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Autore: Teddy_bear    08/01/2015    2 recensioni
Vi siete mai fermati a pensare a quanti avvenimenti, nel corso delle ore, dei giorni, succedono? Prendiamo la città di Londra, quante vicende accadono al suo interno? Vorrei provare a raccontarvi una storia.
Ma non è una semplice storia.
C'è un lui e c'è una lei. Un Aaron ed una Rain.
In questo racconto non saprete se è più malato lui, lei, o il loro rapporto.
E voi lo amereste mai... Un cannibale?
Genere: Dark, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=JrnDDpjIwkc



Primo capitolo}


«Osservate con quanta previdenza la natura,

madre del genere umano,

ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia.

Infuse nell'uomo più passione che ragione,

perchè fosse tutto meno triste, difficile, brutto,

insipido, fastidioso.»

-Erasmo da Rotterdam

 

Il volo gli sembrò lunghissimo, quasi eterno. Le nuvole fuori dal vetro dell'aereo sembravano soffici, aveva quasi voglia di toccarle. Aaron stava per iniziare un percorso nuovo; sperava con tutto il suo cuore di trovarsi bene, perchè non sarebbe riuscito a vivere in una situazione simile, con una famiglia che non era propriamente la sua.

«Cari passeggeri prepararsi all'atterraggio, controllare se le cappelliere sono chiuse e i tavolinetti rimessi contro lo schienale.»

La voce del pilota gli aumentò l'ansia; era solo questione di minuti e presto avrebbe trascorso dei giorni completamente diversi. Il rumore delle ruote sulla pista fu la goccia che fece traboccare il vaso; Aaron cominciò a tremare, sentendo i palmi delle sue mani sudare e la vista farsi quasi più opaca. Aveva paura, non si poteva negarlo. Quasi non si accorse delle persone che si affrettavano a prendere i loro bagagli, scendendo dall'aereo, recandosi verso la vera Dublino.

Quando anch'egli recuperò la sua valigia e scese le scalette, per toccare nuovamente terra, si disse di cercare di apparire il più normale possibile. Cercò, infatti, un volto femminile simile a quello della madre, in quanto fossero -sua zia e lei- sorelle gemelle, e sperò di trovarlo il prima possibile.

Si guardò intorno, notando l'areoporto pieno di gente che si salutava, persone che si scambiavano effusioni e quant'altro, finchè non riconobbe il volto della donna in questione.

«Zia.» disse mentre, a passo svelto, si avviava verso di lei, che era in compagnia con Joseph, suo zio, e Bonnie, la cugina più piccola di lui di un paio d'anni.

«Aaron? Sei proprio tu?» chiese al ragazzo, guardandolo da capo a piedi con stupore.

«Beh, direi di sì.» ridacchiò, salutandola con un abbraccio svelto.

«Sei cresciuto tantissimo.» affermò Joseph.

«Sono anche passati tanti anni.» disse il moro.

«Già, mi ricordo che eri un piccoletto tutto capelli ed ora guardati, sei un uomo.» sorrise Elizabeth, dando una pacca sulla spalla al nipote. «E tu, Bo? Non lo saluti tuo cugino?» chiese poi, alla figlia.

«Ciao, Aaron.» lo salutò, freddamente, con un cenno del capo.

Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, non capendo il motivo di quel gelo da parte della cugina, ricordandosi che durante l'infanzia andavano abbastanza d'accordo. Decise, ad ogni modo, di lasciar perdere: ella era un adolescente, ed era in una fase difficile della crescita.

«Vogliamo andare a casa?» domandò Joseph, sorridendo.

Aaron annuì, prendendo la sua valigia e dirigendosi verso la macchina dei suoi zii. Quest'ultimi, durante il viaggio verso casa, cominciarono a riempirlo di domande, su domande. Il ragazzo cercò di esser cortese e sorridente, sebbene si sentisse a disagio e quasi in imbarazzo.

«Ti piace disegnare? Wow, è fantastico Aaron. Hai preso sicuramente da tuo padre: Trevor lo amava.» gli sorrise la zia, dallo specchietto «cosa raffiguri generalmente?» domandò successivamente.

«C'è anche bisogno di chiederlo?» chiese Bonnie, acidamente, seduta accanto ad Aaron.

