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Autore: arwriter    02/03/2015    14 recensioni
Quando Christian arriva a Williston come nuovo studente della scuola superiore, la vita di Alice prende una piega diversa, poiché se ne innamora fin dal primo istante. Questo amore è incondizionatamente corrisposto, ma c’è qualcosa in lui che non le è ancora chiaro.
Durante una loro uscita la porta in un prato, e da lì tutto cambia. Alice entra in un sottomondo chiamato Metarsios, a cui Christian appartiene, dove regna solo l'inverno poiché l'estate può tornare solo con il ritrovamento di un gioiello dai poteri straordinari risalente alla dominazione Hidatsa, rubato dagli umani alla popolazione ultraterrena.
Alice dovrà esplorare il mondo cercando di salvarsi dai dominatori che vogliono ucciderla, e nel frattempo rassegnarsi ad un amore impossibile.
Riuscirà ad affrontare le difficoltà o sarà pronta a rinunciare per sempre a Christian?
IN FASE DI REVISIONE
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Primavera



 
Legai infine i miei capelli in una lunga treccia; ero pronta per uscire. Mi misi addosso il giubbotto, presi lo zaino, salutai mia madre e volai dritto verso la porta d’uscita.
La giornata era appena iniziata e io stranamente mi sentivo serena, nonostante al mattino fossi sempre assonnata e stanca. Cliccai play sul mio cellulare e iniziò una canzone che forse non avevo mai sentito: Samuel mi aveva prestato la sua chiavetta per esportarne qualcuna sul telefono, ne risultava che non ne conoscevo la maggior parte.
Arrivai a scuola in poco tempo, come sempre: la mia casa distava poco dalla scuola superiore di Williston. Ad aspettarmi davanti al cancello c’era ovviamente lui, Samuel. Aveva un braccio lungo i fianchi e l’altro alzato con cui si stringeva alla ringhiera, e portava un gilet e dei jeans che non si adattavano totalmente alla temperatura del primo giorno primaverile. Voltò la testa e, quando mi vide, sul suo volto apparve un sorriso smagliante e i suoi occhi azzurri si illuminarono. Appena lo raggiunsi, appoggiò il suo braccio sinistro sulla mia spalla destra e mi condusse verso l’entrata della scuola.
Io e Sam, così lo chiamavo in sua presenza, non eravamo fidanzati, ma ci frequentavamo da qualche settimana, pur conoscendoci dal mio primo anno di scuola superiore. Mi era sempre piaciuto, fin dai primi istanti, quando aveva ancora i folti capelli neri lunghi e un po’ arruffati, e gli occhiali gli coprivano una parte del viso, perciò per me era una conquista essere arrivata al punto di frequentarlo, anche vista la sua trasformazione fisica che l’aveva portato da semplice adolescente ad acclamato ragazzo della scuola. Mi piaceva stare con lui perché era anche intelligente, e oltretutto avevo molti amici maschi, mentre le amiche femmine scarseggiavano, quindi molto spesso passavo le pause scolastiche nel cortile con Sam e i suoi amici, anche se spesso dovevo sorbirmi i loro discorsi da tipici maschi e sopportare l’odore di fumo che proveniva dalle sigarette di tutti i membri del gruppo, esclusa me. Lo stesso successe quella mattina, dopo le prime due ore di lezione, che volarono.
«Ehi ragazzi, avete visto quella ragazza del quarto anno?» disse Matt mentre aspirava il fumo dalla sigaretta accesa.
«Sì ma non preoccuparti, è già mia!», esclamò poi John. Intanto Samuel, come sempre, aveva il braccio sulle mie spalle, il che mi dava conforto.
«Devi scusarci, Alice! Ti annoiamo come sempre, vero?», borbottò Derek, e scoppiammo tutti in una grande risata.
«Figuratevi ragazzi, tanto ormai vi sopporto ogni giorno, sono abituata!», protestai infine.
 
Passarono le ore di matematica e di educazione fisica, per ultima ci fu chimica. Giunsi in classe come sempre in ritardo, poiché mi fermai più del dovuto alla lezione di educazione fisica: amavo la pallavolo e non riuscivo a smettere di giocarci.  Al mio arrivo, tutti i miei compagni erano seduti ai propri posti, e il professore era intento a parlare con un ragazzo che stava in piedi vicino alla cattedra.
