potrei abituare…

- Perché parli in via ipotetica?- lo rimproverò, rabbuiandosi, - Lo faremo.

- Avrai assaggiato pure i sei chicchi di melograno, ma Persefone doveva comunque tornare da Demetra per sei mesi l’anno… Hai intenzione di fare così? Un po’ signora Ambroser, un po’ amante di Cuveé?
Lo spinse via, indispettita.

- Credevo fosse ovvio,- disse a labbra strette, - Io ho scelto, Julian. Ho scelto di…

La baciò e fu per la gioia e la paura che quelle parole gli avevano acceso dentro: in fondo, non aveva mai creduto che alla fine Merope avrebbe potuto fare una simile scelta né ci aveva mai sperato e adesso, adesso non riusciva a sentirglielo dire.

Senza interrompere il contatto delle loro labbra, le passò le mani sulla schiena e stringendosela addosso la aiutò a distendersi sul materasso. Si sollevò appena perché i suoi occhi potessero assaporare l’ampio sorriso che illuminava il volto e gli occhi di Merope, quando una forza inspiegabile lo costrinse a guardare alla sua destra, lì dove la macchia di vino rosso – un melograno a pezzi – restava muto ricordo di eventi appena trascorsi.

Scosse la testa, come a voler cacciare via l’immagine e rivolgere così tutta la sua attenzione alla donna stesa sotto di lui. Non ci riuscì del tutto: l’assenzio infine aveva fatto il suo effetto e ormai vedeva le cose per come stavano davvero. Era la cosa più orribile del mondo.
***
Era poco più che un’eco, una sensazione annidata da qualche parte nella testa e più si sforzava di ricordare quel momento, di capire se fosse realmente accaduto o no, più le sfuggiva di mente, apparendole come un fotogramma tremolante dall’audio disturbato.
Ricordava di essersi addormentata accanto a Julian, con la testa sul suo petto e le braccia di lui intorno al corpo. Ma c’era stato quel momento, poco prima: delle parole che lui le aveva detto e delle sue domande preoccupate, ma adesso… Adesso erano nascoste sotto i fumi dell’assenzio bevuto la notte prima.
Appena svegli, si erano subito preparati per uscire: lui diretto chissà dove – aveva biascicato di un incontro con qualcuno -, lei verso casa Core per prendere lo stretto necessario per lasciarsi tutto alle spalle. Subito prima di lasciare da casa, Julian le si era avvicinato e le aveva dato un bacio sulla tempia destra.

- Lasciali sciolti,- le aveva detto, sfiorando con le labbra i capelli.

Così aveva fatto e adesso i lunghi capelli biondi le solleticavano il viso, mentre il vento autunnale li ravvivava e lei si lasciava indietro il taxi che l’aveva accompagnata a casa.

Ignorò lo sguardo curioso del portiere e si diresse a passo sicuro verso l’ascensore, dove, mentre i piani si susseguivano uno dopo l’altro, iniziò a domandarsi chi avrebbe trovato e a pensare alle parole con cui avrebbe spiegato l’assenza di quella notte.

Non bussò, usò le chiavi per aprire e quasi rimase delusa quando ad accoglierla trovò solo il silenzio. Credeva che avrebbe trovato tutta quanta la sua famiglia, pronta ad accusarla e a muoverle improperi di ogni tipo. Invece no, pensò incrociando lo sguardo di una cameriera, sembrava una mattina come tante, sembrava che l’unica erede dei Core avesse dormito nel suo letto come sempre.

- Mia madre è in casa?

La cameriera si limitò ad annuire e a mormorare qualcosa di incomprensibile.
Merope si diresse verso la sua camera, finendo con il fermarsi bruscamente non appena fu davanti alla porta aperta e vide il disordine al suo interno: il contenuto dei cassetti se ne stava in bella vista sulla scrivania, il baule grigio chiaro ai piedi del letto era rimasto aperto e diversi oggetti personali erano stati gettati a terra con noncuranza. Ma ciò che davvero la indispettì fu la vista di tutto ciò che era stato lasciato sopra il suo letto e della persona che era responsabile di tutto ciò: Chloe Core Silvery, sua madre.
Era intenta a leggere qualcosa, qualcosa che sembrava turbarla profondamente, se si prestava attenzione alle spalle contratte e all’espressione dura del viso. Ma Merope non aveva intenzione di indagare, voleva solo prendere le sue cose e lasciare la casa al più presto.
Entrò e sua madre si rese conto per la prima volta della sua presenza.

- Dove hai passato la notte?- le domandò, alzando il viso verso di lei.

Merope distolse lo sguardo per posarlo sugli oggetti che sua madre aveva lasciato intorno a sé. Erano tutti lì, esposti al giudizio della morale e Merope avrebbe tanto voluto prenderli e nasconderli a quegli occhi accusatori che la fissavano impassibili. C’era il vinile dei Velvet Underground, con il disegno sfacciato sulla copertina;  poco più in là, spiccava la riproduzione del dipinto di Dalì, con la domanda maliziosa che la penna di Julian vi aveva inciso; e poi tutti quei ritratti - La Bella Otero, Mata Hari, Clèo de Mérode, Diane de Poitiers, - con le loro scandalose biografie; da qualche parte dovevano esserci anche le tracce dell’amore impaziente di Orfeo per Euridice e dell’oblio anelato da Baudelaire nella bocca e nei baci di una donna.

- Dove sei stata?- tornò a chiederle Chloe, tradendo finalmente un briciolo di impazienza.

Era arrivato il momento di dirle la verità, di raccontarle tutto dei mesi passati e di comunicarle la sua scelta. La sua scelta…

- Anzi,- disse sua madre dopo un attimo di silenzio,- Ho cambiato idea, non voglio nemmeno saperlo. Parlerò io e tu mi starai a sentire.

No, si disse Merope, era indispensabile che a parlare fosse lei, ma c’era qualcosa che continuava a distrarla: era tornata quella fastidiosa eco che aveva disturbato il suo risveglio la mattina e che poi aveva avvolto di tristezza il suo saluto a Julian. Era un ricordo sfumato della notte appena trascorsa: lui le aveva fatto promettere qualcosa, ma cosa?

- Sei invaghita di un uomo che non fa parte del tuo mondo e non sei certo la prima Core a cui capita qualcosa del genere; ma vedi, a un certo punto, chi ti ha preceduto ha capito,- disse marcando l’ultima parola,- Ha capito che la vita è già troppo complicata per abbandonare il ruolo per cui siamo nati. Fino ad oggi, tu sei stata una Core e sei stata cresciuta ed educata per vivere tra di noi. I capricci – tuoi e di un uomo che ti ha dedicato poesie e canzoni volgari – ti hanno portata a questo punto.

Alle parole di sua madre, il ricordo sfumato che tanto la stava torturando sembrò finalmente acquisire tratti più netti: “Merope, hai qui con te la mia poesia?”, “No, l’ho lasciata a casa”, “Quando domani andrai lì, prendila e… guarda la busta, ok?”, “Di che stai parlando, Julian?”, “La busta, Merope, promettimi che guarderai la busta”, “Lo farò, adesso dormi”.

- Ma sei ancora in tempo, Merope,- continuò e il tono con cui parlò stavolta tradì tutta quanta la sua preoccupazione, - Dopotutto sei tornata a casa, sei qui e questo significherà pur qualcosa.

Era quello il momento giusto: le avrebbe detto che no, non c’era più alcuna scelta da fare e che avrebbe vissuto con Julian, in un mondo certo più difficile ma anche più vivo, un mondo in cui le uniche aspettative a contare erano quelle sue e dell’uomo di cui si era innamorata, un mondo pieno di libertà.

Eppure, adesso, tra lei e quel mondo c’era il ricordo della notte precedente, c’era quella busta. Lasciò quindi che sua madre continuasse a parlare di ruoli che la attendevano, di un uomo che la venerava, di una famiglia che la proteggeva e si mise a pensare alla busta. Dov’era quella maledetta busta? Perché era così importante che la vedesse?

- Pensa al futuro, Merope,- stava continuando sua madre, - Quelli come lui, quelli come quel Gabriel Hasmal non hanno nulla da garantire a nessuna donna. Forse adesso, giovane come sei e com’era Maia alla tua età, potranno apparirti splendenti…

Splendenti? Julian e Gabriel? Sua madre non aveva capito nulla e lei glielo avrebbe anche urlato addosso se non fosse stata così occupata a rovistare tra gli abiti che aveva indossato qualche sera prima. Così si limitò a scuotere la testa e a sbuffare ironica.

- Sì, certo, convinciti che sia vero amore, ma cosa ne puoi sapere tu? Era amore voler costringere una ragazza a ricordare un’esperienza terribile che aveva faticato tanto a rimuovere dalla sua esistenza? Era amore farle ricordare di come avesse sfiorato la morte, lì sul Titanic, di come quella stessa morte le avesse lasciato un’impronta addosso?