«Bon, smettila.» la rimproverò Joseph, con voce autoritaria.

«Neanche si può dire ciò che si pensa, adesso.» sbuffò la cugina, beccandosi uno sguardo ferito da parte del moro.

Aaron capì quasi subito il motivo dell'ostilità di Bonnie: lei non lo accettava per il suo disturbo mentale. Non si domandò il motivo di tale cattiveria, perchè comprendeva. Alla fine... Quante persone sarebbero state orgogliose di avere come parente un cannibale?

«Non sei un cannibale, tesoro.»

Stupidaggini, mamma.

Pensò Aaron.

«Sei Aaron Cabell, un ragazzo di diciott'anni con una mente che va solo capita ed ascoltata.»

Non è vero, io non merito nulla.

Si disse, stringendo con un pugno sul tessuto della sua felpa.

«E un cuore che va solo amato.»

L'amore è stupido, mamma.

Io non ho nessun cuore.

Gridò nella sua testa, chiudendo gli occhi e mordendosi il labbro inferiore.

Desiderava esser di nuovo nell'età infantile; quando non era ancora a conoscenza della sua malattia, o dei suoi insani pensieri.

 

«Aarry, mi raccomando, fai attenzione.» gli aveva raccomandato il padre, mettendo un cappellino di lana sulla testa piena di boccoli del figlio.

«È una normale gita scolastica, papà. Andiamo sulla neve!» aveva esclamato il bambino, entusiasta.

«Beh, c'è anche nel nostro giardino la neve.» aveva ridacchiato Trevor, allacciando il cappotto pesante di Aaron.

«Ma la neve in montagna è più bella.» aveva detto, saltellando «ci sono gli orsi! Papà, dici che ne vedrò uno?» aveva chiesto poi, intrepido.

Trevor aveva riso, scuotendo appena il capo.

«Certo.» aveva detto poi, baciandogli la fronte.

 

Sorrise malinconicamente Aaron, ad uno dei pochi ricordi che possedeva del padre.

Saresti fiero di me, ora, papà? Si chiese nella sua testa, guardando fuori dal finestrino, mentre i suoi zii parlavano di politica, o economica, forse.

Dublino era più bella di come la ricordava: gli sembrò meravigliosa grazie a quelle distese verdi che tanto amava o, forse, per il tempo nuvoloso che, d'altro canto, non era molto differente da quello di Londra. Le stradine erano provviste di case, villette e palazzi, con dei giardini stupendi.

«Siamo quasi arrivati.» sentì dire da Elizabeth, che si rifaceva il trucco.

Annuì meccanicamente, tornando a guardare il paesaggio esterno. Era incredibile come la sua vita stesse prendendo un'altra direzione; forse sarebbe guarito, o migliorato. In cuor suo lo sperava, nella sua mente lo temeva. Fece un respiro profondo, prese poi il suo cellulare, mandando un messaggio a sua madre che recitava: "Sono quasi arrivato a casa degli zii, spero che vada tutto bene. Un abbraccio a te e Daisy." la risposta non tardò ad arrivare: "sarà così, non preoccuparti. Ti abbracciamo anche noi.".

Sorrise cercando di apparire tranquillo ma, quando la macchina si fermò davanti ad una casa modesta, non si sentì calmo per niente.

Ammirò il giardino verde e rigoglioso, catturando tra le sue ciglia ogni dettaglio. Osservò, poi, la facciata della casa colorata di un pesca tenue, ed i tre gradini di pietra che davano alla porta d'ingresso. Respirò, respirò e respirò ancora.

«Spero che sia di tuo gradimento.» una mano calda sulla sua spalla lo fece sussultare, le sue pupille si dilatarono mentre si voltava verso il suo interlocutore.

«Mi piace zio, davvero. E grazie per l'ospitalità.» tentò di dire, mentre tentava di deglutire la poca saliva, presente all'interno della sua bocca.

«È un piacere, Aarry. Sei nostro nipote, sai che ti vogliamo bene.» gli sorrise Joseph, salendo i gradini che precedevano la porta d'ingresso. Aaron annuì, incapace di rispondere un "vi voglio bene anch'io", in quanto troppo sincero sui sentimenti.