«Buongiorno, signorina Wilson». Il professor Owen era sempre molto cordiale nei miei confronti. «Stavo giusto presentando ai tuoi compagni il nuovo arrivato», si voltò poi verso di lui, «Christopher. Ah no scusate, volevo dire Christian». Tutti risero, ma il ragazzo alla cattedra abbozzò solo una piccola curva sulla bocca, mentre continuava a fissarmi. Prendemmo poi entrambi posto e iniziai ad ascoltare la lezione, mentre lui non toglieva gli occhi di dosso alla mia mano.
«Allora ragazzi, come procede? Ovviamente tutti sapete che giorno è oggi, giusto?», domandò Owen.
«Il primo giorno di primavera», esclamò poi il coro dei miei compagni con un tono da cantilena.
«Beh, per vostra fortuna oggi non ci occuperemo di questo, ma torneremo a parlare di chimica».
Ascoltai la lezione molto attentamente, voltandomi ogni tanto verso il lato sinistro della classe, dove si trovava il nuovo arrivato. Aveva il gomito piegato appoggiato sul banco, e appoggiava la testa su di esso.
Quando mi voltavo, ogni tanto incrociavo il suo sguardo.
All’uscita Sam mi stava aspettando come sempre davanti alla sua nuova Audi, pronto ad accompagnarmi a casa, quando all’improvviso una mano toccò la mia spalla. Mi voltai di scatto.
«Ehm... Scusa, non avevo intenzione di spaventarti», mi disse il nuovo arrivato. La sua voce risuonava lievemente nella mia testa, mentre lo guardavo quasi allibita. «Potresti indicarmi l’aula gialla? Dovrei parlare con un professore, ma non ho ancora imparato molto bene ad orientarmi». Mentre tentai di ricollegare i miei vari pensieri, mi voltai un attimo verso Sam, che ci guardava impietrito. Sorrisi compiaciuta.
«Si, è nell’edificio sulla destra, c’è un solo corridoio quindi la troverai subito. Non impiegherai molto a orientarti qui, è molto piccolo come edificio», continuai la conversazione liberamente, anche sotto lo sguardo vigile di Sam. Era una specie di rivincita. «A proposito, che te ne pare della scuola e della città? Da dove vieni?»
Esitò qualche istante a rispondermi. «Uhm...Vengo dal...Canada. North Bay, vicino Toronto», parlava in maniera troppo insicura, non era convincente. «La scuola mi sembra carina, Williston è una magnifica cittadina. Penso che di North Bay mi manchi solamente la vista del lago».
«Strafigo! Non sono mai stata in Canada. Anzi, quasi da nessuna parte fuori dal North Dakota», affermai. «Ora ti prego di scusarmi, ma devo proprio andare». Lo salutai con la mano e lui la fissò, quasi ipnotizzato. Non feci in tempo a muovermi che Sam mi fece cenno di raggiungerlo. La sua espressione era arrabbiata, gli occhi erano socchiusi a mo’ di sfida e i suoi pugni serrati mi ricordavano le statuette dell’antico Egitto.
«Chi era quello?», chiese Sam, non appena mi avvicinai alla sua macchina.
«E’ nuovo, mi ha chiesto indicazioni».
«Sali», disse indicandomi la macchina. Divenni furiosa; non sopportavo di essere trattata così, soprattutto da lui. Fino a qualche tempo fa non mi era mai balenato per la mente che saremmo diventati tanto uniti e tanto in conflitto allo stesso tempo.
Il viaggio fu breve e nessuno pronunciò la minima parola. Arrivata, aprii la portiera, scesi e feci per salutarlo. Con mia sorpresa, scese anche lui e mi si avvicinò.
«Sei geloso?», domandai con un sorriso malizioso. Fece alcuni passi verso di me, fino a quando le nostre bocche erano a meno di un centimetro di distanza. Tentai di prepararmi psicologicamente a ciò che sarebbe successo pochi istanti dopo, ripensai a tutto, a quando lo vidi per la prima volta, a quanto l’avevo desiderato e a quel momento in cui era lì davanti a me, e forse mi avrebbe detto che provava qualcosa di forte, forse con un bacio...
