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Nella capitale del regno,
la vita scorreva tranquilla.
Da tempo
la gente aveva smesso di interessarsi alle faccende relative alla guerra con
l’Impero, nonostante le voci circa la perdita di tutti i domini e i territori
conquistati al di là dei confini che avevano costretto molti coloni a tornare
indietro.
Abbarbicato
sulla collina più alta, il Tempio della Dea svettava su ogni altra cosa,
incluso il palazzo del re, etereo ed al tempo stesso imponente occhio della
divinità spalancato sui suoi sudditi.
Per
l’Impero quella della Dea era una religione eretica, come del resto lo era il
culto degli spiriti e degli elementi per gli abitanti del Regno, e forse era
anche per questo che persino il Tempio, nonostante la sua apparente estraneità
alle questioni politiche, fosse tanto interessato all’andamento della guerra.
Per
questo, nessuno si stupì dell’arrivo in città di un messaggero diretto
all’acropoli; a stupire ormai era la sua fretta, la sua espressione sconvolta,
e le misere condizioni del suo cavallo, che sembrava aver attraversato di corsa
tutto il regno e ormai prossimo alla morte tanto appariva stremato.
I
Guardiani lo fermarono al cancello, ed il loro nerboruto capitano, Roland,
detto Barbarossa per il colore cremisi della folta peluria che gli scendeva
fino al petto, si fece avanti per interrogarlo.
«Fermo,
in nome della dèa!» ordinò. «Come osi entrare in modo tanto irrispettoso in
questo luogo sacro? Cosa vuoi?»
«Vengo
da Barenheim! Devo conferire subito con la
Venerabile!»
«Sei
impazzito? La Venerabile non riceve nessuno. Dai a me il tuo messaggio, e se lo
riterrò opportuno farò in modo che giunga alle sue orecchie.»
Agli uomini, fossero essi
pellegrini, devoti o persino gli stessi Guardiani, era proibito nel modo più
assoluto di avere accesso al tempio principale.
Nonostante
ciò pochi minuti dopo Roland sfondò letteralmente le porte che immettevano
nell’anticamera, la soglia massima entro cui persino lui non poteva andare, ma
nelle condizioni in cui appariva era difficile dire se sarebbe stato in grado
di non procedere oltre qualora la Veneranda Esther,
Prima Sacerdotessa e consigliera fidata della Venerabile Chana,
non si fosse trovata casualmente lì per altre faccende.
«Spero
che questa mancanza di rispetto sia giustificata, Capitano Roland.»
«Mia
Signora, una notizia gravissima. Dovete chiedere subito udienza alla
Venerabile! Barenheim è stata conquistata
dall’Impero!»
Anche
l’anziana badessa, a quel punto, si pietrificò, facendosi più bianca della
veste che portava.
«Come
avete detto!?»
A quel
punto non era davvero possibile non informare la Chana,
e difatti la Veneranda Esther, congedato il Capitano
e tutte le altre sacerdotesse, entrò da sola nel cuore del tempio, raggiungendo
a passi svelti l’altro capo della navata dove, inginocchiata al suolo
apparentemente in preghiera, stava la Venerabile Alimad,
ultima Chana della Dea, i capelli lunghi impreziositi
da filamenti dorati, la veste candida e innumerevoli gioielli, alcuni dei quali
sembravano letteralmente incastonati nella pelle olivastra, liscia come il
tessuto.
«Mia
Signora» disse la badessa. «Porto notizie gravi.»
«Talmente
gravi da disturbarmi durante le mie preghiere?» domandò seccata Alimad alzandosi e fulminandola con i suoi occhi di
ghiaccio.
«Sono
terribilmente desolata per l’accaduto, ma le circostanze lo richiedevano.
Giungono
notizie terribili dal fronte. La città di Barenheim è
stata conquistata, e quasi tutte le truppe che la difendevano sono state
uccise.»
Stranamente,
la Chana non si scompose più di tanto; non che vi
fosse da esserne sorpresi, per qualcuno che della vita e del mondo al di fuori
della capitale sapeva poco e niente.
