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Autore: Michan_Valentine    27/01/2015    1 recensioni
Calardir ha un nome da elfo, usa le pitture di guerra e ha un compagno animale. Ma è un uomo, ha un obbiettivo e nasconde un segreto di cui non conosce l'entità.
In una terra divisa, superstiziosa e governata da un re invasore, le strade percorse da chi cerca con ogni mezzo di determinare il proprio destino s'incontrano in un quadro più ampio e delineato invece da tempo. Qualcosa di ancestrale e sopito nella memoria dell'umanità si agita nelle profondità della terra e negli animi di chi può avvertirne il potere, tirando gli invisibili fili di una trama che potrebbe sconvolgere il mondo conosciuto e portarlo definitivamente alla rovina.
Tentativo di "high fantasy" con tutte le eccezioni del caso.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con
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 Capitolo 1 - Mezzosangue
"Ehi, stupratore! Tu con i capelli biondi."
La voce gracchiò, ma Calardir non gli prestò attenzione. Accumulò con le mani la polvere che stava nell’angolo della cella, sul pavimento, e ne afferrò un pizzico fra indice e pollice. Se la portò innanzi al viso, sfregò le dita e la lasciò ricadere lentamente al suolo, analizzandone con accuratezza la discesa. Si umettò le labbra; dopodiché recuperò quanta più polvere possibile e se l’infilò in tasca.
"Non ho idea di cosa tu stia facendo, ma potresti condividere le tue gesta. Com'erano i fianchi della puledra? Scommetto che era selvaggia. Mordeva e scalciava, vero? Ah, che darei per una cavalcata così..."
Calardir sollevò svogliatamente lo sguardo. Un vecchio coperto di stracci s'affacciava dalla cella dirimpetto, con le braccia penzoloni oltre l'inferriata e il viso rugoso poggiato fra le sbarre. Sembrava uno spaventapasseri per quanto era logoro, sporco e magro. Le ombre gli si proiettavano nette sul viso spigoloso, nascondendogli gli occhi e mettendogli in risalto le sopracciglia irsute, il naso grosso e la bocca sdentata, in quel momento piegata in un sorriso sghembo. Barba e capelli erano invece radi, giallognoli e contribuivano a dargli un’aria malsana.
L'aveva già visto quella mattina ai margini della strada, gettato tra la polvere a chiedere l'elemosina. Quando si era rifiutato di allungargli moneta, il vecchio gli aveva chiesto della birra. L'odore pungente dell’alcol e del sudore terribilmente mescolati gli fece contrarre lo stomaco al semplice ricordo.
"Falla finita, Cheslav. E' di Pavla che stai parlando. Suo cugino è qua fuori. Se ti sente ti fa saltare via quei quattro denti che ti ritrovi e ti butta di nuovo in mezzo alla strada. Se tiri le cuoia durante la notte non ci dispiace. E a quella vacca di tua moglie nemmeno."
Era stato un secondo uomo a parlare, ma da dove si trovava non poteva individuarlo. Irrilevante, comunque. Calardir si alzò e si diresse al pagliericcio. Voleva solo dormire un po’ e recuperare le forze. Si sdraiò, si sistemò il braccio dietro la testa e si avvolse nel mantello. Con la mano libera, invece, si calcò maggiormente il cappello a tesa larga sulla testa e celò la parte superiore del viso.
"Ehi, non fare lo gnorri!" gracchiò ancora il vecchio, sordo agli avvertimenti del compare "Da dove arrivi? Non ci sono belle donne dalle tue parti? Tu non sei di qui. Io conosco tutti e tutti mi conoscono. Ma a te, caro mio, non ti ho mai visto prima."
Calardir sospirò.
"Mio buon signore, la tua sicurezza mi stupisce, perché bevendo di giorno e soggiornando in prigione di notte è più probabile che tu non riesca a distinguere un asino da un cane." replicò quindi, senza muoversi.
Il vecchio rise, asmatico. Poi scatarrò.
"E' per questo che quella vacca di mia moglie m'ha buttato fuori di casa. Ma tu, stupratore... tu sei giovane, alto, biondo. Sembri uno di quei damerini Thyatiani che vivono nella capitale, con gli stivali di cuoio e i mantelli bordati di pelliccia. Li ho visti una volta, a cavallo, mentre tornavano a Mirroden. Perfino le bestie che cavalcavano erano vestite meglio di me, con le gualdrappe rosse e blu. Certo il tuo mantello è logoro e i tuoi stivali sono sporchi, ma in un buco come questo non passi inosservato."
“Non sono uno stupratore.”
Il vecchio rise di nuovo, sputazzando e tossendo. A sentirlo sembrava che potesse stramazzare al suolo stecchito da un momento all’altro.
“Certo. Dillo ad Erofey!” si intromise l’uomo di cui conosceva soltanto la voce “E’ il cugino di Pavla e il figlio del fabbro. Quando non è di guardia lavora alla forgia. Ha le braccia grosse come prosciutti e la testa dura come l’incudine su cui batte il ferro. Dovresti giocarci a dadi. Non sa perdere.”