«No», disse serio, quasi contento di avermi illusa, e si allontanò da me. Camminò verso l’auto con un sorrisetto che mi faceva a dir poco venire i brividi e si sedette sul sedile, pronto a partire. Mi salutò compiaciuto mentre io andavo verso la porta di casa con aria arrabbiata. Ero a dir poco infuriata, non mi capacitavo di essere tanto stupida da stare ancora dietro a una persona del genere, dovevo cambiare aria, dimenticarmi di lui e dedicarmi di più ad altre persone. Decisi di uscire dopo aver mangiato, ma non sapevo a chi chiedere di accompagnarmi. Nonostante ciò, una boccata d’aria da sola non mi avrebbe fatto male; tutt’altro.
Il parco Dakota non era lontano da casa mia, solo qualche isolato. Decisi di andare a correre lì, per distrarmi un po’. A quella tiepida ora del primo pomeriggio il parco ancora quasi vuoto; si vedevano già le tracce del tocco della primavera, i fiori iniziavano a crescere, l’erba diventava di un verde più brillante e gli alberi fiorivano. Il viale d’ingresso al parco era alberato, un venticello mi sfiorava il viso scoperto e il sole irradiava i miei occhi.
La musica rimbombava dalle cuffie nelle mie orecchie come un’eco in una grotta, non sentivo ciò che mi accadeva intorno, nemmeno il rumore dei miei passi sul terreno, forse neanche i miei pensieri, offuscati dalla stanchezza dovuta alla corsa.
Mi fermai dopo circa un’ora, dopo aver fatto molte volte il giro del piccolo parco. Avevo scaricato la tensione, ma non mi sentivo ancora completamente bene, così decisi di riprendere a correre, ma dopo pochi secondi cambiai idea. Scorsi Christian, il nuovo arrivato, seduto due panchine dopo la mia, intento a parlare al telefono. Mentre decidevo sul da farsi si voltò e notò che anche io ero lì. Attaccò il telefono e si alzò in piedi verso di me.
«Ehi, ciao Alice. Ti alleni per la maratona?», domandò. Come sapeva il mio nome?
«Di che maratona parli? A Williston non viene mai organizzata».
«Che tradizioni pessime che avete!», bofonchiò.
«Mi dispiace che la nostra città non ti piaccia. Ma allora, toglimi una curiosità», dissi curiosa, «perché ti sei trasferito qui?».
«Avevo bisogno di cambiare aria». La sua risposta non mi convinse molto, e lui se ne accorse. «La mia vita lì non aveva più senso, avevo bisogno di qualcosa che non riuscivo a trovare a North Bay».
«E ora l’hai trovata?», domandai.
«Penso proprio di sì», concluse. Decisi di non insistere, perciò non chiesi niente di più. Il suo sguardo era perso nel vuoto e avrei voluto sapere dove vagabondavano i suoi oscuri pensieri.
«Mi piace il tuo anello», disse dopo qualche secondo di pausa, spezzando la catena di riflessioni che si stava formando nella mia mente. Inarcai il sopracciglio, non sapendo cosa rispondere. «Ne regalerei volentieri uno a mia madre, dove l’hai preso?», mi chiese forse per rompere l’imbarazzo che si era creato da parte mia.
«Uhm... E’ un pezzo d’antiquariato. Me lo regalò mia nonna prima della sua morte, quando era ancora ricoverata in ospedale. Non è il massimo della bellezza, ma mi ricorda di lei». L’anello che portavo al dito era color argento, adornato con un diamante azzurro. Era antico, non sapevo quanto. Non ne sapevo nemmeno la storia a dire il vero: forse era l’anello di matrimonio di mia nonna. Pensai che era difficile non notarlo, per questo se n’era accorto.
«Mi dispiace per tua nonna. Quando è morta? Ti va di parlarne?».