Aaron voleva bene ai parenti, a sua madre, o a sua sorella, solo che non se ne rendeva conto. E, ancora una volta, era il cervello a prevalere sul cuore. Esistono la bontà e la cattiveria in un solo corpo? La realtà ci insegna che una persona o ha dei sentimenti buoni, puri e leali, oppure è subdola, perfida e spietata. E se Aaron fosse un insieme dei due? Quale sentimento ne uscirebbe illeso? Le ferite del cuore sono quelle più difficili da curare, o arginare, e lui era ferito nel profondo, senza che le persone potessero dare peso a questa cosa. Aaron si nascondeva, come un criminale. E le belle persone devono mostrare ciò che c'è in loro; il problema di egli era che non si considerava tale.

 

«Mamma, noi siamo buoni?» aveva chiesto, quando aveva dieci anni, alla madre, intenta a preparare la cena.

«Beh, non tutte le persone sono buone, Aarry. C'è la gente cattiva e quella buona, non credi anche tu?» gli aveva sorriso, scompigliando i capelli ricci e voluminosi del figlio.

«Questo lo so, mamma. Intendo... Secondo te le persone sono buone da mangiare?» aveva detto ridacchiando, felice.

«Non penso proprio, piccolo. Ma perchè questa domanda?» Gwen era rimasta stupida, dalle domande del figlio, ma, in fondo, era solo un bambino. È normale porsi strani quesiti, quando si è bambini.

«Ero curioso.» aveva alzato le spalle, sorridendo ancora e andando in salotto a guardare i cartoni animati.

La madre aveva strabbuzzato gli occhi, scuotendo poi la testa. La solite sciocche domande dei bambini.

 

L'ingresso della casa, dei suoi zii, era diverso dal fieviole ricordo che aveva di esso. Le pareti erano arancioni spatolate, circondate da dei quadri raffiguranti paesaggi montani e rive di mare con un tramonto sullo sfondo; la televisione della sala notevolmente grande, con la console della playstation, in un ripiano del tavolo, sotto di essa. Il tavolo da caffè di colore noce aveva, al centro di sè, una tovaglietta di pizzo con un vassoio, sopra di essa, ricoperto da molte varietà di caramelle. La cucina era fantastica, molto più grande e moderna di quella di casa propria, ed anche molto più accogliente e vissuta. Le camere erano luminose ed immense, mentre i bagni erano piccoli, ma comodi.

«Questa è la tua stanza, Aarry.» Elizabeth aprì la porta, rivelando la camera degli ospiti.

Aaron si guardò intorno, posando le sue valigie. Si stupì di quanto, quella camera, fosse confortevole. Le pareti color albicocca, il letto ad una piazza e mezza ordinato e rivestito da lenzuola azzurrine, il tappeto dei "Beatles", la scrivania vuota ed una televisione non molto grande. Era... Perfetta. Ad Aaron bastava un posto per dormire e quello era il paradiso.

«È bellissima!» esclamò, infatti, visibilmente stupito.

«Sono contenta che ti piaccia.» sorrise, sua zia.

«Adesso sistema le tue cose, goditi la camera e poi ti chiamo per la cena.» gli ammiccò, chiudendo la porta.

Il moro ridacchiò, incominciando a disfare i bagagli, aprendo piano la valigia più piccola delle tre che si era fatto carico. Vi trovò dentro un sacchettino, che lui conosceva bene, lo guardò attentamente, insicuro sul da farsi. Scuotendo la testa, facendo andare qualche boccolo qua e là, lo aprì, trovandovici dentro una catenina dorata con un ciondolo a forma di quadrifoglio, anch'esso, d'oro.

«Mi manchi papà.» sussurrò, contemplando l'oggetto in questione.

 

«Aarry, vieni qui!» aveva gridato Trevor, ridendo per le corse del figlio che giocava all'acchiappa-acchiappa, nel bosco vicino a casa.

«Tanto non mi prendi, tanto non mi prendi.» canticchiava Aaron, continuando a correre.

«Mi arrendo, ma vieni qui, che devo darti un regalo.» aveva detto, sedendosi sull'erba, affannato. E «sei veloce» aveva aggiunto al figlio, che si avviava verso di lui.

Di risposta, il piccolo, aveva fatto una linguaccia, guadagnandosi le risa del padre.