Istintivamente Calardir si portò la mano sulla faccia e si massaggiò la mandibola. Sotto il velo di barba, si stendeva un gonfiore diffuso e pulsante. Ogni volta che cambiava espressione la pelle tirava e doleva. Perfino parlare era fastidioso.
“Conosco i suoi pugni.” commentò, concedendosi ugualmente un mezzo sorriso “Parola mia, è un peccato che il suo intelletto non sia altrettanto svelto.”
Dei lamenti improvvisi coprirono le sue ultime parole. Provenivano da fuori e dal tono acuto sembravano quelli di un bambino, ma dirlo con certezza era impossibile. Anche perché ad accompagnare gli strilli c’era un gran fracasso e la voce grossa dei carcerieri, che ridevano e imprecavano fra loro.
“Quella peste di Orest. Stavolta Maksim l’ha preso con le mani nel sacco e l’ha spedito dritto qua.” commentò il vecchio.
“Maksim esagera, le verdure che coltiva sono sempre abbondanti. E quel figliolo deve pur mangiare.” soggiunse l’altro, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Orest doveva essere l’ennesimo disperato. Forse un bambino senza genitori che viveva alla giornata. Senza contare che anche Cheslav e compare avevano poco a che vedere con i borseggiatori e i tagliagole cui era abituato.
Infine, con un sinistro cigolio, la malandata porta di legno che l’aveva lì condotto s’aprì. Seguirono passi, altri piagnistei e rumori di trascinamento lungo il passaggio fra le celle. Il vecchio, probabilmente ancora affacciato all’inferriata, rise e tossì. Poi disse: “Ehi, non è Orest.”
“Vi prego, non sono stato io! Sono innocente! Innocente!”
“Qui lo siamo tutti. Io non sono un ubriacone molesto, Pyotr non è un ladro di polli e il biondo è casto e puro come un sacerdote di Helientar.” convenne Cheslav, mentre il nuovo venuto strepitava a squarciagola.
“Dico la verità! Mi trovavo lì per caso! Sono di passaggio e non ho idea di come quella roba sia finita nella mia borsa. Non potete rinchiudermi se non ho fatto niente! Chiedete a tutti, in taverna. Sono una brava persona! Ho saldato il conto e non ho dato fastidio a nessuno. La moglie dell’oste lo sa!”
“Adesso basta, nanerottolo. Mi hai preso per uno stupido? La tua vocetta stridula non ti salverà.” intervenne la guardia.
Calardir non si mosse e attese, perché a giudicare dai suoni l’improbabile coppia si era fermata proprio innanzi alla sua cella. Il tintinnio del mazzo di chiavi, la serratura che scattava e la gabbia che s’apriva cigolando gliene diedero conferma. Subito dopo percepì anche un tonfo e un lamento strozzato. Probabile che il carceriere avesse gettato al fresco il nuovo ospite senza un minimo di riguardo. Quello singhiozzò pietosamente alla stregua di un bambino e soggiunse: “E’ va bene… sono stato io. Ma sono pentito. Restituirò tutto, perciò… per questa volta chiudete un occhio e fatemi uscire.”
Il silenzio seguì la confessione, unicamente interrotto da Cheslav che tossiva e scatarrava di tanto in tanto. Poi i cardini cigolarono nuovamente, la gabbia si richiuse con un tonfo e la guardia rigirò più volte la chiave nella serratura prima di andarsene senza nulla aggiungere.
Dal pagliericcio Calardir sollevò di un poco il cappello e puntò il compagno di gattabuia, che se ne stava inginocchiato fra la polvere con la schiena curva e il capo chino. La corporatura era effettivamente quella di un bambino, ma ormai dubitava che si trattasse perfino di un umano. Sembrava realmente disperato. Ciononostante, quando quello si voltò e ricambiò il suo sguardo, gli fu impossibile non notare la maliziosa scintilla insita in quegli occhi. O il sorriso impertinente che gli piegava le labbra. Imbroglione.
Con un movimento fluido l’altro si rimise in piedi e si spazzolò rapidamente calzoni e casacca, laddove erano rimasti impolverati; dopodiché gli si avvicinò saltellando. Di rimando inarcò il sopracciglio e continuò a studiarlo, certo di essere studiato.
“Un altro straniero.” osservò invece il dirimpettaio “O forse dovrei dire un mezzo straniero? Ci dispiace, ma in questo buco dimenticato dagli Dei non abbiamo donne alla tua altezza!”
La risata asmatica di Cheslav risuonò ancora una volta per l’ambiente, ma il piccoletto non sembrò badarvi.