No, si disse mentre infilava le mani dentro la tasca di un cappotto, quello non era amore. Ma era amore permetterle di dire addio alla Maia che era stata prima di salire sul Titanic e di accettare, finalmente e dopo tutto quel tempo, la nuova che ne era scesa.

C’era qualcosa dentro quella tasca e, trattenendo il fiato, lo tirò fuori.

La poesia di Julian.

La busta, finalmente.

- Cosa farai quando lui ti abbandonerà? Non dico che lo farà per un’altra donna, ma con la vita che conduce non ci vuole molto a immaginare che fine possa fare uno come Julian Cuveé. Hai sentito di quel Virgile, il figlio dei Cybel? Ecco, dimmi: cosa farai quando non ci sarà più nessuno dei Core accanto a te? Quando Duncan avrà trovato un’altra donna, quando sarai rimasta sola in quel mondo che hai tanto idealizzato? Tu non hai mezzi per sopravvivere lì, Merope.

- Mamma,- voleva solo che tacesse, voleva solo…- Mamma, sono stati tutti quei regali… Lui li chiamava chicchi di melograno, come in quel mito e, so che ti sembrerà assurdo, ma la verità è che hanno fatto proprio quell’effetto. Non ho mai avuto molta esperienza, mamma, ed è bastato che lui mi dedicasse poesie e dipinti perché mi dimenticassi di me stessa. 

C’era riuscita, sua madre tacque per un momento che sembrò stiracchiarsi sempre di più, in un silenzio carico di domande e pensieri. Forse Chloe si stava sforzando di capire le sue parole, che sembravano del tutto in contrasto con le azioni della notte passata. Per quanto riguardava lei, invece, c’era un unico pensiero. E lo sentiva, come se fosse qualcosa di fisico, mentre si propagava nella sua mente e ne occupava ogni più piccolo spazio, pressando ogni nervo e provocandole un dolore che le fece strizzare gli occhi. Lo sentiva, con ancora più chiarezza, mentre si faceva spazio in tutto il suo corpo e trascinava via con sé tutto ciò che trovava nel suo violento cammino: lo champagne bevuto al suo fidanzamento, una voce maschile che leggeva poesie, una musica liberatoria, baci a fior di labbra, baci esigenti, le mani sul corpo, l’assenzio, altra musica, altre poesie…Tutto sparito, tutto distrutto.

- Stai dicendo che è tutta colpa sua?- sentì che sua madre le stava domandando.

- E della mia inesperienza,- rispose, ignorando quella voce che le urlava contro parole come tradimentobugiarda.

Si girò a guardare sua madre e le sembrò di vederla per la prima volta dopo un tempo lunghissimo: era pallida, visibilmente terrorizzata da quella figlia che non le aveva mai dato una preoccupazione e che adesso tutto a un tratto faticava a comprendere. Le parve bellissima.

- Non preoccuparti, mamma,- cercò di sorridere, ma non ci riuscì, - Puoi andare a lavoro, mi troverai qui al ritorno.

Sua madre continuò a fissarla con quell’aria smarrita e, temendo altre domande, Merope le diede le spalle e iniziò a fare ordine nella stanza.

Ancora altro silenzio, poi Chloe tornò a parlare e il suo tono sembrò quello di sempre, sicuro e controllato: - Non voglio vedere mai più questi oggetti, ma ho troppo rispetto per te e lascerò che sia tu a occupartene. Questo, però, non ti appartiene.

Allarmata, si girò e vide che tra le tante cose che sua madre aveva scovato nel baule, adesso teneva tra le mani quella più antica: il diario di sua nonna, ciò che custodiva la Maia che nessuno aveva mai conosciuto, la chiave per comprenderne ogni gesto, ogni fuga, ogni scelta. A Merope, quello apparve come l’ennesimo tradimento di cui si era resa responsabile quel giorno. Stavolta non nei confronti di Julian, ma verso Maia e Gabriel.

- Non ti appartiene,- disse di nuovo sua madre, con una certa durezza,- E non hai alcun diritto di intrometterti nel passato dei nonni.

Un moto di ribellione tornò a baluginare dentro di lei, ma poi le venne in mente la busta, le parole che vi aveva letto, e quel moto si spense come tutto il resto. Annuì soltanto.
Quando sua madre la lasciò sola, Merope continuò a fare ordine nella stanza. Prese ogni regalo di Julian, lo guardò come un qualsiasi oggetto impersonale e lo ripose in una scatola che avrebbe lasciato nella cabina armadio, lì tra le bambole che aveva collezionato da bambina e i quaderni dei suoi temi più brillanti.

Oggetto dopo oggetto, si rese conto che non erano poi molti e che quella scatola era fin troppo grande; così, innervosita da quel pensiero, si alzò in piedi e, mentre andava alla scrivania, decise che alla fine dell’anno in quella scatola vi avrebbe messo anche il suo diario.

Gli occhi si posarono sulla poesia che Julian aveva scritto per lei, l’ultimo oggetto da riporre nella scatola, l’ultimo chicco di melograno. Si fece coraggio e la prese in mano; con le dita accarezzò l’inchiostro nero, scivolando su ogni singola lettera appuntita e su ogni tratto nervoso, mentre provava a immaginare lo sguardo di Julian posarsi su quella certa parola, che a lui e al suo pugno doveva la sua esistenza. Poi, con ancora più fatica, prese la busta. Quando le era stata recapitata da Sybille non ci aveva fatto attenzione, perché sì, in fondo che importanza può mai avere una busta? È così impersonale rispetto al suo contenuto.

E come ogni busta, anche quella era anonima e nulla diceva se paragonata a ciò che aveva contenuto. Non c’erano parole vergate dal pugno umano, ma solo timbri che si sovrapponevano l’uno sull’altro, spietati nel loro inequivocabile significato. Se infatti qualche dubbio poteva restare leggendo le parole “Order to Report for Induction”, lo stesso non si poteva dire per la familiare sigla apposta sulla carta, quella sigla che ogni americano in quegli anni aveva imparato a temere: U.S. Army.

Nessuna serata sfrenata al tempo di rock e al sapore alcolico.

Nessun gioco di seduzione alla luce del sole.

Nessuna notte passata a fare l’amore tra poesie scritte per lei.

Non ci sarebbe stata alcuna estate, per Merope e Julian: lui era diretto verso l’inverno, lei aveva scelto la primavera.
Un’eterna primavera.
 

“Ti hanno condotta a me, in un baluginio di lacrime rosse.
A me, che sono nato nella gelida nera terra e che mi appresto a farvi ritorno.
Ma ti ho conosciuta, infine, anche se per il tempo di un sospiro.
Ti ho conosciuta, mia primavera.
Nulla importa se non hai colori accesi o luci accecanti.
Tu sei una primavera contenuta, sei il primo fiore del ciliegio spoglio.
Sei vita, ma una vita che scorre sotto una superficie fredda.
Sei una giornata pungente rischiarata da un sole appena appena tiepido.
E se quell’unico fiore sembra sul punto di morire e quel sole sul punto di sparire, alla fine…
Alla fine no, per quanto fragili possano sembrare, alla fine riescono a sopravvivere.
 Così anche tu, Merope… anche tu infine potrai sopravvivere.
Alla gelida terra, al gelido Averno, ad Ade.
Mai inverno, mai estate.
Un’eterna primavera.”
J.C.


 

2013

 

 
 

-Ma sei sicuro che sia questo il posto?

Tai gettò un'occhiata attorno a sé perplessa, nello scendere dall'auto presa a noleggio a Williams Lake. Avevano lasciato la città da quasi un'ora, e attorno a loro non avevano visto nulla, se non la neve che ricopriva ogni cosa, alberi, strade, prati, fin dove occhio spaziava. Poi, davanti a lei, si delineò il profilo di una casa bassa, dalle pareti di legno chiaro, quasi si perdeva in tutto quel bianco. Quel posto le metteva pace: il nulla attorno a lei le dava l'impressione di trovarsi in un altro mondo, ai confini di una realtà che soccombeva dinnanzi alla pace e al silenzio più totale.

-Così ci hanno detto giù in città. Sempre dritto, fino alla fine della statale, finché non vi trovate dentro il confine di una proprietà.

Avanzarono un poco a fatica verso la casa, della quale ora si poteva vedere chiaramente l'interno, illuminato dalle decorazioni natalizie appese dietro i vetri delle finestre. A metà della strada, un gruppo di una decina di alberi celava un piccolo ruscello: era stato bloccato con degli assi di legno perché ghiacciasse e si era così creato un piccolo laghetto.

-Tai...- Ade si bloccò ammutolito, tirandola per la manica della giacca.

La ragazza si voltò a guardare nella direzione indicatale. Laggiù, un bambino con la testa coronata da un caschetto di riccioli biondi muoveva i primi passi incerti in bilico un paio di pattini così piccoli che probabilmente sarebbero stati tranquillamente nella mano di Ade. Accanto a lui, un uomo dai capelli scuri lo incitava, piegato sulle ginocchia, la sicurezza e la compostezza di chi, sulle lame, ci é nato.