«E’ morta circa 7 anni fa e io ricordo poco o niente, mi dispiace deluderti», risposi sorridendo, anche se ero un po’ irritata per la domanda quasi impertinente.
«Scusa. Parliamo d’altro allora», suggerì, «per esempio: stai con Samuel Cooper?». Presi fiato prima di rispondere, ma lui mi precedette.
«Ti chiedo ancora scusa, non voglio essere impiccione». Sorrisi compiaciuta.
«Non preoccuparti, questo non è un argomento tabù», risposi, ed entrambi ridemmo. «E’... Complicato. Ci frequentiamo, ma oggi mi ha fatto arrabbiare, quindi voglio mettere un punto a questa storia, almeno per ora. Sono stufa di questa situazione. Che mi dici di te?».
Una curva spuntò sulle sue labbra rosee, e mi fece impazzire. Cosa mi stava accadendo?
«Solo qualche storiella, mai niente di serio. Sono sempre stato una persona che vuole divertirsi, ma sento che anche quest’aspetto è cambiato in me, come quasi tutti, all’arrivo a Williston». Un brivido mi scosse. Sentivo una debole attrazione verso di lui, ma non ne comprendevo il motivo: ero sempre stata innamorata di Sam, non avevo mai guardato nessun altro ragazzo prima di quel momento.
Passammo poco tempo insieme quel pomeriggio, poiché dovetti tornare a casa molto presto per preparare la cena alla mia famiglia. Non amavo cucinare, ma a volte capitava di essere obbligata: i miei erano fuori casa e mio fratello Evan in quei casi era come se non esistesse. Era il fratello migliore del mondo, ma in cucina era totalmente impacciato.
La mia notte fu tranquilla: nessuno strano incubo come spesso accadeva. La mattina mi svegliai più presto del solito, mi feci una doccia , mangiai un toast e uscii di casa, pronta ad affrontare la giornata.
Sam era come sempre accanto alla sua macchina, intento a giocare col cellulare. Passai davanti a lui con aria disinvolta e, non appena mi vide, iniziò a seguirmi, non consapevole del fatto che lo stessi evitando apposta.
«Alice», mi chiamò serio. «Voglio che parliamo».
Mi voltai di scatto verso di lui. «E che cosa dovrei dirti, spiegamelo? Sinceramente mi sono stufata», dissi, cercando di calmarmi. «Ok, parliamo seriamente. Il nostro rapporto mi piaceva di più quando eravamo solo amici anche se, beh, ora non so cosa siamo...».
«La scelta è solo tua, non voglio obbligarti e mi dispiace averti fatto star male. Sappi che io sono innamorato di te». A quell’affermazione, sobbalzai. «Sì, me ne sono reso conto da poco, ed è inevitabile. Forse non sono proprio innamorato ma, non so, mi piaci davvero molto. Però se tu mi dici che vuoi che restiamo solo amici allora a me va bene così. Sono cambiato, non sono più lo stronzo approfittatore che ero prima». Volevo riempirlo di domande, chiedergli spiegazioni per il suo comportamento, ma alla fine decisi di tacere. Non ne potevo più.
«Dispiace più a me, ma per ora è meglio così», dissi. «Spero di poter restare tua amica».
«Ma certo!». Detto questo mi abbracciò. Fu un abbraccio forte, affettuoso, di quelli che riscaldano il cuore. Ero ancora innamorata di lui perché non si può dimenticare un sentimento da un giorno all’altro, ma a volte si arriva ad un momento nel quale non si ha più voglia di continuare a tessere inutilmente la tela per poi sfilarla, come Penelope, senza alla fine concludere nulla.
L’esperienza del giorno precedente mi suscitò la voglia di tornare anche quel pomeriggio al parco: forse avrei rincontrato Christian e non volevo farmi sfuggire quell’occasione. Non volevo fare il doppio gioco con due ragazzi, ma c’era qualcosa in lui che mi incuriosiva.
Non lo incontrai.
Passai la notte sveglia con i pensieri che navigavano liberamente nella mia testa; volevo che fosse in un attimo il mattino dopo per l’immensa voglia di vederlo. Mi sorpresi nel notare lo stato d’ingenuità in cui mi trovavo. Mi ero sempre reputata una persona matura, ma in quel momento sembravo la ragazza più stupida della Terra.
