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Autore: Relie Diadamat    11/04/2015    2 recensioni
Un libro, quattro vite, destini incrociati.
L'amore che sfida il futuro.
Il passato che si mescola al presente.
Una scelta per cambiare la propria vita. Per sempre.
Arthur lo guardò indignato, arrendendosi nel lasciargli campo libero «Oltre ad essere uno scrittore da strapazzo è anche un idiota.»
«Terribilmente idiota.» precisò il corvino, chinandosi per prendere un pacco sigillato e porlo al giovane «Ma fa parte del mio fascino.»
«Cos’è?» chiese il giovane, indicando con lo sguardo il pacco.
«Il pacco che non ho avuto il coraggio di gettare al rogo.» l’uomo insistette, porgendoglielo ancora una volta, finché il biondo non parve convincersi, rigirandoselo tra le mani con fare indagatore.
«Sei una brava persona, Arthur Mecoalt e meriti le risposte che desideravi.» gli disse solamente, per poi incurvare le labbra in un sorriso nostalgico. Arthur lo guardò allontanarsi, rigirandosi ancora per una volta quel pacco tra le mani, poi decise di entrare.

[Quarta classificata al contest "A time of magic" indetto da hiromi_chan sul forum di EFP.]
[Merlin/Morgana] [Modern!Arthur/Mithian]
Genere: Drammatico, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Mithian, Morgana, Principe Artù | Coppie: Merlino/Morgana
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Più stagioni, Contesto generale/vago
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Nda: Salve! Oggi è giunto il momento di mettere un punto definitivo a questa storia. Spero che l'epilogo sia di vostro gradimento.
Ringrazio coloro che hanno recensito: le recensioni fanno davvero bene alla salute, fidatevi.
Ringrazio coloro che hanno aggiunto la storia nelle seguite/ricordate/preferite, siete stati davvero adorabili. E ringrazio anche tutte quelle persone che hanno solo letto la storia,standone in silenzio.
A voi tutti, questo finale.
Alla prossima!
 
 

5. E vissero tutti felici e contenti… Per sempre
 
Libro, pagina 200


Morgana era stata fermata e sbattuta nelle segrete. Il re intanto aveva già punito la sua ribellione con la pena di morte. La Sacerdotessa avrebbe bruciato nelle fiamme di un rogo, ai primi albori.
I capelli erano arruffati in capo, la pelle si era tinta dello sporco della cella. Infreddolita cercava riparo, rannicchiandosi su se stessa. Merlin, che si era intrufolato nelle segrete, la stava guardando da molto, senza riuscire a cancellare le immagini della veglia precedente dalla sua mente.

Era entrato come una furia in ogni stanza del castello, fino a spalancare con impeto la porta che dava accesso alla stanza del trono. Morgana era ritta in piedi, con una spada tra le mani a sfiorare con la lama il petto dell’erede al trono, sbattuto contro una parete, privo di sensi.
Per un attimo Merlin credette il peggio. Il suo cuore perse un battito, mentre sconvolto cercò di farla ragionare “Morgana, fermatevi!”
“Oh, Merlin!” lo canzonò, voltando il capo nella sua direzione “E’ sempre un grosso dispiacere vederti.” Ghignò maligna, ritornando a fissare il suo vero obiettivo.

Morgana se ne stava distesa sul suolo umido e freddo, senza emettere nessun suono, ma il mago sapeva che soffriva.

“Non fatelo.” la supplicò ancora una volta, avanzando di qualche passo.
“E’ tardi per le suppliche.”

Il servo non seppe dirsi se la donna dormisse o fingesse, ma sapeva che con la mente lo stava già maledicendo, imprecando contro di lui e sperando la sua morte.

“Troveremo un altro modo. Non deve per forza finire così.” Il mago si avvicinò il più possibile alla donna, che sembrò abbassare la guardia.
Gli occhi le diventarono lucidi per una frazione di secondo. Ma lei era Morgana Pendragon ed i sentimenti non erano più tollerati “Sei un bugiardo. Le tue promesse, non valgono nulla.”

Le sue vesti erano insanguinate, probabilmente le doleva ancora il fianco. Percepiva il suo dolore dal rumore del suo respiro. Era girata di schiena e non poteva vederla in volto, ma la immaginava triste. Gli occhi persi nel vuoto, le labbra sanguinanti a furia di mordersele.