Il vecchio non ci era andato lontano, comunque, perché più analizzava le fattezze del nuovo venuto, più riconosceva in lui i tratti tipici dei mezzuomini. Doveva essere abbastanza giovane, ma non poteva darlo per scontato. A dispetto del viso pieno, liscio e della corporatura minuta era plausibile che avesse alle spalle molti più anni di lui. Era sporco e in disordine, ma indossava abiti verdi e marroni di ottima fattura. A protezione del torso portava invece una corazza leggera di cuoio bollito, anch’essa in perfette condizioni. Calzava stivali alti di pelle scamosciata e guanti dello stesso materiale che gli lasciavano scoperta la punta delle dita. Presumibilmente era un accorgimento che gli permetteva di conservare maggiore sensibilità e libertà di movimento. Spostò l’attenzione sul viso del mezzuomo. Espressione sveglia, capelli scuri ed arruffati, orecchie leggermente a punta, pelle ramata e due grandi occhi castani che trasmettevano al mondo una curiosità smisurata. Era furbo, forse infido.
Tornò a infilarsi il cappello fin sopra gli occhi. Poteva ricordare i lord di Mirroden per l’altezza e per il colore dei capelli, come diceva Cheslav, ma quel nanerottolo se la passava decisamente meglio di lui. Se era un ladro, si trattava di uno specialista e come minimo apparteneva a una gilda dai proventi importanti.
“Se ti addormenti lì sopra prenderai le pulci.” esordì il mezzuomo.
Calardir non rispose.
“Sai, questa è la prima volta che riescono a catturarmi.” continuò quello, ridacchiando.
“Sciocchezze. Ti sei lasciato acciuffare di proposito. Anzi, è da quando hai messo piede qui dentro che stai dando esclusivamente spettacolo. Quello che mi chiedo è perché.” ribatté.
“Perspicace.” commentò l’altro in tranquillità “Sai, nella vita bisogna divertirsi e ognuno ha i propri passatempi. C’è chi intaglia il legno, chi va a caccia… Tu invece? Non hai l’aria del mendicante di strada, del rissaiolo da taverna o del mero contadino di campagna.”
“Ne convengo, ma tu hai indubbiamente l’aria del borseggiatore.”
“Del mago.” lo corresse il mezzuomo.
Quella precisazione lo colse impreparato e gli fece addirittura dischiudere le labbra per la sorpresa.
“Questa non se la beve neanche un ubriacone come me. Se tu sei un mago io sono Falgorn, il drago d’oro! Di maghi veri non ne ho mai visti da queste parti e mai ne vedrò, per fortuna. Di ciarlatani, invece, è pieno il mondo.”
Calardir scosse la testa. Cheslav poteva essere un beone, ma non era uno stupido. Sollevò il busto, si mise a sedere a gambe incrociate fra la paglia e si tolse anche il cappello; di riposare aveva perso la voglia oltre che la speranza. Di sicuro quel piccoletto non era un Tessitore di Trama nel vero senso del termine, ma sapeva il fatto suo. Intanto era riuscito ad attirare la sua attenzione.
“Il buon signore laggiù ha ragione.” disse.
Il mezzuomo non replicò alle obiezioni. Fissò prima il vecchio oltre le sbarre e poi lui, passandosi l’indice di traverso sotto il naso. Infine gli si avvicinò ulteriormente, occhi luminosi. Tese il braccio, compì una piccola, quasi impercettibile rotazione del polso e come per magia un Reale d’argento gli comparve sul palmo della mano. Il mezzuomo se lo rigirò velocemente fra le dita, lasciandolo scivolare prima in un verso e poi nell’altro sulle falangi, per poi compiere un’altra rotazione del polso e farlo nuovamente scomparire fra le pieghe della manica.
La scioltezza con cui aveva effettuato il gioco di prestidigitazione era stata impressionante, ma tenne per sé l’apprezzamento. Ciononostante la bocca gli si piegò brevemente in un sorriso  spontaneo.
“Illusionista è uno dei miei appellativi. Tu puoi chiamarmi Destro.”
“Sei mancino.” osservò.
“E’ vero. Ma sono anche abile. Se preferisci, comunque, puoi usare il nome Scheggia. Per la rapidità, sai.” spiegò il mezzuomo, senza che gli fosse stato chiesto “Cos’è il segno nero che porti sugli occhi? Pittura? Ho visto qualcosa di simile sui cacciatori elfi delle foreste, a Nord. Ma tu sei un umano. E non sei un cacciatore.”  
“Devi aver viaggiato molto. Le foreste a Nord sono lontane.”
Destro inclinò il capo e tacque per un po’, sopracciglio alto. Lo stava studiando fin dal principio e con molta probabilità aveva già notato che evitava con accuratezza tutte le domande.
“Non quanto mi piacerebbe.” commentò infine.
“Perché sei venuto proprio qui?”
“Potrei chiederti la stessa cosa. Ti ripeto che non hai l’aria del contadino.”
Stavolta si era messo le mani sui fianchi. Lo conosceva da poco, ma dalla nuova postura e dall’espressione accigliata capiva perfettamente di averlo spazientito. Forse indispettito. Doveva essere un tipo permaloso. Non poteva biasimarlo, comunque, dacché non si era nemmeno presentato. Tuttavia trovava che fosse buffo così impettito, specie se si considerava la stazza minuta e i lineamenti quasi infantili del viso. Più che minaccioso sembrava capriccioso, ma gli aveva già dato dimostrazione di essere tutt’altro che sprovveduto. Presumibile che tagliasse gole con la stessa precisione e la stessa rapidità con cui faceva sparire le monete. Chissà se…
“Sto cercando una persona.” rispose quindi, continuando a valutarlo a sua volta.