«Questo è un ciondolo che voglio regalarti.» aveva detto poi, staccando dal collo i gancetti della collana che erano legati tra loro, per poi riattaccarli a quello del figlioletto, di collo.

«Campione, voglio dirti una cosa.» aveva sospirato, per poi continuare «tu e Daisy siete dei figli meravigliosi, oltre che dei bambini davvero incredibili. Crescerete, eccome se lo farete, affronterete la vita con forza e coraggio ed anche se, ogni tanto, vi sembrerà che essa sia stupida, ricordatevi di vivere. Sempre.» aveva aggiunto, sentendo gli occhi pizzicare «Io vi amo, sai? Ti voglio un bene dell'anima campione, questo ricordatelo. Ed anche se non sarò presente visivamente, lo sarò sempre qui.» aveva detto, indicando il cuore di Aaron «Tu e Daisy siete i miei angeli, è giunta l'ora che sia io, il vostro. E, questa» aveva precisato, toccando con l'indice il ciondolo «è una parte di me immoratale che sarà sempre con te, Aarry. Prenditi cura di tua madre e di tua sorella; sei un bambino fantastico e sarai anche un adulto responsabile. Sei l'ometto di casa ormai, non trovi?» aveva ridacchiato, cercando di non mostrare le lacrime, mentre Aaron si affrettava ad abbracciarlo, stringendo forte il suo papà «Promettimi di amare chi preferisci, promettimi di vivere come vorrai. Ma, soprattutto, promettimi di esser sempre te stesso. Perchè tu sei perfetto così come sei, campione.» aveva concluso, baciandogli il capo, mentre si sforzava di essere forte.

«Non mi stai dicendo addio vero, papà? Perchè questo discorso? Te ne vuoi andare?» aveva chiesto il bambino, con le lacrime agli occhi.

«No, non me ne voglio andare.» aveva risposto Trevor, stringendolo più forte, rigandosi anch'egli le guance, con le proprie lacrime.

 

Guardò in alto, cercando di mandar via il magone, dovuto alla nostalgia ed ai ricordi. Gli era stata sempre portata via ogni cosa bella, anche per questo non credeva più in nulla. Indossò la catenina, dopo averle dato un lieve bacio, e sistemò il resto dei suoi oggetti. Ripose i vestiti nell'armadio di color ciliegio della sua camera, alcuni soprammobili sulla scrivania, ed il suo quaderno contenete i suoi disegni nel cassetto del comodino. Sospirò, soddisfatto della sua opera, e si sdraiò sul letto, chiudendo piano gli occhi.

 

«Cosa nascondi davvero, Aaron?» chiedeva, una voce.

«Non credo che tu lo voglia sapere.» rispondeva, mentre si avventava su quella persona, mordendole una clavicola.

La pelle si staccò, entrando subito nella sua bocca, il sangue era come se prendesse vita nella gola del ragazzo. Ed egli non voleva staccarsi, mai. Mai. Mai.

Era una bella sensazione, quasi come una droga. Si inebriò di quel profumo, masticando e mordendo ancora, mentre quella persona urlava, imprecava e supplicava al moro di smetterla. Presto, a quella figura, mancò anche il tessuto muscolare, che aveva raggiunto lo stomaco di Aaron. Doveva staccarsi, ora o mai più.

E scelse il mai più.

 

Si svegliò di soprassalto, sudato ed ansimante.

«Merda.» sussurrò, passandosi una mano sulla fronte e cercando di regolarizzare il respiro. Aprì la porta della sua nuova camera, con l'intento di dirigersi in bagno a lavarsi il volto.

Non dava mai peso ai suoi incubi; eppure quello sembrava così reale, così sadico... Così malato. Posò i palmi della sue mani sul lavello, guardando poi la sua figura riflessa nello specchio.

Sei un mostro, si disse, scuotendo il capo. Aprì, poi, il rubinetto dell'acqua fredda, sciacquandosi il viso.

«Aaron.» disse Bonnie, aprendo la porta.

Egli sussultò, saltellando sul posto lievemente, facendo ondeggiare i suoi capelli sul volto, portandosi poi una mano al centro del petto, sul cuore.