Morgana si voltò verso il suo fratellastro, issando la spada in aria per sferrare il colpo di grazia, ma qualcosa la fermò. Il gladio cadde a terra, mentre nella stanza risuonò il rumore della lama a contatto con il suolo. La sacerdotessa boccheggiò dal dolore, sentendo la presenza di una lama nel suo fianco.

Sentì gli occhi pizzicargli, mentre il petto diventava dolorante. Cercò di trattenere l’amarezza per non farsi sentire dalla donna, che intanto soffriva, ogni secondo di più.

“Mi dispiace.” Fu l’esile sussurro del servo, che con la mano impugnava Excalibur; la spada forgiata dal fuoco di un drago, la cui ferita era mortale per chiunque. Sentì il sangue di Morgana colargli sulle dita, mentre la donna si aggrappò a lui, ferita ancora una volta dall’amore mancato della sua
vita.


Non doveva finire così, Merlin ne era convinto mentre una lacrima solitaria gli rigò il volto. Gli sembrò di poter avvertire ancora l’odore disgustoso del sangue; se lo sentì ancora addosso, sulle proprie mani, colargli dalle dita.

Morgana non aveva più lacrime da piangere, più parole per maledirlo. Le sembrò persino di avere un cuore troppo provato per continuare a soffrire. I suoi occhi di smeraldo non furono mai così cupi; se li sentì pesanti, ma non per la fatica. Il servo la guardava con sguardo sofferente, ma era lei quella ad essere ferita.


Il mago lasciò che le sue palpebre si abbassassero, mentre nel silenzio delle segrete i suoi occhi cominciarono a vibrare febbrilmente, tingendosi d’oro.
Morgana sentì i suoi capelli scostarsi dal viso, come una carezza regalatale dal vento, ignorando la presenza del valletto reale alle sue spalle.
Merlin prese a carezzarle la pelle pallida e sporca col solo pensiero, scostandole ciocche ribelli dal volto, immaginandosi il suo viso in quel momento. Strinse forte le palpebre chiuse, figurandosi nella mente l’immagine che amava, quella che gli era familiare.


“Dimmi che mi ami!” Morgana sorrideva, splendida come non mai. Indossava la sua veste preferita, quella di color turchese e i capelli erano curati, in perfette onde corvine.
“N-non posso… ‘ti amo’ non è una cosa che si dice a comando!” sorrise intenerito dalla prepotenza della castellana che, imprudente, l’aveva trascinato dietro una colonna del castello.
“Dimmi che mi ami!” continuò provocatoria, massaggiandogli il torace come solo lei sapeva fare.
Merlin l’amava. L’amava da morire. L’amava da sempre. Sorrise di riflesso alle sue infantili pretese, per poi risponderle con tono serio “Sempre.”
L’altra sorrise soddisfatta, stampandogli un lungo bacio sulle labbra. Il servo si abbandonò in quel momento, divenendo un semplice strumento nelle mani della nobile. Ogni suo bacio era un motivo in più per continuare a fingere, rimanere a Camelot, lottare ogni giorno sfidando la morte.


Riaprì gli occhi, vedendo quelle immagini di un tempo passato allontanarsi dalla sua mente, mentre nuove lacrime presero a rigargli il volto. Sulle sue labbra riaffiorò il sapore amaro del loro ultimo bacio, quello dove Morgana gli aveva detto addio, per sempre.
Perché quella donna, ferita mortalmente, non era la sua Morgana. La odiava per quello che aveva fatto, ma al contempo l’amava, senza capacitarsene. La Sacerdotessa non avrebbe visto l’alba e non sarebbe mai stata bruciata da nessun rogo, il suo mago invece, lo sentiva dentro di sé. Quelle stesse fiamme lo spinsero ad amarla ed in quel momento lo spinsero a dirle addio.
Perché il ‘per sempre’ non esisteva; all’ignoto non andrebbe mai promessa costanza, ne si rimarrebbe terribilmente delusi.