“Ma sei rinchiuso qui. Che hai combinato?”
Cheslav ridacchiò e si lasciò scappare qualche commento piccante a proposito dei fianchi di Pavla. Stavolta Pyotr non ribatté. A giudicare dai grugniti sempre più forti, doveva dormire della grossa già da un po’. In qualche modo il ladro di polli era riuscito laddove lui aveva fallito, realizzò.
“E’ una storia noiosa.”
Destro si strinse nelle spalle; poi gli si accomodò di  fianco, sul pagliericcio, e tornò a puntarlo dal basso verso l’alto, in attesa.
“Non ho niente di meglio da fare. E tu nemmeno.”
Rise.
“Hai ragione.” convenne “Vedi, mi piacciono le donne. E io piaccio alle donne. La maggior parte delle volte, almeno. Non c’è niente di male in questo. E’ una cosa sana e naturale. Insomma, nella vita bisogna divertirsi e ognuno ha i propri passatempi, giusto?”
“Giusto.”
“Ma stavolta sono incappato nella ragazza sbagliata… Bel visino, curve al posto giusto… non so se mi spiego…”
 “No.”
 “Lascia perdere. L’ho notata al mercato. Ci siamo scambiati degli sguardi. Mi si è avvicinata e mi ha chiesto se volevo comprare uno dei suoi mazzolini. C’erano margherite, genziane e ginestre selvatiche. Le ho risposto che il fiore che mi piaceva non era fra quelli. Ha sorriso. Andava tutto bene… finché ci siamo appartati dietro la stalla della taverna.”
“Che è successo?”
“Il padre di lei mi ha beccato con le mani fra le sottane della figlia. E ho scoperto che era vergine e pure promessa in sposa a un tale dall’altra parte del Verdarzillo. Avrei dovuto immaginarlo, visto come arrossiva. Ma sul momento ho pensato solo che fosse molto carina. Dopotutto conosco donne di mestiere che fanno questo e quell’altro e sono il ritratto dell’innocenza…”
“Le femmine portano solo guai, dico sempre io. O ai pugni, in questo caso. E’ stato il padre?”
“Il cugino.”
Calardir scrollò le spalle e tacque. Dacché si trovavano in una fetida gattabuia dalle pareti umide e dall’aria stantia, il resto della storia era abbastanza scontato. In più non era tipo da menar le mani e a quel cazzotto non aveva nemmeno risposto. In fin dei conti non voleva attirare l’attenzione più di quanto avesse già fatto.
“In pratica te la sei scopata sì o no?”
La domanda schietta di Cheslav giunse inaspettata. Si concesse un mezzo sorriso e sospirò. Poi il cigolio della porta gli lasciò intuire che qualcun altro stava per sopraggiungere. Le guardie, probabilmente. Diresse lo sguardo oltre le sbarre, sulla porzione di camminamento che si vedeva dalla cella. Un primo uomo, corazza di cuoio borchiato a copertura del torace, daga alla cintura ed elmetto malandato di bronzo sulla testa, si approssimò a Cheslav con una scodella colma di brodaglia. Il vecchio ringraziò e allungò le braccia scarne per afferrare quanto l’altro gli porgeva.
Il cugino di Pavla comparve subito dopo e si parò innanzi alla gabbia che l’ospitava. Di conseguenza un’ombra grande e scura si proiettò all’interno e l’investì. Calardir schioccò le labbra e fissò l’altro negli occhi, nient’affatto sorpreso. O intimorito. Erofey era equipaggiato come l’altra guardia, ma era più grosso. Più di quanto ricordasse, in effetti. Di sicuro Pyotr non s’ingannava paragonando le sue braccia a dei prosciutti. Quando perdeva ai dadi doveva indubbiamente essere una spina nel fianco, irascibile com’era. Percepì il mezzuomo irrigidirsi, forse impensierito dalla stazza dell’energumeno, ma dal canto suo non si scompose. Ciò sembrò irritare particolarmente Erofey, che aggrottò la fronte, disegnò una smorfia ancora più dura sulle labbra e grugnì; poi allungò una scodella di brodaglia oltre le sbarre.
“Prendi, piccoletto.” tuonò.
Destro abbandonò cautamente il pagliericcio e obbedì, adocchiando talora l’uno e talora l’altro con occhi luminosi e attenti. Non ci avrebbe messo la mano sul fuoco, ma non sembrava che la situazione lo preoccupasse come invece dava a vedere. A dirla tutta pareva quasi che stesse sorridendo sotto i baffi. Imbroglione, pensò; per la seconda volta da che si erano incontrati. Tralasciò la questione e tornò a concentrarsi su Erofey, che sputò con risentimento nella brodaglia a lui destinata.
“Questa è per te, schifoso, così impari a tenertelo nei pantaloni!"
Ciò detto l’energumeno scaraventò la scodella all’interno, versandone il contenuto quasi per intero sul pavimento. Fece spallucce.