-Forza, Pat. Dai che diventi più bravo di tuo padre! Non che ci voglia molto...

L' altro uomo, quello che dava loro le spalle, pattinando all'indietro con le mani tese in avanti pronte ad acchiappare il piccolo in caso di caduta, si alzò di poco, palesemente scosso dalle risate. Un brivido percorse la schiena di Tai: in mezzo a mille ne avrebbe riconosciuto il collo sottile, la figura slanciata, i capelli chiarissimi, anche se più corti di quelli che ricordava.

Ben.
 
Si voltò verso Ade, incerta e lui le sorrise, sfiorandole la guancia con un dito per incoraggiarla. Non fecero in tempo a muoversi, però, che l'uomo dai capelli scuri parve accorgersi della loro presenza e si sollevò fissandoli con l'aria incuriosita di chi, vivendo in mezzo al nulla, vede due estranei giungere a piedi lungo il viale principale della propria casa. Il suo gesto dovette attirare l'attenzione di Ben, che si voltò verso i nuovi arrivati, rimanendo impietrito nel riconoscerne i volti.

Tai non riusciva a muovere un passo, ancora incapace di realizzare che, dopo tutta quella fatica, suo cugino fosse lì. Forse aveva le guance più piene e un'espressione più serena, ma era sempre lo stesso ragazzo che aveva visto seduto nel salotto di casa sei anni prima per l'ultima volta. Il viso le bruciava per il freddo ma si accorse, d'improvviso, di aver cominciato a piangere. Non sapeva esattamente cosa si era aspettata, nel trovarlo: solitudine o forse tristezza e malinconia, sul suo volto magro. Invece Ben appariva inequivocabilmente felice, mentre si avvicinava con quello che doveva per forza essere suo figlio in braccio; non le ci volle molto per capire che in quella terra sperduta ai confini della realtà, il cugino si trovasse esattamente dove doveva stare.

-Sei sempre stata troppo brava a Scotland Yard. Sapevo che sarebbe successo, prima o poi,- le sussurrò quando si trovarono, finalmente, uno di fronte all'altro. Poi chinò il viso verso il bambino che teneva in braccio, sorridendo.

-Tai, lui é Patrick. Patrick Spencer.

-E da grande sarò un portiere.

-Non credo proprio!- protestò l'uomo che aveva seguito in silenzio Ben, fermandosi alle sue spalle. -Io sono Jonathan Spencer. Ho la sfortuna di essere il suocero di questo yankee.

-Suocero...- mormorò Tai incredula, sgranando gli occhi.

Fortunatamente, Ben ebbe l'acume di cogliere il suo sgomento, per cui, senza aspettarsi una risposta le sfiorò la spalla in un gesto affettuoso. -Forse é meglio se entriamo e ne parliamo con calma. Così magari il bel tenebroso laggiù si degnerà pure di venirmi a salutare. Mi spieghi che ci fai in giro con questa brutta gente, Tai?

Fu così che i due uomini si avvicinarono lentamente, incerti sul da farsi. Dopo quella che a tutti parve un'eternità, Ben allungò le braccia e strinse l'amico. E, mentre si abbracciavano, Tai notò infine qualcosa: quando aveva incontrato Caroline, Ade era sconvolto. Nel momento in cui l'aveva lasciata invece, aveva sì letto una traccia di malinconia, ma quello di cui aveva avuto la netta percezione immediatamente dopo, era stato il sollievo. Probabilmente la ragazza gli ricordava troppo sua sorella Charlotte, si diceva. Con Luke si era mostrato schivo, quasi impaurito di guardare quello che era diventato l'amico di un tempo. Invece, nell'osservarlo ricambiare l'abbraccio di Ben, Tai giurò di vederlo esausto. Come se qualcuno che, alla fine di un lunghissimo viaggio, fosse infine riuscito a tornare a casa. E, fra la sciarpa che gli copriva parzialmente il volto, avrebbe potuto giurare di aver visto scendere una lacrima.
***
La casa degli Spencer sembrava un luogo strappato al tempo che scorreva. Jonathan ne aveva fatto la sua dimora, dopo essersi ritirato al termine della carriera da giocatore di hockey professionista. In quella casa alle porta di Williams Lake, nella Columbia Britannica, aveva cresciuto i suoi figli, Aaron, Chris e Laura. I primi due avevano seguito le orme del padre, Laura invece era divenuta la maestra della scuola elementare del paese. Era lì che, nell'unico pub della zona, aveva conosciuto Benjamin McCauley, l'affascinante e misterioso tuttofare dell'Outlander, uno dei pub della città. Aveva sentito dire che fosse laureato in letteratura in Inghilterra e che, di tanto in tanto, desse qualche ripetizione per arrotondare e la cosa l'affascinava oltremodo. In lei, Ben aveva trovato tutto ciò a cui aveva dovuto rinunciare, dopo la sua levata di testa: affetto, calore, famiglia. Quando fra loro le cose si erano fatte serie al punto da necessitare delle risposte su quel passato che non aveva mai voluto rivelare completamente, lui aveva optato per la completa sincerità: sarebbe stato disposto a cambiare nuovamente vita, abitudini, lavoro, ma non poteva mentirle e, d'altronde, nutriva la speranza che lei non l'avrebbe mai tradito. Con suo grande stupore invece, la ragazza aveva accettato ogni sua parola, riponendo cieca fiducia in lui e nella sua promessa di aver chiuso con la vita passata. Si erano così trasferiti nella fattoria di Jonathan Spencer: due braccia in più non avrebbero fatto male e in quel modo non avrebbero rischiato che troppe domande o cavilli burocratici rivelassero il fragile segreto di Ben. Inoltre, la fama del nonno aveva fatto sì che, una volta nati Patrick e Zoey, l'adozione del cognome materno non destasse sospetto alcuno. Gli Spencer, da quelle parti, erano un'istituzione.

Laura era una ragazza dolce e affettuosa, molto diversa dalle conquiste che Tai e Ade ricordavano aver popolato il passato di Ben. Tutte uguali, belle da fare impallidire, capaci di far sentire in soggezione qualunque essere di sesso femminile si trovasse nei paraggi. Era piccola e atletica, in forma smagliante nonostante Zoey fosse nata da soli pochi mesi, aveva due profondi occhi verdi e un sorriso rassicurante. Ma la cosa che più faceva stringere il cuore a Tai era come Ben la guardava: sembrava che in lei, suo cugino riuscisse a trovare tutto quello a cui aveva rinunciato, fingendosi morto fra i flutti di una scogliera della Cornovaglia.

-Sei felice?- gli domandò accarezzandogli il viso coperto da un lieve strato di barba bionda. Avevano appena finito di cenare, Pat si era alzato e stava giocando con il trenino nuovo fiammante che gli aveva portato Babbo Natale qualche giorno prima mentre Zoey si stava placidamente addormentando fra le braccia di Ade, immobile sul divano, come se avesse paura che anche solo un piccolo movimento potesse romperla. Laura e sua madre preparavano la cioccolata calda aromatizzata alla cannella e il profumo di sprigionava per tutta la casa addobbata a festa. Con una stretta al cuore, Tai si rese conto della stupidità della sua domanda: non era li che da qualche ora, ma già aveva capito che suo cugino apparteneva molto più a quel posto che a qualsiasi ricco salotto dell'alta società avesse mai frequentato in passato.

L'uomo annuì assecondando con la guancia quel gesto e cingendole le spalle con un braccio. -É dura sapere che non potrò mai tornare indietro, però.

-Non vuoi che lo dica nemmeno agli zii? Vuoi che li lasci nella convinzione che loro figlio sia morto? Posso parlarne a mio padre, ci penserebbe lui...

Ben non le rispose subito. Appoggiò la fronte alla sua tempia, poi la baciò affettuosamente. -Magari un giorno. Un passo alla volta. É già troppo grande da superare il trauma di vederti qui con Eugene Aderley.

Tai lo fissò seria: -Noi non siamo... Voglio dire, penso che tu abbia frainteso il fatto che siamo arrivati qui insieme...

-Io non ho frainteso nulla. Però forse vorrai spiegarmi perché non porti al dito il famoso solitario di Tiffany con cui Al ti ha chiesto di sposarlo, tanto cantato sulle pagine di People dedicate al vostro fidanzamento. O il perché, per esempio, non hai staccato gli occhi di dosso a Ade nemmeno quando sono arrivati in tavola i resti della cheesecake che Laura ha fatto per merenda. Se non ricordo male, saresti stata in grado di uccidere, per quella torta.

Tai sorrise, guardandosi intorno imbarazzata in cerca di un diversivo.

-Se vuoi puoi spiegarmi anche perché, oggi pomeriggio, sulle scale la tua bocca si trovava esattamente sulla sua, ma per favore ometti i dettagli di quello che è successo dopo che vi siete chiusi la porta alle spalle.

Il pugno che gli tirò fu così forte che si fece male da sola. -Ma mi stai spiando come quando avevamo quattordici anni?