**

 
«Poi?» domandò Ygraine curiosa, seduta a gambe incrociate sul divano.
Arthur cercò invano di sfogliare oltre il libro, ma vi erano solo pagine bianche, senza neanche una parola «Non c’è scritto… nulla!» s’innervosì consapevole di aver letto a vuoto una storia incompleta.
«Come nulla?» si disperò la piccola, mostrando una smorfia di dispiacere.
«Nulla.» confermò il biondo, mostrandole le pagine bianche. Vide la bambina intristirsi, quasi come se quel libro raccontasse la storia della sua vita e nessuno ne avesse scritto la parte più importante, ma poi ricordò. Anche Arthur era stato un bambino e sapeva bene quanto per un bambino il ‘per sempre’ fosse importante.
«Facciamo così…» le sorrise intenerito, cercando un compromesso, ma la sua frase rimase sospesa in aria, interrotta dal suono del campanello. Stranito nel ricevere visita, Arthur guardò dubbioso verso il corridoio che dava all’entrata, poi scambiò un’occhiata con la piccola.
Dopo il secondo scampanellio, il biondo si decise ad alzarsi dal divano e dirigersi verso la porta.
Potrebbe essere Mithian, pensò.
L’aveva chiamata così tante volte dopo quella sera, ma non aveva mai ricevuto risposta, così si era arreso, assecondando l’idea della mora dello smettere di frequentarsi. Ma magari adesso aveva cambiato idea e lo stava cercando.
Accogliendo quell’idea, perse una frazione di secondi nel mirarsi allo specchio fissato contro il muro del corridoio, sistemandosi per bene i suoi fili dorati, dopodiché un altro tintinnio lo schiodò dal suo posto.
Prese una boccata d’aria, sistemandosi il colletto della camicia, per poi aprire.
«Arthur…»
Non era cambiato di molto. I capelli bruni erano leggermente più corti di quando l’aveva visto l’ultima volta. Il viso era più tirato, indice di una vita passata tra i fuochi. Se ne stava ritto, con una postura da vero soldatino, sorridendogli gentilmente, come era sempre stato solito fare. In una vita passata a fare cazzate insieme, aveva imparato a conoscere il suo miglior amico meglio di chiunque altro, peccato che le cose, col tempo, fossero cambiate…
«Lancelot.» lo salutò di rimando, scostandosi per farlo accomodare nella sua dimora… e per ridargli ciò che era suo di diritto.
 
«Hai fatto la brava bambina?» Lancelot issò la sua bambina da terra, stringendosela tra le sue braccia. La piccola gli circondò il collo, aggrappandosi alla meglio, continuando a stridulare la parola ‘papà’ all’infinito.
«Non è così marmocchia come credevo.» s’intromise il biondo che, seduto sul divano, osservava impotente la scena.
«No.» acconsentì il soldato, strofinando energicamente la sua mano sulla schiena della piccola «Non lo è.» disse poi, orgoglioso della sua bambina.
Lancelot era un padre straordinario, Arthur dovette ammetterlo, attestandolo con i propri occhi. Forse non era perfetto, ma era sicuramente migliore di quanto lui potesse mai esserlo.
«Ti sei congedato, dunque.» il biondo cercò di scacciare via quel silenzio imbarazzante tra i due, giocherellando per ansia con le sue dita, ma mantenendo lo sguardo fisso negli occhi scuri del giovane.
«Sì.» rispose l’altro, sistemandosi la piccola tra le braccia «Il fratello di Ginevra mi ha proposto di lavorare con lui nel negozio di famiglia. Non è molto… ma è sicuramente qualcosa.»
Arthur si limitò ad annuire col capo, non sapendo cos’altro aggiungere. Dopo il tradimento di Ginevra, il loro rapporto non era più stato lo stesso.
«Quando torna la mamma?» la piccola squittì entusiasta, mentre i suoi occhi presero a brillare in un modo innaturale.
Lancelot rimase di sasso a quella domanda, voltandosi titubante verso il biondo che, colto in fallo, tentò di guardare altrove per discolparsi.
«Penso sia arrivata l’ora di andare.» annunciò il moro, facendo scendere la piccola dalle sue braccia.
«Sì.» acconsentì Arthur, accompagnandoli entrambi alla porta.
La piccola venne accompagnata dal padre fino all’entrata, mentre il biondo guardava i due allontanarsi sotto i suoi occhi. Non l’avrebbe più rivista, di questo ne era sicuro… ma un po’ gli dispiaceva.
«Ma… il libro!» si lamentò la piccola, girandosi verso quello che era stato, fino a qualche minuto addietro, il suo tutore.
Arthur si abbassò alla sua altezza, poggiandole entrambe le mani sulle spalle minute «Ti prometto che troverò il lieto fine che merita.» le promise, sotto lo sguardo spaesato di Lancelot.
Inaspettatamente la piccola si gettò nella braccia del biondo che, impreparato a quello scambio affettuoso, rimase impalato come un idiota.
«Ti voglio bene.» gli sussurrò piano all’orecchio, mentre presa sotto braccio dal padre, veniva allontanata dal giovane «Dobbiamo andare, Ygraine.» le ricordò Lancelot, tenendo lo sguardo fisso negli occhi bluastri del suo vecchio amico, il quale però riservava tutta la sua attenzione alla bambina.
Qualcosa scattò dentro di lui, proprio mentre la vide allontanarsi dalla sua vita, scortata dal padre. La vide salire in macchina e salutarlo con la manina dal finestrino abbassato.
Arthur non voleva che quella bambina scomparisse dalla sua vita e lo comprese solo in quel momento.
Ti ridarò il tuo ‘per sempre’, Ygraine. Te lo prometto, il biondo alzò una mano in segno di saluto mentre l’auto diventava un punto sempre più lontano dalla sua vista.