«Sua
maestà ha convocato il Consiglio di Guerra, e i nobili stanno discutendo le
prossime azioni da compiere. Sembra che l’intenzione sia quella di organizzare
una nuova linea del fronte all’altezza di Olon, lungo
le Alture Radiose, anche se significherà abbandonare a loro stesse numerose
città e regioni d’oriente.»
«E tu
interrompi le mie meditazioni solo per dirmi questo?»
«Veramente,
no» deglutì l’anziana. «Il problema è che, stando ai primi resoconti, Barenheim non sarebbe caduta per opera degli imperiali. Non
solo, almeno.
I pochi
superstiti parlano di strane creature, sbucate dal nulla, che hanno assalito la
guarnigione direttamente dall’interno, dando così modo all’esercito imperiale
di penetrare indisturbato in città.»
«Forse
alcuni di quegli uomini hanno esagerato con il vino. O forse sono scappati,
inventando questa scusa assurda per giustificare la loro codardia.»
«Il
fatto è che i racconti coincidono mia signora. Prego la Dea di sbagliarmi, ma
il mio timore è che gli imperiali abbiano fatto ricorso alle loro arti
malefiche per evocare in questo mondo i loro falsi dèi e potersene servire in
battaglia.»
«Se sono
falsi, come avrebbero fatto ad evocarli?» domandò la Chana
quasi con sfida
«Perché
non sono dèi, Mia Signora. Sono demoni. Creature infernali, le stesse che la
nostra Santa Madre ricacciò nelle profondità oscure quando scese in mezzo a noi
per purificarci dalle false dottrine e spingerci a riconoscere la Vera Fede.
Ma
l’Impero non ha mai rinnegato le proprie credenze eretiche, e ora se ne serve
contro di noi.»
«Secondo
me voi viaggiate un po’ troppo con la fantasia, Esther.
Io non credo ai demoni.»
«Nemmeno
io, mia signora. Mi risulta difficile credere a tutta questa voi tanto quanto a
voi.
Però non
possiamo ignorare un tale pericolo, senza contare che avendo ora la strada
spianata all’interno del regno gli eretici imperiali potranno diffondere
liberamente la loro fede pagana tra le popolazioni conquistate, infangando e
minando la sacra parola e la reputazione di Vostra Magnificenza.
Il mio
umile suggerimento è di autorizzare l’invio ad oriente della Santa Inquisizione
e delle sue truppe.»
«Fai
quello che ti pare» fu la risposta piccata della Chana.
«Sei tu quella esperta di certe questioni.»
«Come
desiderate, mia signora.»
La
badessa a quel punto fece per andarsene, ma fatti due passi si voltò nuovamente
verso la sua Chana.
«Un’altra
cosa, e spero mi perdonerete.»
«Che
altro c’è?»
«Se
voleste umilmente seguirmi nell’anticamera, c’è qualcuno che vorrei farle
conoscere.»
«Non
voglio vedere nessuno. Sono stufa di pellegrini morti di fame che vengono qui
in cerca di preghiere e monete d’oro.»
«No,
nulla di tutto questo. Fidatevi di me.»
Chiedere
ad Alimad di fidarsi di qualcuno era come chiedere
alle sfere celesti di girare in senso opposto, e solo la badessa sapeva come
avere ragione del suo carattere a volte davvero impossibile.
Alla
fine, ancora una volta, la convinse.
«Ora che
l’Impero è penetrato nel regno» spiegò la badessa mentre percorrevano la
navata. «Il pericolo rappresentato dalle spie e dagli assassini che potrebbero
attentare alla vostra vita è indubbiamente aumentato, poiché la vostra morte
demoralizzerebbe senza dubbio le nostre truppe.
Così, dando
seguito alla richiesta che mi avevate fatto, ho cercato in ogni angolo del
regno, alla ricerca dei più valenti ed esperti cavalieri, cui affidare il
compito di proteggere in ogni quando e in ogni dove la vostra persona.»