-Hey, cerco di proteggere mia cugina dai brutti ceffi che le girano intorno.

-Non ho bisogno di alcuna protezione, grazie. E, per la cronaca, non è successo nulla, prima.

Ben la scrutò aggrottando le sopracciglia, dubbioso.

-Non è successo nulla perché ci hai chiamato per la merenda. Cheesecake. E io uccido per la cheesecake, ricordi?
***
Gli occhi di Zoey erano ancora dipinti del lattiginoso grigio bluastro dei bambini di pochi mesi.

Ade l'aveva presa in braccio mentre era ancora sveglia e si era seduto su una poltrona all'angolo della sala non appena l'aveva vista sbadigliare. Fra le sue braccia sembrava così piccola che quasi aveva paura di spezzarne le piccole dita che gli stringevano l' indice, nonostante il sonno la stesse ormai catturando. E fu così che, invitato dagli sbadigli della piccola, cominciò a cantare, a bassa voce, una ninna nanna che nemmeno pensava di ricordare più. Era quella che intonava sua madre, nei rarissimi momenti in cui si sedeva sul suo letto e lo fissava mentre già dormiva, cullato dalle parole delle storie del giradischi. Non ricordava di averglielo mai sentito fare, quando ancora era sveglio: di norma, il sonno lo catturava prima ancora che lei tornasse dalle serate mondane, da una cena con suo padre, dalla palestra con le amiche. Però c'erano dei momenti che, nel dormiveglia, aveva avvertito il profumo fruttato della donna e ne aveva sentito il peso gravare sul materasso del suo piccolo lettino della stanza di New York. E infine la voce, quasi sussurrata, spezzata dalla paura che lui si svegliasse e la trovasse al suo fianco.

-Era una vita che non ti sentivo cantare.

Ben si era seduto sul bracciolo della poltrona su cui sedeva e fissava, oltre la sua spalla, la figlia finalmente addormentata fra le sue braccia.

-Sembra che al mostro piaccia. Dovresti farlo più spesso, magari riesci a fare un piccolo mostro anche tu.

-Mi manca la materia prima, Ben.

-Ah, davvero?

Entrambi sollevarono istintivamente gli occhi verso Tai, che stava fissando assorta Ade da lontano, martoriando la tazza di cioccolata calda che reggeva in mano. Quando incrociò il suo sguardo arrossì lievemente e poi distolse l'attenzione, rivolgendola improvvisamente a Pat, seduto ai suoi piedi a giocare con un paio di macchinine.

-Se hai fortuna puoi essere il primo a spezzare la maledizione.

Ade aggrottò le sopracciglia, guardandolo con aria smarrita. -Che maledizione?

-Non venirmi a dire che non la sai. La questione della collana di melograno, del principe consorte, dell'amante misterioso, delle eredi femmine e tutte quelle stupidaggini che ruotano attorno al nome delle Core. É la storia più vecchia e assurda del mondo, ma pare che in famiglia ci credano seriamente. É partito tutto da un'antenata... un'inglese, credo. Poi si è tramandato di figlia in figlia, fino alla trisnonna di Tai, Maia e anche Merope, evidentemente, ne è stata vittima...- ridacchiò Ben.

La conosceva, quella storia, meglio di quanto l'amico credesse, ma non gli era mai passato per la testa di vederla come una maledizione, piuttosto come uno strano scherzo del destino che accomunava le storie di Taigete e di sua nonna, la fortuna sfacciata di Duncan Ambroser e quella di Alistair Elliott.  E il suo soprannome con quello del dio greco con cui, per una strana ragione, si era identificato Julian Cuvée, naturalmente.

-Non ne ero a conoscenza,- mentì spudoratamente sentendo le pulsazioni aumentare e la gola farsi secca.

-Beh, tanto meglio, allora. Tanto sono tutte idiozie.

Ben si alzò e gli diede una pacca sulla spalla. -Senti, puoi restare li a cantare per altri... beh si, per almeno altri cinque giorni? Forse così io e Laura riusciamo a dormire. Sono tre mesi che non riesco a farlo per tre ore di fila, grazie al piccolo mostro.

Ade gli mostrò un sorriso tirato e annuì con la testa, voltandosi a cercare nel viso di Zoey quella serenità che vi aveva trovato qualche istante prima che Ben rovinasse tutto con le sue insinuazioni.
Cosa volevano dire le sue parole? Alludevano per caso al destino che attendeva Julian Cuvée? E se tutte quelle idiozie che gli aveva elencato e che aveva letto nel diario fossero state vere, cose ne sarebbe stato di lui?

Fu con il cuore il gola che salì le scale, qualche ora dopo e si diresse nella stanza di Tai: il diario era lì, sulla scrivania, accanto al fuoco che scoppiettava. C'era una tacita promessa fra di loro, suggellata nel momento in cui le aveva rivelato di aver dato un'occhiata ad alcune pagine del cimelio di famiglia: non leggere più di quanto non abbia letto l'altro. E, a sentire Tai, non aveva mai superato il punto in cui Merope Core parlava del suo matrimonio. In cuor suo sapeva che lo aveva fatto perché ne era spaventata al punto che sarebbe stato meglio non conoscere i dettagli di quella storia. O forse perché ormai credeva a quella stupidissima maledizione così tanto che temeva davvero di leggere il proprio destino, fra quelle righe.

D'improvviso, il bisogno di sapere cosa lo attendeva si fece così forte che, con un gesto secco, spalancò il diario e cominciò a leggerne avidamente le ultime pagine. Erano più accartocciate delle altre, segno che la giovane Merope aveva pianto quando aveva steso quelle parole, sempre più tremolanti e incerte. Le lesse d'un fiato, sgranando gli occhi man mano che proseguiva con la lettura e ciò che in cuor suo già sapeva, si materializzava davanti ai suoi occhi. A lettura terminata, rimase qualche secondo a fissare la pagina bianca, come se sperasse ancora che il diario gli portasse risposte differenti. Poi, con un gesto rapido della mano, strappò l'ultimo capitolo e lo gettò nel fuoco davanti a lui, rimanendo a guardarlo mentre, con atroce lentezza, si distruggeva. Fu in quel momento che sentì la porta schiudersi alle sue spalle e vide Tai entrare nella stanza.

-Speravo fossi qui,- gli disse chiudendosi la porta alle spalle. -Dobbiamo parlare di quello che sta succedendo, Ade. Non possiamo continuare a fare finta di niente e rimandare questo discorso.

 

 

Sono molto orgoglioso, vendicativo, ambizioso, con più malefatte in attesa di uscire che pensieri da far entrare, fantasia per dar loro forma, o tempo per porli in atto. Cosa fanno i tipi come me, che strisciano tra la terra e il cielo? Siamo dei furfanti matricolati tutti quanti, non credere a nessuno di noi. Vattene in un convento.
 

***
-Stai tremando.

Ade si affrettò a passarle sulle spalle la pesante coperta variopinta, ma Tai lo respinse: non sarebbe stata quella a farla smettere di tremare convulsamente. Era la paura che la scuoteva, tanto che poteva avvertirne gli effetti dalla punta dei piedi fino al cuoio capelluto. Aveva provato mille volte quel discorso. Per ore e ore aveva scelto accuratamente ogni parola, perché così l'aveva abituata Ade: con lui ogni parola andava studiata e soppesata, dal momento che non potevi mai sapere cosa stesse pensando, dietro quegli occhi scuri e impenetrabili. Ma in quel momento, nel buio di una stanza che odorava di umido e sapone da bucato, si accorse che tutte le belle parole, tutti i discorsi, soccombevano nella distanza di uno sguardo che non sembrava terrorizzato da ciò che aveva da dire.

-Il giorno prima di arrivare a Londra ero alla tradizionale festa di Natale dei Core e me ne stavo appoggiata a una delle colonne del salone dei miei genitori. Tutto era stato studiato con precisione certosina da mia madre, per dar prova che la nostra famiglia fosse più unita che mai, che tutto ciò che dicevano i giornali sulla nostra vacanza in Europa erano castelli in aria costruiti su un semplice equivoco. C'erano persino i tuoi genitori, sai, a prova del fatto che nulla era cambiato e che gli unici rapporti che intercorrono fra le nostre famiglie sono costituiti dai punti messi a segno dall'infallibile servizio di tuo padre in doppio con il mio sul campo da tennis e dai fondi raccolti dalle nostre madri durante le cene di beneficienza. Tutto era perfetto: il cibo, le decorazioni natalizie che l'assistente personale di mia madre aveva confezionato per lei, perché sotto Natale la sua agenda è così piena che non ha mai trovato un minuto nemmeno per infilare una delle palline che io e papà, anno dopo anno, abbiamo scelto accuratamente. Alistair, elegantissimo nel suo completo di Prada nero con la cravatta blu di Hermes che i miei gli hanno regalato per il compleanno, affettuoso e allegro come lo é sempre stato, perché lui è nato così, solare, e non può farci nulla: lui sorride, Ade. E quando lo fa gli si illuminano gli occhi e io riesco a vedere tutto quello a cui pensa. Ed è bello, è rassicurante e contagioso. Attorno a noi, parenti, amici che chiacchieravano, discutevano dell'ultima partita dei Kniks, gli uomini sorseggiavano whiskey, le mie amiche spettegolavano su un certo attore del West End, sorpreso ad esibirsi a una festa a Soho, non so se lo conosci. Melany si lamentava del fatto che, nonostante tutto, aveva rifiutato la sua compagnia. E io non ho potuto fare a meno di lasciarmi prendere dall'infantile speranza che...