“Comprendo il tuo turbamento, ma non puoi farmene una colpa.” ribatté “E’ evidente che il promesso sposo di Pavla non è questo granché. La poveretta avrà pensato bene di consolarsi altrimenti. Avrei forse dovuto negare il mio virile aiuto a una fanciulla bisognosa come lei?”
Erofey sfoderò un’espressione inebetita e non reagì. Probabile che non avesse afferrato in pieno il senso di quanto gli aveva detto; ma impiegò poco per giungerne a capo. Dall’altra parte del passaggio Cheslav rise, tossì e scatarrò come se dovesse sputare i polmoni. Anche Destro doveva aver arricciato le labbra verso l’alto, perché vide finalmente la rabbia accendersi e bruciare negli occhi di Erofey, che di rimando gonfiò i muscoli fino allo spasmo. Tremava addirittura, pervaso da una frenesia improvvisa e quasi animalesca che, sperava, l’avrebbe spinto a mettergli le mani addosso. Dopotutto se voleva tirargli il collo doveva necessariamente aprire la gattabuia; e non per una manciata di istanti come già accaduto in precedenza.
“Figlio di puttana! Ti mozzerò la lingua e te la farò ingoiare! Pavla è una ragazza perbene e tu hai approfittato di lei! Se speri di andartene sulle tue gambe ti sbagli di grosso! Non dopo quello che hai detto! T’insegno io a portare un po’ di rispetto!”
L’energumeno si scagliò contro l’inferriata e la fece vibrare violentemente. Per un attimo pensò che l’avrebbe buttata giù e vi sarebbe passato direttamente sopra come un behemoth imbizzarrito. Non se ne sarebbe stupito, comunque. Invece quello mise mano al fitto mazzo di chiavi esattamente come aveva pianificato e fece per aprire la cella. Tuttavia, prima ancora che potesse mantener fede ai propositi, l’altra guardia intervenne e si frappose nel mezzo.
“Ignoralo.” fece il carceriere, dando al compagno una sonora pacca sulle spalle “Abbaia perché è un cane in gabbia. Lascialo nel suo piscio per i prossimi quattro giorni e vedi come abbassa la cresta.”
Calardir non aveva intenzione di restare lì per tutto quel tempo, ma gli altri non potevano saperlo. Erofey continuò a guardarlo con occhi di brace, forse indeciso sul da farsi; poi grugnì e si allontanò, seguito a ruota dall’altro. I passi si allontanarono, la porta di legno girò sui cardini, stridette e infine si richiuse con un tonfo.
“Non sei un damerino Thyatiano. E forse non sei nemmeno uno stupratore. Ma sei senza ombra di dubbio un pazzo.” commentò Cheslav.
Destro invece lo scrutò con attenzione; poi disse: “No, non lo è.”
Ignorò sia l’uno, sia l’altro e abbandonò il pagliericcio. Raggiunse la ciotola abbandonata a terra, la raccolse e mandò giù la brodaglia in un sol sorso. Sapeva di verdure e pollo annacquati, ma almeno era calda. Si disfece della scodella e si rivolse al mezzuomo.
“La mangi quella?”
Destro fissò la squallida broda che teneva fra le mani. Arricciò il naso e gli porse la propria razione.
“Non ci penso nemmeno. Anzi, non so con che coraggio tu riesca a mandarla giù.”
“Basta far finta che sia zuppa di fagioli. Con il pane all’aglio e il rosmarino.” rispose, bevendo avidamente quanto ottenuto “Oppure basta essere a digiuno da giorni. Sai, ho perso al gioco i miei ultimi Reali. Parola mia, credo che ora come ora addenterei anche un topo di fogna, crudo e con tutta la pelliccia.”
“Usciamo da qui e ti offro la cena. Conosco una taverna dall’altra parte del Verdarzillo che fa un’ottima minestra di ceci. Con la salvia, il prezzemolo e un pizzico di cannella. La parte migliore è inzupparci dentro il pane. Più è raffermo, più è buono. In cambio dimmi il tuo nome.”
Calardir adocchiò il mezzuomo, soppesando la proposta. Non si fidava completamente di lui, ma in qualche modo avevano attirato ognuno l’interesse dell’altro. Nella situazione in cui si trovava, poi, poteva tornargli utile; e non soltanto per evadere di prigione.
“Uscire?!” si intromise il vecchio, tossendo “E come? Se ci riesci, comunque, io mi chiamo Cheslav Didimiv. Non te lo dimenticare!”
“Basta gracchiare! Ecco perché stai sullo stomaco di tutti, corvaccio della malora. Presto tirerai le cuoia, dovresti piuttosto risparmiare il fiato. Così quella vacca di tua moglie non si mette troppo comoda! Lei e quella palla di lardo di tuo figlio.”
Pyotr si era svegliato. Con tutto il baccano che avevano fatto non c’era da stupirsene, specie se si consideravano le urla di Erofey. O forse era stato solo l’odore di brodo a rendergli i sensi. Cheslav ribatté che la palla di lardo in questione era la testimonianza che i suoi lombi erano stati sani, mentre i polli che l’altro rubava avrebbero potuto raccontare solo che sordide storie. Rise e scosse la testa; poi tornò al mezzuomo.