Come le
porte dell’anticamera si aprirono, dinnanzi alle due chieriche si palesarono
tre giovani in abiti bianchissimi, tanto da farli rassomigliare a loro volta a
dei sacerdoti, belli come la luna, due uomini e una donna; i primi due avevano
dei tratti molto gentili, quasi femminei, lunghi capelli argentei, quasi
azzurrini, l’uno e una corta chioma paglierina l’altro, la donna invece
sfoggiava una lunga e fluente chioma nera raccolta in due ampie code lasciate
cadere all’indietro.
Tutti e
tre avevano gli occhi di un insolito colore rosso, quasi una tonalità sangue, e
vi era un che di enigmatico nel loro sguardo: sembrava quasi di potervi leggere
molte, forse persino troppe cose.
«Mia
signora, vi presento i vostri fidati custodi» e li presentò uno per uno, a
cominciare dal giovane dai capelli d’argento. «Zante,
il silenzioso esecutore. Costui è Galinin, l’uccisore
di giganti. Lei invece è Celia, l’occhio della fede.
Loro tre
insieme valgono più di un intero esercito.»
I tre
fecero un inchino, salutati però dalla solita, fredda indifferenza.
«Per me
uno vale l’altro, purché tengano lontani quei bifolchi di imperiali. E ora, con
tutto il rispetto, vorrei starmene un po’ da sola.» e detto questo se ne andò
rinchiudendosi nuovamente nel tempio.
Niza, Arthur e Gora continuarono per giorni ad
avanzare verso occidente, valicando i Confini di Arthal
che con le loro valli e basse pianure ricoperte di foreste costituivano una
preda facile per l’Impero, il quale infatti aveva già iniziato una decisa
avanzata incontrando una resistenza molto scarsa, per non dire quasi nulla.
Situata
lungo la via reale che collegava la
capitale con le province orientali, abbarbicata su di una montagna che dominava
la strada, Uppenhal era un passaggio obbligato per
l’esercito nemico, nonché l’unico vero ostacolo tra i Confini di Arthal e Altura Radiosa, la cordigliera montana che da
tempo immemore costituiva la più importante barriera naturale a difesa della
capitale contro le incursioni da oriente.
Niza non
dubitava di aver fatto la scelta giusta fidandosi di quello strano individuo e
del suo ancor più strano, per non dire strambo, partner di viaggio, ma dato che
la prudenza non era mai troppa cercava di non dormire troppo sugli allori e
restare vigile: dopotutto si trattava pur sempre di potenziali nemici. Durante
il viaggio aveva anche cercato di scoprire qualcosa di più sul conto di quei
due, se non altro per capire meglio le ragioni che li avevano condotti fin lì,
ma ogni volta le sue domande si erano scontrate su di un imperturbabile, quasi
minaccioso, silenzio indifferente.
Dal
giorno della partenza i tre non avevano incontrato altre avanguardie imperiali,
scegliendo però malgrado tutto di seguitare a procedere lungo strade
secondarie; probabilmente l’impero, prima di procedere ulteriormente
nell’interno, intendeva consolidare le proprie conquiste lungo il confine ricostruendo
i ponti sul fiume per facilitare lo spostamento di truppe, il che se non altro
avrebbe dato al regno il tempo sufficiente per organizzare una nuova linea
difensiva.
Definire
enigmatico Arthur era poco.
Il suo
accento imperiale era strano, quasi forzato, tanto da far sospettare a Niza che quella non doveva essere la sua vera lingua madre;
stesso discorso per il suo compare, Gora, una via di mezzo tra una scimmia
insofferente e un docile cagnolino, che sopportava l’indifferenza e la presenza
di Arthur più per apparente timore che per vera e propria fedeltà.
Lasciatisi
alle spalle Arthal i tre erano infine giunti alle
Basse Pianure, una regione di vaste praterie, occasionali foreste e bassi
altipiani, uno dei serbatoi alimentari più importanti dell’impero, e per
questo, secondo Niza, da difendere a tutti i costi.
Eppure,
c’era qualcosa di strano.
Passando
in prossimità degli sterminati campi di riso e di cereali, malgrado la stazione
del raccolto fosse ormai alle porte, questi apparivano stranamente poco
frequentati, per non dire abbandonati, ettari ed ettari di terreni traboccanti
di cibo abbandonati a sé stessi senza nessuno a curarli.