-Tai...- la voce di Ade suonava come una supplica. Una parte di lui non voleva ascoltarla, terrorizzata dalla ciclicità con cui un ignoto futuro lo chiamava a sé. Sapeva ormai che il prosieguo di quella confessione lo avrebbe condotto dinnanzi a una scelta che non poteva fare. Era al punto in cui la storia di Julian Cuvée si era conclusa e, sebbene si ripetesse che tutta quella storia non era altro che un mucchio di idiozie o credenze consolidate nel tempo, sapeva che, in quel momento, stava condividendo la sorte di quell'uomo.

-Me ne stavo lì e pensavo a quella casa, alla mia famiglia apparentemente perfetta, a una vita patinata, invidiata, ambita. Alla presunta felicità che mi si attribuiva. Dopotutto, chi non sarebbe stata felice al posto mio? É bastato il sentir pronunciare il tuo nome da Melany, a far crollare tutto quel fragile sistema. Ed è stata quella la prima volta, in tutti quei mesi, che mi sono lasciata andare a una piccola fantasia. Ho fissato l'albero con le palline che avevo comprato da bambina, quelle che avevo sempre voluto attaccare una ad una mentre mio padre al pianoforte strimpellava carole natalizie solo per me e, piano piano, mi sono resa conto che nella mia fantasia non c'era nessun appartamento a Park Avenue, con le finestre grandi e luminose. Non c'era nessuna festa in mio onore, non c'erano i miei genitori e nemmeno i tuoi. Non c'era Alistair. C'era un appartamento di cui non conoscevo nemmeno il colore delle pareti, o la posizione dei mobili. Ma sapevo che era intimo, bello e illuminato dalle luci che io avrei comprato ai mercatini di Winter Wonderland e che sì, c'erano le canzoni di Natale come avrei voluto, ma erano Baby please come home cantata da Bono, o Have yourself a Merry little Christmas nella versione di Bob Dylan, perché se avessi messo su quelle di Glee chi avrebbe sopportato il padrone di casa? E sì, forse non c'erano centrotavola in argento, raffinati piatti francesi, né camerieri con la giacca inamidata che servivano le pietanze ma, guardando bene, avrei visto che quello in cucina a controllare il tacchino ripieno, eri tu. E magari non saresti stato costretto in un completo di Prada con cravatta Hermes abbinata, perché a che serve un simile vestiario per un Natale così? Ma avresti canticchiato sovrappensiero, come fai sempre quando credi che nessuno ti stia ascoltando. E avremmo litigato, sempre e comunque sul vino troppo forte, sul mio trasformarmi in un elfo di Babbo Natale all'arrivo di dicembre, sui tempi di cottura dei miei biscotti, perché ammettiamolo, io sarò anche negata, ma tu non me ne fai passare una!

Senza volerlo, la voce le si ruppe e, inarrestabili, le lacrime cominciarono a scorrerle sulle guance pallide.

-Sarebbe stato un casino, Ade, ma saremmo stati io e te. E mi sono resa conto di quanto questo sarebbe valso più di ogni altra cosa scintillante e perfetta si trovasse in quella stanza. É stato in quel momento che ho alzato gli occhi e ho incrociato lo sguardo di Al e lui...ha smesso di sorridere.

-Sei innamorata di lui?
-Al io...
-Tai ho bisogno di saperlo. Sei innamorata di Eugene Aderley?
Aveva abbassato la testa, incapace di fornire altra risposta che non fossero le lacrime provocate dal bruciante senso di colpa, di vergogna per il calore con cui quella piccola puerile fantasia l'aveva confortata.
Era fuggita di corsa perché non poteva dargliene una, perché sapeva che finché non fosse andata a fondo a quella storia, non avrebbe potuto darne a sé stessa, figuriamoci ad altri.
"Non è che un attore a caso ha un ruolo in tutto questo?" le aveva domandato Caroline la notte in cui tutto era cambiato, a Capo Tenaro.
Allora le aveva risposto che non capiva cosa intendesse. Ora non più.

-Io...sono innamorata di te, Ade.

-Tai...- riuscì a mormorare senza convinzione. Sapeva che avrebbe dovuto fermarla molto prima: non avrebbe nemmeno dovuto permetterle di arrivare a quel punto. La notte a Capo Tenaro, la debolezza del rivedere Caroline, lo stupido desiderio di una vita che non era fatta per lui: le parole di Tai, la sua illusione, non erano altro che la prova tangibile del fatto che negli ultimi mesi non aveva fatto che accumulare un errore dopo l'altro, a partire dal momento in cui, accecato, da un inutile desiderio di vendetta, era partito per quell'assurdo viaggio. "Quelli come noi non cambiano, Aderley. Prima te ne renderai conto, meglio sarà", gli aveva rinfacciato Luke un attimo prima che gli stampasse l'orma della mano destra sul labbro. Quelli come lui, come Luke, come Julian Cuvée. Uomini che la vita aveva rigettato, trascinandoli alla deriva di un mondo che li aveva rifiutati e dal quale erano volontariamente fuggiti, assieme al peso delle proprie colpe.

Solo in quel momento si rese conto di aver rovinato tutto, ancora una volta. La sua vita era stato un continuo distruggere tutto quello che di bello gli veniva concesso. Se chiudeva gli occhi riusciva ancora a sentire la voce di Charlotte, la prima volta in cui gli aveva detto che lo amava: ricordava come si era sentito, come si era ripromesso di mettere la testa a posto, per diventare degno di starle accanto. Ma, la notte in cui l'aveva baciata l'ultima volta, la sua mente era annebbiata dalla cocaina e l'unica cosa che riusciva a ricordare era il sapore del fumo, ovunque e la sua voce che lo chiamava disperatamente prima che Ben lo trascinasse via e lui perdesse conoscenza. Riusciva a vedere gli occhi di sua sorella Scarlett, la sola della sua famiglia che avesse mai considerato tale, illuminarsi quando lo vedeva comparire dal fondo del viale del collegio inglese dove i loro genitori l'avevano spedita, come avevano fatto quattro anni prima con lui. Riusciva a leggere ancora la cocente delusione sul suo volto quando, settimana dopo settimana, si trovava davanti a un ragazzo sempre più disfatto e silenzioso. Quando suo padre, vergognandosi di quel figlio che aveva infangato così tanto il buon nome degli Aderley lo aveva cancellato dalla linea ereditaria, lei aveva tentato di convincerlo a rimanere, ma lui aveva risposto di odiarla e di considerarla morta, come il resto della famiglia. E infine tutto il male che era disposto a infliggere a Ben, il migliore amico che avesse mai avuto, in nome di una puerile vendetta che mai avrebbe cancellato il senso di colpa che lo divorava.

Ma non poteva fare lo stesso a Tai. L'amava anche lui, almeno aveva l'onestà di ammetterlo. Se ne era reso conto poco prima, quando l'istinto di proteggerla dalla verità lo aveva spinto a strappare le pagine di quel diario e a gettarle nel fuoco. Se Tai avesse saputo cosa successe prima del matrimonio di sua nonna, cocciuta com'era, avrebbe tentato di fare qualcosa di più stupido di quello che stava facendo lui per allontanarla da sé.

Ma non c'era rimedio, la storia di Julian parlava chiaro. Doveva lasciarla andare, nella speranza che si dimenticasse di lui il prima possibile, e tornasse alla sua vita di sempre.

-É  davvero per questo che hai lasciato tutto?

La ragazza annuì scossa dai singhiozzi.

-Tu sei pazza.- disse scuotendo la testa. -Tai, hai una vita perfetta, un fidanzato che ti ama molto di più di quanto potrei fare io, una famiglia che con tutti i suoi difetti, ti ha sempre sostenuto. Hai ritrovato Ben. Mi spieghi cosa vuoi? E prova a rispondere "voglio te" e ti metto alla porta.

-Beh...é vero.

-Che cosa ti aspetti? Che ti dica che ti amo, ci baciamo, ci sposiamo e viviamo per sempre felici e contenti? Che ti lasci gettare all'aria la tua vita in questo modo?

-Non capisco come potresti...

-Io distruggo le persone, Tai! Non te ne sei ancora resa conto? Charlotte, mia sorella, il nome  della mia famiglia. É durato qualcosa in mano mia? Quanto ci metterai a renderti conto di quello che sono davvero? Allora sarà troppo tardi per tornare indietro e tu rimarrai intrappolata in una vita a metà fra quella che sei nata per condurre e un'esistenza lontana da tutti, come la mia.