“D’accordo. Tirami fuori e ti dico il mio nome.” fece, incrociando le braccia al petto.
Era sinceramente curioso di sapere come avrebbe fatto e se l’abilità che tanto vantava avrebbe avuto ragione delle solide sbarre. Destro non si scompose, andò al pagliericcio, vi si accomodò e cominciò a sfilarsi uno degli stivali. Inarcò il sopracciglio, chiedendosi cosa celasse lì dentro. Tuttavia quando l’altro estrasse dalle calzature tensore e grimaldello non si stupì.
“Volevi sapere perché avessi dato spettacolo. E’ semplice. Perché essere sopravvalutati non è sempre vantaggioso, anzi. I più non si guardano le spalle da pusillanime e mentecatti. Inoltre le mie strilla sono fastidiose. Si sono sbarazzati di me in tutta fretta e mi hanno gettato in gattabuia senza nemmeno una perquisizione.”
“Resta un azzardo. Ci sono prigioni più sicure e guardie più sveglie. Cosa avresti fatto se non avesse funzionato?”
“Avrei provocato il più sciocco fra i carcerieri e sarei sgusciato via alla prima occasione. Con la differenza che sono più piccolo e più agile di te.” ribatté.
Calardir rise.
“Adesso sei tu che mi stai sottovalutando.” soggiunse.
Destro non rispose, raggiunse l’inferriata, posizionò il tensore nella serratura e subito dopo vi inserì anche il grimaldello. L’osservò mentre tastava accuratamente le molle del congegno con la punta uncinata, tendeva l’orecchio e ne ascoltava le piccole sfumature di rumore. I suoi tocchi erano leggeri, rapidi e precisi, come se non impiegasse il minimo sforzo nell’impresa. Eppure bastava guardarlo in faccia per notarne l’effettiva concentrazione. Di tanto in tanto si fermava, frustrato, e lanciava occhiatacce in direzione di Cheslav che tossiva, sputava e inveiva dietro a Pyotr. Di sicuro il vecchio non gli rendeva più facile il lavoro. Poi, d’improvviso, il mezzuomo infuse la giusta pressione al grimaldello e lasciò ruotare il tensore. Di rimando la serratura scattò e la porta della gabbia s’aprì di uno spiraglio.
Destro estrasse gli arnesi da scasso e li fece volteggiare brevemente tra le dita, prima di occultarli da qualche parte fra i vestiti. Poi si passò con soddisfazione l’indice sotto il naso e lo guardò. Era stato talmente rapido che non era riuscito a capire nemmeno il movimento delle sue mani. Calardir recuperò il cappello e lo raggiunse in prossimità dell’uscio, ma quando fece per avviarsi al camminamento quello gli piantò il palmo sullo sterno e lo fermò.
“Andrò io. Mi nasconderò dietro ai barili di fianco alla porta. Quando sono arrivato stavano già bevendo birra. Non mi noteranno nemmeno. Recuperare armi e bagaglio sarà un gioco da ragazzi. Energumeno e compagni si accorgeranno di quello che è successo soltanto quando passerò loro la lama da un orecchio all’altro.”
“Erofey non è affar tuo. Non c’è bisogno di spargere sangue.” ribatté.
Ciò detto lo scansò dalla traiettoria e proseguì. Destro barcollò indietro di un paio di passi, ma non gli prestò ulteriore attenzione. Anche quando quello lo richiamò con un secco “ehi”, probabilmente risentito. Abbandonò la gattabuia e percorse a passo svelto il corridoio fra le celle. Infilò la mano in tasca e afferrò un pugno di polvere. Si concentrò e man mano sentì il calore animarsi e ribollire dentro di sé. Deglutì, trasse regolari, profondi respiri e trattenne il naturale impeto della cosa, concentrando il flusso incandescente sulla punta delle dita.   
“Ci è riuscito davvero! E’ fuori! E’ fuori!” urlò Cheslav di lontano.
Raggiunse la porta di legno che dava sulla stanza attigua, deciso a sistemare la questione una volta per tutte. A modo suo, ovviamente. Non si preoccupò di passare inosservato, semplicemente spalancò l’uscio e lo varcò. Prevedibilmente gli occhi dei presenti gli si appuntarono addosso. Una delle guardie lasciò cadere sul tavolo il boccale di birra che teneva in mano, espressione inebetita e bocca aperta. Il liquido scrosciò a terra e si spanse fra la polvere. Un altro fra gli uomini balzò invece in piedi e balbettò qualcosa a proposito del come, del quando e del perché. Ma Erofey impiegò decisamente meno a sopraffare la sorpresa e ad estrarre la daga, spingendo il tavolo da un lato per farsi strada. Dopotutto stava aspettando quel momento dalla prima volta che si erano visti, dietro la stalla della taverna. Chissà quanto gli sarebbe piaciuto affondargli la lama nel costato…
Sentì i passi di Destro raggiungerlo di volata, mentre l’effetto sorpresa svaniva e tutti i carcerieri, abbandonati panche e boccali, sguainavano le armi e si predisponevano allo scontro. Di conseguenza la cerchia gli si strinse innanzi e gli tagliò le possibili vie di fuga. Il mezzuomo doveva essere realmente preoccupato, ora che non poteva agire nell’ombra e si trovava faccia a faccia con avversari grossi il doppio di lui. Non si sarebbe stupito se avesse tentato la fuga, lasciandolo da solo alla mercé di Erofey.