Ovviamente
le notizie giunte dai confini dovevano aver spaventato i contadini, spingendone
alcuni a cercare rifugio oltre le Alture Radiose, ma quando, raggiunta la
contea di Uppenhal, il giovane e i suoi compagni
seguitarono a non incontrare o quasi anima viva, un pensiero sinistro iniziò a
farsi strada nella sua mente.
Ma non
voleva crederci.
Non
poteva crederci.
Poi, sul
fare del tramonto del decimo giorno di cammino, giunsero in vista della
fortezza, e già da lontano fu possibile comprendere che c’era qualcosa di
molto, molto strano.
Benché
ormai fosse quasi sera non vi era traccia di fuochi, né di alcun’altra luce, e
sui camminamenti o tutto intorno non c’era nessuno a montare la guardia; ma
soprattutto, le mura apparivano nere, e cupe fumarole si levavano da più parti,
riempiendo l’aria di un acre odore di bruciato.
«Non è
possibile!» esclamò Niza, che raccolte le poche forze
rimastegli dopo quella interminabile marcia si arrampicò su per la collina,
seguito pochi passi indietro dai suoi compagni di viaggio.
Raggiunta
la cima, il giovane soldato trovò il cancello aperto, il cortile deserto, e
segni evidenti di un incendio che solo da poco doveva essersi estinto, e che
aveva completamente distrutto buona parte delle strutture in legno minando
l’integrità stessa della struttura.
«No!»
gridò cadendo in ginocchio. «Perché? Come hanno fatto ad arrivare prima di
noi?»
Nella foga
e nella disperazione del momento Niza non aveva
notato una pergamena infilzata su uno dei battenti principali, in un punto
protetto dal fuoco, marchiato a cera col sigillo reale.
Raccoltolo,
Arthur lo mostrò al giovane, che lo lesse sgomento.
In nome di Sua Maestà il Re
Al fine di salvaguardare l’integrità e la
sovranità del Regno dalla barbara incursione dell’esercito imperiale a seguito
della fortezza di Rubinhaim, per ordine di Sua Maestà
e del Supremo Consiglio di Guerra tutte le unità militari ancora operative
devono ripiegare immediatamente verso la fortezza di Olon,
oltre le Alture Radiose.
Tutto ciò che non può essere trasportato o
messo in sicurezza deve essere immediatamente distrutto, fattorie, campi e
granai devono essere svuotati di tutto ciò che è possibile recuperare e poi
abbandonati o distrutti.
La sicurezza delle truppe e dei
rifornimenti è da considerarsi prioritaria rispetto alla salvaguardia dei
civili.
Il Passo di Mezzombra sarà sbarrato
l’ultima notte di luna piena; chiunque non risponderà al richiamo alle armi e
seguiterà a rimanere in queste terre dopo tale giorno sarà considerato un
disertore.
Che la Dea vegli su di noi.
Lunga Vita al Re
«Non può essere» disse Niza con le lacrime agli occhi. «Hanno abbandonato
l’oriente. Hanno abbandonato la popolazione alla mercé del nemico.»
«Niza» lo chiamò Arthur dal camminamento su cui era salito.
«Vieni a vedere.»
Il rosso
del tramonto e la fitta nebbia in cui avevano camminato in quegli ultimi giorni
aveva nascosto la verità, e quel poco che restava della baldanza che aveva
caratterizzato il giovane soldato per tutto quel tempo venne spazzato via
dinnanzi allo spettacolo che, affacciatosi dal bastione, gli si parò dinnanzi.
Il cielo
era rosso.
Ma non
per il tramonto, ancora per buona parte nascosto dalla foschia. A brillare
erano campi, piantagioni e interi villaggi, tramutati dai loro stessi abitanti
in giganteschi roghi, si da non lasciare nulla nelle mani degli invasori.
Ovunque, a perdita d’occhio, niente altro che incendi, piccoli e grandi, che
illuminavano più del sole, tingendo di un rosso vermiglio le pendici delle
Alture Radiose che si intravedevano in lontananza.
Per un
attimo sembrò che la disperazione dovesse impossessarsi completamente di lui da
un momento all’altro, ma nel momento in cui Arthur lo guardò negl’occhi in essi
vide accendersi una nuova fiamma.