-Ade, smettila, per favore...

-É così e la storia parla chiaro. La maledizione delle Core esiste davvero Tai, ma non è una strana stregoneria che si avvera, è semplicemente perché gli uomini come me, come Julian Cuvée non possono cambiare! Alla fine la vita viene a reclamare i suoi prestiti e noi non possiamo fare altro che rimanere immobili a guardare, mentre ci viene portato via tutto, perché è questo che ci meritiamo. E io non posso chiedere anche a te di pagare per quello che sono. Finiresti per odiarmi e io non potrei vivere sapendo di averti inflitto tanto dolore.

-Non potresti mai...- cercò di interromperlo lei.

-Lo sai perché ti ho cercata, Tai? Perché volevo distruggere la vita di tuo cugino, quella bella vita che si era costruito tagliandomi fuori, mentre io rimanevo solo, senza nessuno su cui contare in un momento in cui tutto il mondo accanto a me si sgretolava. Sapevo che senza di te non ce l'avrei mai fatta: eri la carta da giocarmi per trovare informazioni su di lui.

-Ma mi credi scema?- gli rispose Tai con sguardo di sufficienza. -Ti sei mai accorto di quanto parli nel sonno? Alla terza volta che ti ho sentito infilare di seguito le parole "Ben", "incendio" e "non é colpa mia", mi é venuto il sospetto che quella sera non mi avessi mostrato tutto il contenuto del video che avevi trovato. E ho visto il tatuaggio di Ben. Perché era il suo, vero?

Ade annuì, abbassando il capo. -Ma non gli dirò nulla, tranquilla, anche perché... ho perso il telefono quella notte in spiaggia a Taormina.- mentì con scarsa convinzione.

-E allora non capisco di cosa stiamo parlando.

-Tai, non cambia nulla! Ti rendi conto di quello che ho fatto? Sarei stato disposto a distruggere la vita del mio migliore amico e la tua con lui, pur di sentirmi la coscienza pulita!

Tai sentì la pazienza venire meno. -Saresti stato disposto, ma non l'hai fatto. Sono passati due mesi da quando Luke ti ha dato il suo indirizzo, eppure a meno che la memoria non mi inganni, ti ho trovato su un palcoscenico a Londra con un paio di pantacalze verdi a combattere contro Capitan Uncino e non qui, a mettere in atto i tuoi crudeli piani di vendetta.

-Chi ti assicura che non lo avrei fatto, se non avessi perso le prove?

Se non fosse stata così infuriata, sarebbe scoppiata a ridergli in faccia. Invece si limitò a fissarlo con aria di sufficienza, come per sfidarlo a sostenere il contrario. Ade aprì la bocca più volte, senza sapere come rispondere al suo sguardo. Si alzò dal letto, piantandosi le mani nella tasca della felpa e dandole le spalle.- Torna a casa Tai, fai pace con Alistair finché puoi. Sposalo e vivi la vita che ti spetta. Io non posso dartela.

-Sei davvero così tanto idiota da credere al mucchio di stronzate che stai farneticando? Guardami, Eugene.

Finalmente Ade voltò si voltò verso di lei. Il fatto che lo avesse chiamato con il suo vero nome, slegandolo per la prima volta da quell'assurdo paragone che gli pendeva come una spada di Damocle sul collo, gli faceva saltare i nervi. Era come se Tai stesse rigettando la profezia stessa nella quale lui si era rifugiato, cercando una comoda via di fuga da ciò che lo spaventava di più: ricominciare la sua vita là dove l'incendio l'aveva interrotta. Rimase a fissarla in preda ad un soffocante senso di impotenza: la seconda possibilità che aveva agognato, per tutti quegli anni, stava davanti a lui, immobile, impassibile. Sarebbe bastato allungare il braccio e trascinarla con sé su quel letto colorato per ricominciare daccapo: niente più solitudine, viaggi, lavori saltuari. Niente più rapporti destinati a concludersi nel giro di una notte e, forse, con il tempo, niente più rimorsi, incubi o sensi di colpa. Tai stava li, stretta nel suo pigiama a quadretti e gli stava offrendo, su un piatto d'argento, tutto questo. Solo un pazzo, o uno stupido, si diceva, avrebbe potuto lasciarsela scappare e lui doveva necessariamente esserlo perché, preso un respiro per infondersi coraggio, la fissò impassibile e alla fine, con tono duro e secco, le rispose: -Si.

-E allora credo che io e te non abbiamo più niente da dirci. Ora se non ti dispiace, vorrei dormire, quindi puoi tornare nella tua stanza.
***

-Non riesci a dormire?

Ade sussultò, facendosi andare di traverso il sorso di acqua. Erano da poco passate le undici, il che da quelle parti equivaleva a notte fonda, ma lui non riusciva a dormire e così era sceso in cucina a schiarirsi le idee.

-Ade, io credo che noi due dobbiamo parlare di un bel po' di cose.- Ben si avvicinò al frigorifero, estrasse due bottiglie di birra e le depositò sul bancone, facendone scivolare una verso l'amico. Poi prese posto su uno sgabello e si mise a sorseggiare l'alcolico, in paziente attesa di una risposta.

-Non c'è molto da dire.- gli rispose infine. -Sono contento che tu sia vivo, io in qualche modo me la sono cavata, stiamo entrambi bene e mi sembra che questo liquidi la faccenda, no?

Era ancora turbato dalla discussione con Tai e non sopportava l'idea di dover affrontare anche quella con Ben.

-Ade, per favore, lascia che ti spieghi...- cominciò, ignorando il suo tentativo di troncare il discorso.

-Cosa vuoi spiegarmi, Ben?- Non voleva risultare aggressivo, ma le parole uscirono dalla sua bocca con una violenza inaspettata. -Vuoi illuminarmi per caso sulla ragione per cui hai fatto credere a tutti di essere morto? O forse sul perché sei scappato, senza nemmeno premurarti di scrivere un biglietto, lasciandomi da solo con il senso di colpa di non aver capito che stavi male al punto da buttarti con l'auto giù da un dirupo? O sul perché, fra tutti, ti sei rivolto a quel relitto umano di Luke Pendleton?

-Ade, io...- balbettò Ben colto di sorpresa.

-O forse non hai il coraggio di spiegarmi nulla di tutto questo perché ti senti una merda per esserti rifatto una vita, avere messo su una casa e una famiglia meravigliosa quando hai sulla coscienza venti vite? Come fai ad andare a letto la notte con questo peso, eh Ben? Avevamo vent'anni, santiddio!

-Cosa diavolo vai blaterando?- domandò Ben sgranando gli occhi perplesso.

-Vuoi dirmi che non hai mai visto il video sul tuo telefono?

-Quale video?

-Quello che ha girato Chuck pochi istanti prima che lo chalet prendesse fuoco. Era nel tuo telefono, non puoi non averlo visto.

Ben tacque mordicchiandosi il labbro, dando conferma a Ade che le sue accuse erano fondate.

-Direi che questo silenzio dice molto più di mille parole. Perché non me lo hai mai mostrato, Ben? Potevi fidarti di me, sapevi che non ti avrei mai accusato!

L'amico lo fissò deformando il viso in una smorfia perplessa. -Io non capisco davvero cosa tu stia dicendo.

-Nel video si vedono chiaramente le tue mani mentre giochi con le candele dalle quali si è sprigionato l'incendio. Eravamo strafatti, tu non sentivi nulla e continuavi a far muovere la fiamma...- la voce di Ade si spezzò e le lacrime gli salirono agli occhi senza che riuscisse a fermarle.

-Ade...- Ben allungò la mano attraverso il tavolo, sfiorandogli il braccio. -Vuoi sapere davvero perché non ho mai mostrato quel video?

L'uomo annuì, senza spostare il braccio.

-Innanzi tutto ne sono entrato in possesso molto tempo dopo la conclusione del processo. Luke lo ha trovato infilato chissà dove e me lo ha ridato. Pensava fosse un cimelio divertente da conservare, povero idiota.

Ben si prese una pausa, bevette un sorso della sua birra e non riprese con il suo racconto finché non vide apparire sulle labbra di Ade un accenno di sorriso.

-E vuoi sapere davvero qual è stato il mio primo pensiero quando mi sono reso conto del contenuto? Sei stato tu. Per la stragrande maggioranza del filmato ti si vedeva con Charlie e se non riuscivo a guardarlo io, come avresti potuto reggere tu? Secondo motivo, quel video confermava le conclusioni tratte a termine delle indagini. É stato tutto un incidente.

Ade si sollevò in piedi e si avvicinò all'amico, urlando infuriato. -E lo chiami incidente? Hanno confermato che l'incendio si è propagato dal tavolo dove tu giocavi con quelle candele! Lo si vede nel video...-

-Da dove, Sherlock?- gli domandò ridendo Ben nel farsi indietro con la sedia.