«Questa è bella! Un cannibale che si spaventa!» disse ridendo sarcasticamente la cugina, facendo un cenno del capo al ragazzo, come per dire "spostati". La rossa si lavò le mani, dicendo poi ad Aaron che fosse pronta la cena, aggiungendo un "so che non sarà di tuo gradimento" in modo acido e brutale.

Aaron sbuffò, lasciando perdere, e si recò anch'egli in cucina, prendendo posto a tavola, accanto a Bonnie.

«Che faccia che hai Aarry, va tutto bene? Sei pallido.» disse sua zia, spostando di poco i capelli che ricadevano sulla fronte del nipote.

«Ah, lascia perdere, mamma. Sono entrata mentre era in bagno e si è spaventato, il povero cucciolo.» rispose Bonnie, in modo sprezzante, mentre girava la forchetta nel piatto, intenta a prendere un po' di spaghetti.

«Bon, devi smetterla, ok?» disse serio Joseph, guardandola negli occhi.

Ella si toccò il piercing sul lato superiore della bocca, come era solita fare quando era nervosa, o arrabbiata. Di risposta alzò gli occhi al cielo, sbuffando e mimando un "ok" con la bocca, mentre mangiava ciò che aveva nel piatto.

Il resto della cena fu silenzioso, ogni tanto, zia Betty, parlava con il marito e cercava di rendere partecipe anche Aaron, con scarsi risultati.

Lui che era ancora rimasto al suo sogno. O, meglio, al suo incubo. Lui che si poneva milioni di domande. E, lui, che non trovava mai le risposte giuste.

A fine cena, aiutò la zia a sparecchiare, la quale disse che non ce n'era bisogno, e che l'avrebbe aiutata Bonnie. Aaron, infatti, la ringraziò e, dopo essersi lavato i denti, si diresse subito in camera sua. Attraversò il corridoio con sguardo vacuo e perso nel vuoto, mentre con la mente tentava di percorrere di nuovo il suo incubo di poco prima. Spalancò con un gesto quasi automatico la porta della sua nuova camera, chiudendola una volta entrato.

Va tutto bene, si disse.

Aprì il cassetto del comodino, prendendo i suoi fogli da disegno, e si mise a scarabocchiare qualcosa. Prese posto sulla sua scrivania e... Una linea, due linee, tre linee...

«Non è possibile.» sussurrò, guardando la bozza grafica.

Si alzò da dove era seduto, aprì nuovamente con uno scatto la porta di camera sua e tornò in cucina, con l'intento di raccontare tutto, finchè non sentì dei sussurri.

«Non lo voglio in casa nostra.» udì dalla voce di Bonnie, insieme all'inconfondibile suono del lavaggio dei piatti.

«È tuo cugino, tesoro.» disse invece Joseph, che si era alzato da tavola, dove era intento a leggere una rivista di automobili.

«Non me ne fotte un cacchio se è mio cugino, rimane un essere orribile, che sarebbe capace di ucciderti e mangiarti, papà.» alzò di poco la voce la cugina, con fare esasperato. Aaron sentì un crack, proprio all'altezza del petto, un peso opprimente nello stomaco e la voglia di rigettare tutta la cena.

«Aarry non è così, Bon.» ribattè sua zia, con fare sicuro.

«Non lo sa nemmeno lui cos'è, mamma.» affermò, invece, la rossa.

Il moro si disse che ne aveva sentite abbastanza, per quella sera, così tornò in camera sua, trascindando i suoi stessi piedi, e sopirando con fare stanco.

Si distese sul letto, buttando la testa sul cuscino, e pensò a quanto sarebbe stato bello se lui fosse stata una persona normale.

Avrebbe avuto degli amici, dei parenti affettuosi... Una bella vita, si può dire. Inoltre non poteva esser arrabbiato con Bonnie; lei aveva ragione. Era solo... Dispiaciuto, ecco. Era dispiaciuto di essere Aaron Cabell, nonostante la promessa fatta al padre, quando aveva dodici anni.

«Aarry.» una mano gli toccò la spalla, scuotendolo appena e risvegliandolo dai suoi pensieri.

«Oh, zia.» rispose, alzandosi e mettendosi seduto sul letto.

«Dopodomani inizi la scuola di Bonnie, ti ho portato la tua divisa scolastica.» disse Betty, posando, gli indumenti piegati, sulla scrivania.