«Dobbiamo
andare subito a casa mia!» esclamò facendo brandelli del messaggio. «I miei
genitori e i miei fratelli vivono al di qua delle Alture Radiose, e il loro
villaggio è troppo isolato perché possano aver ricevuto l’ordine di
evacuazione.»
«Non
erano questi gli accordi.» mormorò gelido Arthur
«Ti
prego! Mio padre è stato una guardia del tempio! Se lo trovano lo uccideranno!
Giuro al
cospetto della dèa che questo è l’ultimo favore che ti chiedo. Ludgored non è lontano dal mio villaggio. Ci basterà fare
una piccola deviazione. Aiutami a raggiungere la mia famiglia e ti prometto che
ti condurrò dove vuoi andare.»
Arthur
temporeggiò, guardando ora i fuochi all’orizzonte ora la fredda pietra sotto i
suoi piedi, a sua volta osservato da un ancor più pensieroso Gora.
«Fai
come credi.»
A quel
punto Niza non riuscì a trattenersi dal sorridere di
gioia.
«Ti
ringrazio. Grazie infinite.»
«Ora
però sarà meglio muoversi. Quando gli esploratori imperiali riferiranno di
questa ritirata il resto dell’esercito inizierà ad avanzare in massa, sempre
che non stia già accadendo.»
«Sì,
naturalmente. Vado a dare un’occhiata in giro. Forse nella fretta di andarsene
hanno lasciato qualcosa di utile.»
Il
giovane si avventurò quindi all’interno del forte, lasciando Arthur e Gora da
soli nel cortile.
Pochi
minuti dopo, casualmente, passò di lì una coppia di cavalli bradi, forse
fuggiti da qualche fattoria dei dintorni, e Gora fu lesto a raggiungerli e portarli
indietro pronti per essere sellati, ma quando tornò dal suo padrone si avvide
che questi appariva stranamente in ansia, quasi nervoso.
Il
silenzio tutto attorno era assoluto, eppure, a tendere l’orecchio, sembrava
quasi di sentire qualcosa, come un tremore che scoteva impercettibilmente il
terreno, ed entrambi impiegarono solo pochi attimi a percepirlo in modo nitido.
Arthur
si inginocchiò, poggiando una mano sulla sabbia umida, mentre sul suo volto
compariva un’espressione preoccupata.
«Mio signore…» balbettò Gora quasi spaventato mentre il suo
compagno, rialzatosi in piedi, sembrava tendere al massimo ogni fibra del suo
corpo, gettando da un lato il pesante mantello e mettendo a nudo la propria
spada
«Arrivano.»
Il
tremore si fece sempre più intenso, tanto da far tremare i sassi e vibrare le
pareti; poi, come per qualche strano sortilegio, strane ed inquietanti bolle
nere simili a catrame cominciarono a formarsi in terra subito oltre il muro di
cinta, emettendo un fumo maleodorante e facendosi, di secondo in secondo,
sempre più grosse, fino a tramutarsi in un centinaio di esseri mostruosi che di
umano avevano solo la struttura.
Erano
orrendi; simili a rettili, presentavano una pelle squamosa, il muso schiacciato
con le ossa praticamente messe a nudo, denti aguzzi da predatori, occhi piccoli
e gialli e una testa innaturalmente rotonda, come quella di un neonato. Erano
tutti armati, chi con spade, chi con asce, chi persino solo con bastoni e
pietre, e molti indossavano scampoli di armature arrugginite, quasi le avessero
recuperate depredando cadaveri sui campi di battaglia.
Gora,
come spaventato, fece qualche passo indietro, ma forse contagiato
dall’apparente imperturbabilità del suo padrone quasi subito parve riscuotersi,
assumendo a sua volta un tono di sfida nei confronti di quelle creature, che
come mosche attirate da una carcassa cominciarono subito ad avvicinarsi,
minacciose, emettendo latrati e stridii sommessi che raggelavano il sangue.