-Dal tatuaggio. E poi dal mio richiamo a lasciare perdere quella roba e passare ad attività più dilettevoli.

-Ok che sei sempre stato un po' tardo, ma ti ricordo che io e Dwight avevamo lo stesso tatuaggio ad eccezione della lettera finale. La mia diventa una piuma, la sua un semplice ghirigoro. E quello che appare nel video è chiaramente il suo. Mostramelo e avrai conferma che ho ragione. Come puoi essertelo dimenticato? Dovevamo tatuarci tutti e tre lo stesso estratto, ma tu alla fine hai fatto di testa tua come al solito e hai optato per la fine dell'Amleto. Digli questo, insieme al più e il meno degli eventi qui succedutisi… Il resto è silenzio. Hai cancellato la memoria, oltre che al tatuaggio?

-Io...- mormorò sfiorandosi la cicatrice che splendeva sul polso, senza sapere cosa rispondere.

-Ade, non nego di essere stato con lui in quel momento, quindi per come la vedo io non cambia nulla. In molti quella sera, se ben ricordi, avevamo preso della Ketamina, fra le altre, quindi non sentivamo nulla. Ero alle sue spalle, se non fossi stato strafatto mi sarei accorto della pericolosità di quello che stava facendo e l'avrei fermato. Invece sono venuto da te e l'ho lasciato a giocare vicino agli arazzi della Signora Pendleton. Ha davvero importanza adesso di chi è la colpa? Per come la vedo io siamo tutti colpevoli, perché chiunque di noi sarebbe potuto essere Dwight, in quel momento. E se una parte di noi è davvero sopravvissuta a quella notte, non potrà mai perdonarsi per quello che è successo.

-Perché non lo hai mai detto?- gli domandò Ade con un filo di voce.

-A cosa sarebbe servito? Noi due eravamo stati assolti. Dwight era morto, gli altri pure. Anche accusandolo non ci sarebbero state ridate indietro le nostre vite, Ade. Non la mia, non la tua, non quella di Charlie...

Ade si lasciò scivolare lungo la sedia e si nascose il viso fra le mani, scosso dai singhiozzi.

-Dio, Ade, mi dispiace. Avrei dovuto distruggere quel video, non so perché non l'ho fatto.

-Devi smetterla di scusarti!- quasi urlò Ade, con voce spezzata, sentendo la rabbia crescere dentro di lui.

-Si può sapere che cosa ti prende adesso?

-Lo sai perché io e Tai siamo qui, Ben? Credi che un giorno sia andato da lei a dirle che eri vivo per filantropia? Andiamo, mi conosci abbastanza per sapere che non può reggere questa scusa. Sapevo che era l'unica via per arrivare a te, e non mi sbagliavo. Se non ci fosse stata lei, Luke non mi avrebbe mai rivelato il tuo indirizzo. Non dopo come ho onorato la sua ospitalità a Taormina...

-Cosa hai combinato?- gli domandò Ben celando una risata.

-L'ho preso a pugni.- sorrise soddisfatto Ade.

-Hai fatto bene. Allora, mi vuoi dire tutta la storia o devo cavartela di bocca fra un pianto e l'altro?

Ade sospirò, si asciugò le lacrime e, infine cominciò a parlare.

-Quando ho trovato il video e ho saputo che eri vivo, l'unico desiderio che avevo era quello di scoprire dove ti nascondevi e denunciarti, per quello che avevi fatto. Dopo anni in cui mi trascinavo, vivendo alla giornata, finalmente qualcosa mi faceva sentire più vivo che mai. La rabbia nei tuoi confronti. Speravo che così mi sarei sentito meno in colpa, meno solo, meno ferito. Speravo che avrei vendicato la morte di Charlie, in qualche modo. Così ho usato Tai per arrivare a te, ma...dio che razza di idiota...

Ben proruppe in una risata fragorosa e domandò: -Ma mi stai prendendo in giro?

-Cosa dovevo fare Ben, eh? Quando te ne sei andato... beh non mi era rimasto nulla se non tu! Come pensi che mi sia sentito quando ho ricevuto la telefonata che mi diceva che avevano ritrovato la tua auto, eh? Per anni mi sono domandato se avrei mai potuto perdonarmi il fatto di non essermi accorto del fatto che stavi così male da buttarti giù da un dirupo per la disperazione? Mi sono sentito in colpa per il dolore che provavo, per essere stato debole, per averti lasciato morire giorno dopo giorno, sotto i miei occhi! E poi scopro quel video e contemporaneamente il fatto che sei vivo e vegeto, da qualche parte del mondo. E guardati. Ti sei rifatto una vita, sei felice, mentre io sono rimasto a navigare nel fango, nello schifo, nel rimorso, per anni. Non ho una vera casa, non ho un amico, non ho una Laura Spencer che mi ha accettato per quello che sono, né due figli con i capelli biondi, perché l'unica folle che mi aveva accettato è morta in quel maledetto chalet. Cosa avrei dovuto fare, secondo te?

-Certo che sei proprio un coglione se la pensi così. Credi davvero che io sia felice? Come pensi che sia convivere con il costante terrore di svegliarsi una mattina e scoprire che la fragile bugia sulla quale sta in bilico la tua vita crolli, portandoti tutto via un'altra volta? Come credi che mi senta ogni volta che mi sveglio di notte, dopo aver sognato che mi strappino via i miei figli, eh? Non ci hai mai pensato? Svegliati, Ade! Se fra noi due c'è qualcuno che ha l'occasione di rimediare agli errori del passato e rifarsi una vita, non sono certo io!

Ade scoppiò in una risata amara. -Le persone come me non cambiano, Ben. Quelli come me vivono in appartamenti popolati di fantasmi a Greenwich e si continuano a nascondere su un palco, perché almeno lì possono illudersi per qualche ora di essere uomini migliori di quello che sono nella realtà.

Ben riprese a ridere, e per un attimo non riuscì a trovare il fiato per riprendersi. -Ma ti ascolti mai, quando parli? Sei così tanto impegnato a crogiolarti nel tuo dolore che non ti rendi nemmeno conto che la tua seconda possibilità ti sta sotto il naso.

-La mia seconda possibilità mi ha appena chiesto di uscire dalla sua stanza e lasciarla dormire.- rispose Ade risentito.

-Perché le avrai propinato qualcuna delle stronzate che stai snocciolando senza sosta con me! Ade, ascoltami bene. La Tai che conoscevo io, era così presa dal tentativo di non disattendere mai a nessuna delle aspettative che si erano create su di lei che non si è mai nemmeno accorta di prendere da sola le scelte che la sua famiglia le aveva già imposto. Si compiaceva delle sue piccole e inutili ribellioni senza rendersi conto che in realtà non muoveva un passo fuori dai confini tracciati dal nome che le gravava addosso. Si imprigionava da sola, in poche parole. Aveva un fidanzato meraviglioso, ma - e che Dio mi perdoni per quello che sto dicendo perché Alistair è come un fratello per me- che era esattamente quello che la sua famiglia aveva scelto per lei.

-Un ragazzo dal quale dovrebbe tornare, se avesse un briciolo di spirito di auto...

-Mi lasci finire?- gli domandò spazientito Ben, mettendolo a tacere.

-La ragazza che ho visto oggi, invece, ha avuto il coraggio di mollare tutto. É stata pronta a voltare le spalle a una vita apparentemente perfetta, perché finalmente si è resa conto che non era quella per cui era nata. É una persona forte, determinata come non l'ho mai vista. Ed è stata così straordinaria, che è riuscita a renderti l'uomo che oggi ha trovato il coraggio di venire qui e raccontarmi tutto. Lo stesso che, dopo anni di vita nomade, senza una casa, un affetto, un punto fermo, ha riaperto il nostro appartamento di Greenwich e si sta ricostruendo una vita, tentando di non cadere più nello schifo che ha infangato la sua vita passata. Tai ti ha reso una persona migliore, Ade e tu in cambio, l'hai resa libera. Lasciala andare e non ti dimostrerai migliore del bambino immaturo che ho trascinato mezzo tramortito fuori da quel maledetto chalet.

-Papino...non riesco a dormire. Sei arrabbiato?

Ben si voltò di scatto verso la porta. Attraverso le gambe del grande tavolo di legno, Pat li osservava assonnato, con i piedini scalzi e un orsacchiotto stretto nella mano.

-Non é niente, tesoro. Adesso papà ti riporta a dormire.

Si alzò e si diresse a prenderlo in braccio, depositandogli un bacio lieve sulla tempia. Poi, mettendo fine alla discussione, si voltò verso Ade e lo ammonì: -Ricordati di quello che ti ho detto. Se la rifiuti lei andrà avanti, nonostante tutto. La domanda è, sarai in grado di farlo tu?
***
Quando, il mattino, i raggi del sole la svegliarono, Tai saltò sul letto, con il fiato corto.