“Non so come tu abbia fatto, ma stavolta non te la cavi! Sei disarmato, cosa puoi fare? Niente! Sei pazzo, oltre che un uomo morto!” tuonò il cugino di Pavla, muscoli gonfi e vene sul collo.
Sorrise, sprezzante. D’altro canto percepì Destro trattenere il respiro. Poi scansò i lembi del mantello con un gesto secco e scoprì le braccia. Le mani gli formicolavano, ormai. I presenti sussultarono appena, confusi; ma non diede loro il tempo di capire, ammesso che potessero. Si portò la mano e la polvere innanzi al viso, rilasciò l’energia accumulata e la soffiò addosso agli avversari. Dopodiché cantilenò velocemente la formula necessaria e svolse in scioltezza la giusta sequenza di gesti. Il suono della sua voce divenne improvvisamente duro, profondo, quasi gutturale e si disperse stentoreo nell’ambiente, come se a parlare fosse qualcun altro. Qualcuno di più antico.
Confuso, quasi spaventato, Erofey si scagliò contro di lui in un ultimo, disperato tentativo di sopraffarlo; ma quando il silenzio calò improvviso nella stanza, l’uomo precipitò al suolo profondamente addormentato assieme ai compari. La daga che quello impugnava scivolò e roteò sul pavimento con un sordo rumore metallico, fermandosi poco più in là. Innocua.
Si voltò appena in direzione del mezzuomo e lo esortò a passare per primo con un elegante cenno della mano.
“Dopo di te. Stai solo attento a dove metti i piedi.”
Sonori grugniti andarono a sovrapporsi al suono della sua voce. Una fra le guardie si grattò perfino l’ascella e si rigirò mugugnando dall’altro lato, forse in cerca di una posizione più comoda. Destro invece non si mosse. Aprì la bocca una volta, poi una seconda, finché trovò il fiato e le parole che cercava.
“Sei un mago. Uno di quelli veri, intendo. Di quelli che tessono la Trama e fanno gli incantesimi.” fece, passandosi la mano fra i capelli arruffati; poi saltellò fra i corpi stesi al suolo “Dormono tutti. Eccetto il vecchio e quell’altro. Sono cascati a terra come pesci senza lisca. Come hai… no, lascia perdere. Non avevo mai incontrato un mago, prima. Non uno di quelli veri, almeno. Si dice che siate in grado di rianimare i morti e di far piovere frecce di fuoco dal cielo. E’ così?”
Per la prima volta da che si erano incontrati, fra la sorpresa e la curiosità, nell’espressione del mezzuomo lesse anche un pizzico di genuino timore. Era più serio rispetto a prima e lo osservava con una certa dose di cautela. Niente d’inaspettato, comunque. Dopotutto uomini e donne capaci di manipolare la Trama e di usarla a proprio piacimento erano comunemente temuti in tutto il regno di Kratos. A ragione, riteneva.
“I maghi così potenti sono rari. E sono vulnerabili come gli altri uomini, se colti di sorpresa.” commentò; poi si strinse nelle spalle “Ho studiato la Trama, sì. Ma questo non fa di me un mago. Il mio potere è… diverso.”
“Diverso…”
Destro ripeté e soppesò la parola, mani sui fianchi e sopracciglia aggrottate. Stava riflettendo e presto sarebbe giunto all’ovvia e inevitabile conclusione. Ma quanto avrebbe realizzato non sarebbe servito a tranquillizzarlo. Ciononostante, quando il mezzuomo sollevò su di lui i grandi occhi castani, restò stupito: era greve, profondo, ma in quello sguardo non c’era effettiva paura; solo piena consapevolezza e nuova determinazione.
“In altre parole sei uno stregone. Un mezzosangue. Stirpe di Drago. Di voi si dice anche peggio.”
“Sono solo leggende.”
“Nella penombra della cella sei riuscito a ingannarmi, ma ora lo vedo chiaramente. I tuoi occhi sono del colore dell’ametista. E io non ho mai incontrato pupille simili, né fra gli uomini, né fra gli elfi.”
“Ti turbano?”
“Meno di una femmina tra i piedi.”
Senza mai staccargli gli occhi di dosso Destro l’aggirò, superò il corpo di Erofey con un balzo e si piazzò agilmente in prossimità della porta.
“Dovevo scappare quando hai affrontato le guardie. Che hai intenzione di fare adesso? Perché mi hai detto queste cose? Avresti potuto addormentarmi assieme agli altri e dileguarti nella notte. Chiunque con un po’ di sale in zucca ti denuncerebbe alla milizia, sapendo quello che so io. La pena per quelli come te è la morte. Se ti prendessero ti mozzerebbero le mani, la lingua e ti metterebbero al rogo l’indomani stesso, lasciando esposti i resti.”