Fatti solo
pochi passi, la loro avanzata sospettosa si tramutò invece in una carica
furibonda, un vero e proprio assalto; fortunatamente il portone non era
completamente spalancato, e i suoi battenti erano davvero troppo pesanti perché
quell’orda, per quanto imponente, potesse riuscire ad aprirli completamente,
così il loro ingresso nel cortile risultò alquanto complicato, dando modo ad
Arthur di poterne fare scempio con relativa facilità.
A dar
man forte al giovane intervenne il suo compagno, che preso messosi in bocca un
pendente simile a quello di Arthur puntò il dito contro una coppia di statue
ornamentali che sorreggevano le colonne del porticato, e che come per incanto
si animarono di vita propria, prendendo a muoversi e unendosi a loro volta alla
battaglia schiacciando quelle creature sotto le loro mani di pietra.
Niza, che nel
mentre aveva trovato un po’ di cibo, delle selle e una balestra, attirato dal rumore
tornò nel cortile, e fu solo per la sua prontezza di riflessi se uno dei mostri
non gli mozzò di netto la testa appena varcata la porta dei sotterranei.
Pur atterrito
dalla mostruosità di quelle creature il giovane non si fece prendere dal
panico, e sguainata la spada si gettò nella mischia dopo aver ucciso il primo
aggressore, ma nel mentre la situazione, invece che migliorare, si era
aggravata: comprendendo le difficoltà di attaccare dal portone, infatti, i mostri
avevano puntato invece ai bastioni, riuscendo a scalarli con le loro mani
artigliate e sciamando così all’interno in gran numero, giacché i tre guerrieri
si ritrovarono ben presto attaccati da tutte le direzioni.
Ucciso l’ennesimo
mostro Arthur si guardò un momento attorno, e comprendendo di essere ormai
circondato parve quasi gettare la spugna, inginocchiandosi a terra e piantando
con moderata forza la spada nel terreno.
«Che sta
facendo?» gridò Niza.
Gora,
accorgendosene, si fece bianco come un lenzuolo.
«Mio
signore, non fatelo!»
Tuttavia,
nel momento in cui sentì il suo compagno iniziare a salmodiare in una strana
lingua, Gora prese subito l’iniziativa, richiamando le due statue sotto il suo
controllo e mettendole a difesa di Arthur perché nessuno di quei mostri potesse
toccarlo.
«Svelto,
allontaniamoci!» urlò afferrando Niza per un braccio
e portandolo con sé in uno stretto pertugio, di cui sbarrò immediatamente l’accesso
animando una terza statua ed erigendola a proprio scudo. «Chiudi gli occhi!»
Niza, pur
sempre più confuso, obbedì, lasciando Arthur da solo nel mezzo del cortile;
questi, imperterrito, continuò a salmodiare, le mani ben strette attorno all’elsa,
e d’improvviso il gioiello che portava al collo esplose in un accecante bagliore
di luce, che accompagnato da una violenta raffica di vento si propagò in ogni
direzione con la potenza di un tornado.
Le creature
cercarono a loro volta di proteggersi, ma come il bagliore, potentissimo, le
investì, i loro corpi si mutarono nuovamente in quella sorta di catrame
putrescente che rapidamente si dissolse, e così pure quelli che erano già
morti; anche le statue evocate da Gora caddero in pezzi, private da un istante
all’altro dell’energia che permetteva loro di muoversi, fino a che nella
fortezza non tornarono la quiete ed il silenzio.
Quando Niza aprì gli occhi, di quei mostri non vi era più traccia,
e nei suoi occhi si stampò uno sguardo di incredulità mista a sgomento.
«Mio signore…» disse Gora avvicinandosi, impassibile, ad Arthur,
che rialzatosi rinfoderò la spada
«Ormai
non ci sono più dubbi.»
«Se è in
atto un’orda» disse Gora guardando verso il cielo. «Presto manderanno qualcuno.
E sicuramente avranno percepito anche l’incantesimo.»
«Dobbiamo
fare presto.»
I loro
pensieri però vennero bloccati dal rumore, alle loro spalle, di un’arma
sguainata; voltatisi, video Niza che, tremante,
teneva la spada puntata contro di loro.
«Chi… che cosa diavolo siete voi?» domandò a denti stretti.