Aveva sognato tutta notte Alistair che tentava di fermarla, alternando il suo viso a quello di Ade che le voltava le spalle. E poi il diario di sua nonna, il suo viso spento, le guance terree del giovane Julian Cuvée, e di nuovo Ade. Nel sogno continuava ad allungare la mano, senza riuscire ad afferrarlo, come se il suo fosse solo un ricordo, o un fantasma.

Scese scalza al piano di sotto, in cucina, dove trovò Ben intento a preparare il latte con i cereali per Pat e i gemelli. Non ebbe nemmeno bisogno di guardarlo in viso, per capire quello che era successo. Corse a perdifiato su per le scale, spalancando la porta della camera di Ade, con il letto perfettamente tirato, come se nessuno lo avesse usato.

Appoggiata sopra a questo, la copia dell'Amleto di Ben si perdeva nel mare di colori della coperta che ricopriva il letto. La sollevò, accorgendosi che nascondeva un pacchetto più piccolo, avvolto in fretta in un figlio di carta da giornale. Lo aprì con il cuore in gola e immediatamente un taccuino dalla copertina nera le cadde in grembo. Le sue pagine erano intonse, ancora incollate fra di loro e profumavano di nuovo, tranne che per la prima, dove stava infilata una polaroid voltata, così che non poteva vederne il soggetto ritratto. La voltò con dita tremanti, timorosa di scoprire cosa celasse: sulla superficie patinata erano ritratti lei e Ade, nel giardino della villa dei Chambers a Capo Tenaro, in un momento di spensieratezza. Lei rideva apertamente con la testa lievemente reclinata e lui la guardava compiaciuto, probabilmente fiero di averle strappato quella risata.

Sotto a questa, la sola pagina del taccuino non immacolata, il cui candore era sporcato da tre versi frettolosi, scritti con una penna blu.

Digli questo,
insieme al più e il meno degli eventi
qui succedutisi… Il resto è silenzio.

Si sedette sul letto incapace di muoversi, mentre il diario e la fotografia le cadevano dalle mani. Poi furono il rumore dei passi di Ben, il calore del suo corpo, così vicino e le sue braccia che la proteggevano e la sorreggevano. La storia si era appena ripetuta davanti ai suoi occhi e lei non aveva potuto fare nulla per mutarne il corso. Abbandonò la testa sulla spalla del cugino e li rimase, finché non sentì di aver pianto anche l'ultima delle lacrime che aveva in corpo.

 

 

 

-Io credo che sia ora che tu vada.
-E dove? A New York? O forse a Londra? O forse ovunque non sia casa, per dimenticare di essere rimasta completamente sola?
-Devi andare da te stessa. Ovunque tu ti trovi.
-Odio quello che sono diventata, Ben.
- Non puoi odiare quello che sei diventata. Sei libera, ora. Hai fatto così tanta strada che nulla ti lega più alla piccola e perfetta erede dei Core. Puoi scegliere ciò che vuoi essere, Tai. Puoi andartene di qui e decidere di vivere la vita che più desideri.
-Io... Desidero solo rimanere qui ancora un po', se me lo permetterai.
-Sai bene che questa è casa tua e che non c'è cosa ora che mi rende più felice di averti intorno. Ma la tua vita è altrove. Prima o poi questo vento che ora soffia leggero si alzerà davvero, Tai, ti porterà via da qui e ti condurrà verso una scelta. E per quanto vorrei che tu restassi per sempre, non potrò fare niente per impedirti di andartene. Perché tu sei nata per questo: cambiare il corso della storia. E non ci saranno cugini, fidanzati, genitori, nonne o amanti che potranno impedirtelo. Tu sarai ciò che desideri, a differenza mia, di tuo padre, di tua nonna, di Al e persino di Ade.
Davanti a lei, la strada bianca, libera, immacolata. Dietro, il solo vento che le sferzava i capelli, che posava la sua invisibile mano sulla sua schiena, come per invitarla a muovere i piedi e sporcare quell'intonso candore che le si apriva dinnanzi. Mai più legata a un destino già scritto. Mai più forzata a percorrere orme già tracciate per lei da qualcun'altro. Mai più erede, mai più figlia, fidanzata, nipote o qualunque altra etichetta l'avesse classificata sin dal giorno della sua nascita. Tai alzò lo sguardo verso il cugino e voltò la schiena alla strada, per accarezzargli il viso pallido.
-Dove vai?
-L'hai detto tu, no? Vado a essere ciò che desidero. Sempre che non mi perda nella desolazione dei dintorni di Williams Lake e finisca in pasto a un orso bruno.
-Mmmm... Sono quasi convinto che ci riuscirai. Specie se ti accompagnerò io.
-Torni a casa?
-Penso che sia ora che mamma e papà sappiano che sono vivo e che, finalmente, mi sono tagliato i capelli.  Che ne dici?
-Dico che ora non ho più paura.
-Non ne avevi nemmeno prima. Avevi solo bisogno di qualcuno che ti desse il coraggio di prendere in mano la tua vita e cambiarla.
-Per fortuna che ti ho ritrovato, allora.
-Non parlo di me.

 


Note Autrici

Finalmente siamo tornate, con l'ultimo capitolo di Maia e Mer: mancano, infatti, alla fine, un capitolo che sarà ambientato solo nel 2013 e l'epilogo, ed è per questo motivo che io, Emily (che ho litigato con l'html per ore. Letteralmente. Ore. -.-) e Agnes rubiamo qualche istante del vostro tempo.

Rubo un angolino di queste note per spiegare il finale di Merope, prendetela come una specie di apologia della debolezza. 
Come la nonna prima e la nipote poi, anche Merope fa del male a chi le sta intorno, si comporta in maniera discutibile e commette errori. Ma se nel corso della storia lo ha fatto più perché gli altri (Duncan, Julian, la madre, lo stesso James) glielo imponevano, trascinandola senza che mai osasse protestare, alla fine in questo capitolo Merope ha compiuto ogni scelta di testa sua. Lo ha fatto seguendo Julian fino a casa, lo ha fatto dandosi a lui completamente e lo ha fatto anche alla fine, davanti all'evidenza di un futuro impossibile insieme a Julian. 
Non è molto, probabilmente e forse una donna diversa da Merope avrebbe fatto di più, sarebbe corsa fuori di casa e sarebbe andata a cercare Julian. Ma questa è la storia di Merope e come dice Julian lei non sarà mai estate né inverno, ma forse potrà trovare un altro modo per sopravvivere... questo, però, lo vedremo nell'epilogo.
Come le mie colleghe, aspetto impaziente i vostri pareri e sì, anche eventuali parolacce contro Merope e il sempre più odiato Duncan, il grande assente (ma non troppo, se ci fate caso) di questo capitolo.
Agnes.

Per quel che mi riguarda (sempre Emily!) Maia ha compiuto l'unica scelta possibile: contrariamente a Merope, che sceglie Julian anche se alla fine non va fino in fondo, Maia non ha mai pensato ad una vita con Gabriel perché sa, e spero di averlo fatto trasparire, che loro due insieme non avrebbero fatto altro che distruggersi a vicenda, mentre Nat è la sua ancòra. La sua Bellezza. Ma Maia dimenticherà Gabriel, come ha dimenticato il Titanic, o il pittore l'ha davvero cambiata?
Chissà.
Una nota più o meno storica: ci sono varie teorie su quale sia stata l'ultima canzone suonata dall'orchestra sul Titanic: ho scelto quella più accreditata, nonché più adatta alla storia.

E avete conosciuto Ben! Sono sempre Emily mentre Lyra vi manda la seguente citazione:

"Se noi, ombre, vi abbiamo scontentato,
pensate allora - e tutto è accomodato -
che avete qui soltanto sonnecchiato
mentre queste visioni sono apparse.
Ed il tema, ozioso e vano,
che non più d'un sogno è stato,
signori, vi prego, non venga biasimato.
Se clementi voi sarete
migliori poi ci troverete.
E - parola di folletto -
se alle lingue di serpente
per fortuna siam sfuggiti,
noi faremo presto ammende
- o chiamatemi bugiardo!
Dunque a tutti buonanotte,
e batteteci le mani,
se ora siamo buoni amici.
Ed in cambio, Robertino
metterà tutto a puntino."


Detto ciò, noi ci inchiniamo al nostro pubblico, vi diamo appuntamento ai prossimi capitoli e vi auguriamo un felice anno nuovo. Che sia una buona fine e un buon inizio!


Per chi desidera seguirci anche fuori da EFP, per ricevere aggiornamenti, spoiler, o semplicemente per conoscerci e scambiare due chiacchiere, ci trovate qui:

- Pagina Facebok dedicata a Persefone.
- Gruppo facebook/Isoletta/ Regno di Emily Alexandre, Nearest my heart.
- Gruppo Facebook di Lyra, Sing and write for the wind, fear not for tomorrow.

Un abbraccio a tutti

Agnes, Emily e Lyra.

PS: Cos'é che dovete dire? "Duncan we love you". Ripetete...coraggio. Bravissimi! Alla prossima!

 

 

 

 

 

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: _Kore