«Ciao», esclamò Christian sorridendo, quando lo incontrai la mattina seguente.
«Ciao, Christian. Come stai?». Forse la mia gentilezza era troppo affermata, ma non potevo fare a meno di trattarlo come un Dio greco.
«Purtroppo queste ore a scuola non passano mai, sono molto annoiato. E tu?», disse con un’espressione cupa e seccata.
«Tutto sommato bene, grazie».
«Come te la cavi con Jane Austen?». Rimasi molto sorpresa dalla sua domanda poiché non capii il contesto in cui voleva inserirla.
«Ehm... Non so, perché me lo chiedi?». Come poteva sapere che era una delle mie scrittrici preferite? Si era forse intrufolato a casa mia? Immaginai buffamente la scena.
«Domani ho un’interrogazione di letteratura inglese», dichiarò, e miei occhi si illuminarono di gioia, sperando che non se ne accorgesse, «pensavo che mi potresti aiutare, se ti va».
Abbassai lo sguardo, morivo di vergogna. Anche quello fu un fenomeno strano per il mio corpo: non avevo mai timore né imbarazzo di nulla. «In effetti... Forse potrei...». Avrei voluto dirgli immediatamente di sì, ma non riuscivo. Da una parte ne fui contenta, poiché il primo passo non spettava a me. Infine prese l’iniziativa.
«Che ne dici se ci vediamo oggi al parco alle tre?». Accettai, consapevole che sarebbe stato uno dei giorni più strani e imbarazzanti della mia vita.
 
«Oddio, Alice. Puzzi di fumo. Ma cosa fate a scuola?!», disse mia madre quando mi accolse davanti alla porta di casa, senza nemmeno salutarmi. A volte era troppo apprensiva.
«Buongiorno anche a te, mamma».
«Scusami, tesoro. Com’è andata a scuola?».
«Come sempre». Con mia madre ero spesso apatica, questo perché mi faceva sempre le solite domande e mi annoiavano. «Posso uscire?».
«Non vuoi fermarti a mangiare?», chiese cordiale.
«Prenderò un panino al chiosco. Ho voglia di stare all’aria aperta, scusami mamma».
Robert e Amber, i miei genitori, si conobbero tra i banchi di scuola, ma si sposarono abbastanza tardi. Nonostante il raggiungimento della maturità prima del matrimonio, non trovarono il giusto equilibrio della loro relazione. Vissero insieme solo tre anni, quindi mi ricordo ben poco i tempi in cui il loro matrimonio esisteva ancora. Mio padre vive nella periferia di Williston, sulle rive del Missouri. La sua casa è un posto magico immerso nel verde e a me piace molto andarci, soprattutto d’estate.
Arrivai al parco un po’ in ritardo poiché dimenticai di guardare l’ora, come sempre.
«E’ da molto che aspetti?», gli domandai.
«Qualche minuto, non preoccuparti». Ci fu qualche secondo di silenzio. «Allora, vogliamo iniziare?».
«Cosa devi studiare esattamente?», chiesi curiosa. Non avevo nessun’ansia da prestazione, poiché ero sicura di essere preparata su ogni argomento che c’entrasse con Jane Austen.
«Orgoglio e pregiudizio. Sei preparata sull’argomento?».
«No, ma va. Ho letto quel romanzo solo una quindicina di volte». Ridemmo entrambi, e per un secondo ebbi l’illusione di non trovarmi in quel parco, né che ci fosse tutta quella gente attorno a me. Solo io e lui, che parlavamo come se ci conoscessimo da anni. O meglio: io, lui e il mio libro preferito. L’accoppiata perfetta.
«Cosa ti piace esattamente in quel romanzo?».
«Non lo so... La prima volta che lo lessi non mi piacque per niente. Mi avevano obbligato a farlo  a scuola, se no non penso avrei mai scelto la lettura di un grande classico così pesante».
«E come hai fatto a cambiare idea?».
« “Chi non cambia mai la propria opinione ha il dovere assoluto di essere sicuro di aver giudicato bene sin da principio.”».