«Grazie» sussurrò, facendo un lieve sorriso.

«Che succede?» domandò sua zia, preoccupata.

«Uhm? No, niente.» rispose Aaron «Sono solo un po' stanco.» aggiunse poi, sospirando.

«Non mentirmi. Avanti, come mai hai quell'aria depressa?» richiese infatti Elizabeth, per niente convinta dalla risposta del nipote.

«Ho sentito cosa vi siete dette tue e Bonnie, poco fa, in cucina.» sospirò, portandosi le mani al volto e stropicciandosi gli occhi.

«Oh.» disse Betty «Senti, Aaron, Bonnie è una ragazza difficile, non pensa quelle cose veramente. È in un'età critica, ha un carattere un po' ribelle... Ma non è cattiva e nemmeno pensa ciò che ha detto.» spiegò poi, con calma.

«Anche se non lo pensasse davvero, rimane il fatto che ha ragione.» disse a sua volta, il moro.

«Non è vero! Tu sei una brava persona, lo sappiamo tutti. Anche Bonnie lo sa; è solo ancora un po' scioccata dalla notizia, tutto qui.» affermò la donna.

«Ho fatto un sogno prima... O, meglio, ho fatto un incubo.» confessò il ragazzo, raggiungendo il disegno fatto poco prima, con l'intento di mostrarlo alla zia.

«Cosa?» chiese Elizabeth, mentre Aaron le consegnava il suo disegno in mano.

«Ogni volta che faccio dei sogni, riguardanti la mia malattia, disegno tutto quello che mi ricordo. È una sorta di terapia personale.» spiegò «Molte volte, mentre dormo, la mia mente sforna delle immagini dove aggredisco le persone.» aggiunse «Ma mai, prima d'ora, ho sognato un volto femminile.» concluse, scuotendo la testa, passandosi la lingua tra le labbra.

«Sul serio?» domandò l'altra, incredula.

«Già. Erano sempre uomini, oppure persone delle quali non ricordo il volto... Ma lei... Non so, lei era davvero reale.» si morse il labbro inferiore, quasi fino a farlo sanguinare «Ho paura che si tratti di una premonizione, oppure di qualcosa di simile.» ammise poi, concludendo.

«Ah, non ci pensare. Era solo un brutto sogno Aaron, a nessuno vuoi fare del male.» lo abbracciò la donna, cullandolo di dolci parole.

«Ogni volta che vorrai parlare con qualcuno, io sono qui.» gli sorrise poi, alzandosi dal letto.

«Dormi adesso, e cerca di stare tranquillo, ok?» gli diede un bacio in fronte e si diresse fuori dalla camera.

«Ci proverò. Buonanotte zia.» disse, pronto andare a coricarsi.

«'Notte, Aarry.» rispose ella, chiudendo la porta.

Aaron si tolse la felpa che indossava, e fece lo stesso anche con i suoi jeans e le calze, per poi mettersi una maglia ed un paio di pantaloni del pigiama. Si mise sotto le coperte, spegnendo poi la luce della lampada sul comodino, tentando di addormentarsi.

Andrà tutto bene, Aaron.

Magari domani, o quello dopo, ma andrà tutto bene, si ripetè.

E piano piano, chiuse gli occhi, cullato dal ticchettio della sua sveglia.

Angolo autrice:
yay, yay :D ecco qua il primo capitolo. Per sfortuna mia e fortuna vostra sono di fretta, perché devo studiare chimica e fare la doccia D:
Ad ogni modo, non so se la storia vi piace, perché nello scorso capitolo non ho avuto i vostri pareri, cavolo. E mi dispiace di questo!
Se mi lasciaste una recensione? Anche piccola, davvero. Ne sarei onorata, e desidero capire se ne vale la pena.
Oh! Fatemi un applauso perché ho detto al tipo che amo da due anni che lo amo :D e lui è confuso :D ma va tutto bene :D.
Sì, okay, l'amore rende dementi. Beato Aaron che non lo può provare... Forse, ehehe. Vedrete, vedrete u.u
Detto/scritto questo, vi saluto, lasciandovi il mio cuoricino un po' spezzato.
Un bacione x.

   
 
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