“Tu non lo faresti.”
“Io non sono uno sciocco. Ma vedo che l’eventualità non t’impensierisce. Hai forse intenzione di uccidermi? Altrimenti parla chiaro.”
Destro scivolò di un altro passo verso la porta. Non gli interessava più di recuperare né il bagaglio né le armi, ma si era assicurato la via di fuga più breve. Se avesse fatto anche il più piccolo, avventato gesto l’avrebbe si sicuro visto schizzare fuori alla velocità del fulmine per mai più ritrovarlo. Saggio, da parte sua. Ma era anche un mezzuomo curioso, oltre che intelligente, e voleva delle risposte.
“A dispetto delle leggende, non amo gli inutili spargimenti di sangue. Inoltre ti ritengo abile ed estremamente sveglio. Eppure il rischio non ti spaventa. Ti eccita, semmai. Per questo sei qui a temporeggiare, per questo vuoi sapere. E io ho ancora un nome da dirti e un affare da proporti. Altrimenti stai pur certo che saresti già steso a terra assieme agli altri. Perché non ne discutiamo davanti alla minestra di ceci che mi hai promesso?”
Destro inarcò il sopracciglio e lo studiò ancora per un po’, forse indeciso se credergli oppure no. Poi si rilassò e sciolse i muscoli di braccia e gambe, assumendo una posa leggermente meno rigida. Tuttavia non si allontanò dall’uscita. Né alleggerì la serietà dei tratti.
“Non così in fretta. Dopotutto non so ancora come ti chiami. Inoltre, che ci faceva uno stregone sdraiato in gattabuia?!”
“Avevo fame. Stavo aspettando l’ora di cena.”
“Sei assurdo.”
“Più assurdo di un borseggiatore che si fa imprigionare per divertimento?” ribatté, arricciando le labbra verso l’alto.
Destro scosse la testa e rise di rimando. Ciononostante lo vide esitare ancora, combattuto forse fra l’istinto, la ragione e l’indubbia curiosità. Il mezzuomo impiegò poco per giungere a capo dei dubbi, perché subito dopo tornò sui propri passi e si diresse sul lato opposto della stanza, dove una grossa pila di cianfrusaglie stava accatastata in un angolo di fianco ai barili, oltre la tavola rettangolare. Capitava assai di rado che qualcuno gli concedesse fiducia. Specie sapendo ciò che Destro sapeva. Rilasciò un piccolo sospiro e sorrise fra sé, soddisfatto. L’accompagnò con gli occhi, mentre frugava attentamente fra il ciarpame e rinveniva quanto gli era stato sottratto in precedenza: cintura e pugnale, bagaglio in pelle e balestrino leggero di ottima fattura.
Calardir valutò brevemente l’attrezzatura del mezzuomo, poi distolse lo sguardo e si approssimò all’uscita. Aprì la porta e un refolo l’investì, facendogli ondeggiare le pieghe del mantello. Era sera inoltrata ma l’aria non era fredda. Frizzante era forse il termine giusto per descriverla. Si calcò meglio il cappello sulla testa e uscì in strada. I dintorni erano bui, deserti e le facciate delle case apparivano grigie e fredde. Da qualche finestra s’intravedeva appena la fioca luce di un focolare. Sollevò il naso per aria e si soffermò a guardare il cielo, dove le stelle occhieggiavano languide. Pellegrino doveva essere nei dintorni e presto o tardi si sarebbe fatto vivo. Fischiò forte, per chiamarlo. Di rimando un’ombra saettò sopra i tetti e gli coprì la visuale per pochissimi istanti. Era stato fortunato e l’aveva trovato prima del previsto. Sollevò il braccio e attese. Destro lo raggiunse in strada che il falco era già calato e gli aveva saldamente affondato gli artigli nel guanto, accaparrandosi il sostegno con un verso stridulo. Lo carezzò sul petto e quello arruffò le piume, inclinando la testa.
“Pellegrino.”
“E’ il tuo nome o quello del pennuto?”
Rise.
“Io sono Calardir. Il falco ci indicherà la strada.”
Pellegrino fischiò ancora e schiuse leggermente le ali, quasi volesse confermarlo. Calardir sorrise, annuì in risposta e si incamminò lungo il sentiero sterrato. Da dietro, invece, arrivò il commento di Destro: “Usi le pitture di guerra, hai un compagno animale e perfino un nome elfico. Eppure sei uno stregone. Dire che sei assurdo è dire poco. Al confronto io sono la sagra delle banalità!”
Dopo molto tempo torno a pubblicare. Questo è un capitolo di presentazione dei personaggi, perlopiù. Ma la vicenda entrerà presto nel merito. Intanto spero davvero di non aver annoiato chi è riuscito ad arrivare fin qui. °A° Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate. Se avete trovato il capitolo pesante, poco scorrevole, non chiaro, etc. O se c'è qualcosa che vi è piaciuto particolarmente. ^^ Alla prossima!
CompaH
   
 
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