«Sono davvero esterrefatto. Potresti prestarmi la tua mente per l’ora dell’interrogazione domani?». Risi allegramente.
«Che pietà hanno i professori per interrogarti dopo pochi giorni dal tuo arrivo?».
«Sinceramente me lo chiedo anch’io».           
 Passammo circa un’ora a parlare di Jane Austen, della sua vita e delle opere, di poesia e letteratura in generale. Trovammo un equilibrio nel parlare, non mi sentivo mai in bilico, e tutto ciò mi dava un senso di sollievo, di libertà.
«Ora possiamo fare una pausa?», propose.
«Si, parliamo d’altro. Per esempio, quando vorrai studiare se domani hai un’interrogazione?», scherzai. Parlare con lui era così facile.
«Mi scusi, maestra», esclamò con un fare superiore.
«Perdonato, ma solo per stavolta. Di che cosa vuoi parlare?».
«Che musica ti piace?», chiese cordialmente.
«E’ difficile scegliere un genere, diciamo che mi adatto a tutto. Tu?».
«Prediligo il rock». Annuii e ci fu silenzio per qualche secondo. « Qual è il tuo piatto preferito?», continuò curioso nella sua indagine.
«Mangio praticamente tutto, e tu?».
«Mi piace la cucina italiana e quella messicana». Annuii nuovamente. «C’è qualcosa che ti turba? Non sei di molte parole». Non avevo nulla, ero solo pensierosa.
«Secondo te c’è qualcosa che non va in me?».
Inarcò il sopracciglio. «Penso di no. Perché questa strana domanda?».
«Ogni tanto mi balena questa ipotesi in testa».
«Penso che tu sia speciale». Alzai la testa e lo guardai sorpresa. Come poteva dirlo se mi conosceva appena?
«E come lo sai?».
«Non saprei, mi dai quest’impressione». Solo in quel momento notai che i suoi occhi erano color ocra; si intonavano benissimo con la sua capigliatura castano scura e la sua pelle un po’ abbronzata. Mi sentii un po’ in imbarazzo per la sua affermazione e lui lo notò, così da deviare il discorso. «Ieri era l’equinozio di primavera».
«Già, proprio così». Perché erano tutti fissati con la nuova stagione? Ogni anno c’era questo giorno fatidico, non era niente di strano.
«Voglio rivederti anche nel giorno del solstizio». Voltai la testa verso di lui e ci fissammo per alcuni secondi, senza aver nulla da dire. «Vorrai uscire di nuovo con me?».
Sorrisi. «Certo che sì».
«Ho la macchina appena fuori dal parco: ti accompagno a casa», disse indicandomi la direzione con la sua mano destra.
«Non ce n’è bisogno, non preoccuparti, abito a qualche isolato da qui», insistetti.
«Farò lo sforzo di scomodarmi», disse con un sorriso smagliante, che mi fece cedere.
Arrivammo davanti a casa mia dopo pochi minuti di macchina nei quali a stento dicemmo qualche parola.
«E così abiti qui. Mi sembra molto carina come casa», affermò mentre perlustrava la strada e l’ambiente che la circondava.
«Grazie».
«Questo vuol dire che prima o poi dovrò venirci», disse con un sorriso beffardo. Risi dolcemente. «Sai che il tuo sorriso è bellissimo?». Arrossii. «Cioè... Non è che piaccia a me: piacerebbe a tutti se ora ti vedessero come ti vedo io. Mi piace come inarchi la bocca e tiri un po’ fuori i denti. E poi ti vengono le fossette sulle guance; hanno una forma di piccola mezzaluna e danno una luminosità al viso. I tuoi occhi si strizzano un po’ per le contratture dei muscoli, ma sono brillanti, ed è impossibile guardarli e non trovare al loro interno la felicità. Sia la tua, che quella dell’osservatore».
La sua affermazione mi spiazzò, ero troppo contenta, mi girava la testa e non sapevo più che cosa dire. Riuscii a pronunciare solo una piccola frase.
«”Sono la creatura più felice dell'universo. Forse altri lo hanno detto prima di me, ma nessuno con tanta ragione.”».





 
  
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