Libreria, ore 11.30
 

Mithian sentiva che la situazione si aggravava ogni giorno di più. Le medicine non servivano ad affievolire il tremolio delle sue mani, l’equilibrio stava peggiorando, mentre la sua grafia diventata sempre più illeggibile.
Chiuse gli occhi, pensando a qualcosa che le tirasse su il morale.

Arthur la prese per il polso, facendola voltare nella sua direzione. Sentì la mano del biondo dietro la sua nuca, mentre il suo volto si avvicinava a quello di lui. Quando le loro labbra s’incontrarono fu come toccare il suolo del Paradiso, senza nemmeno sapere come fosse fatto.
Rispose al bacio del giovane dischiudendo le labbra, lasciandogli libero accesso alla sua bocca. Fu come rinascere dopo anni di morte apparente. Un bacio e Mithian riprese vita.

Aprì lentamente gli occhi, mentre l’amarezza si fece spazio sul suo volto. L’aveva lasciato andare per non farlo soffrire, ma inevitabilmente si era ferita a sua volta.
Stare senza Arthur le faceva male, ma non poteva fare altrimenti.
Il tamburellare di alcune nocche contro la vetrata della libreria la scosse dai suoi pensieri, costringendola a puntare lo sguardo verso il vetro trasparente.
Sentì qualcosa muoversi nello stomaco, mentre un sorriso pretendeva di nascere sul suo viso.
Arthur se ne stava dietro il vetro, con uno sguardo serio e la mano contro la vetrata, aspettando una sua risposta.
Represse all’istante quell’assurda felicità, decidendo di ostentare quanto le era possibile indifferenza. Raggiunse l’uomo fin fuori la sua libreria, ammonendolo all’istante «Cosa ci fai qui? Pensavo di essere stata chiara…»
«Ho bisogno di te.» disse senza alcun ritegno il biondo, stupendo la donna che colta di sprovvista sgranò gli occhi dalla sorpresa.
«Ho bisogno di baciarti, di tenerti accanto e al momento sento anche di avere bisogno di tante cose che non mi sono mai servite, ma soprattutto, ho bisogno di te.»
Era tutto ciò che avrebbe sempre voluto sentire da lui, ma in quel momento non poteva accettarlo. Non poteva permettersi di essere felice e lasciare che Arthur si rovinasse la sua vita, un’altra volta. Tuttavia, non era capace di respingerlo esplicitamente, così decise la via della burla «Ma tu non eri quello che ‘Io sono Arthur Mecoalt e non ho bisogno di nessuno.’» gli fece il verso, cercando di trattenere l’emozione.
«Quello ero io prima che incontrassi te ed Ygraine. Voi non siete normali…voi siete… così naturali da rendere speciale tutto ciò che vi circonda ed io non ho alcuna intenzione di perdervi. Ho perso tanto nella mia vita e non permetterò a me stesso di lasciarvi andare via in questo modo.» Arthur si era liberato di quel peso che l’opprimeva, sentendosi d’improvviso più leggero.
«Non sempre le cose vanno come vorremmo.» cercò di liquidare la questione lei, voltandosi verso la libreria, ma qualcosa la trattenne. Arthur le bloccò il passaggio tenendola stretta per un braccio «Ho bisogno di te, anche per non perdere Ygraine.» le confessò, non ammettendo risposte negative.
Mithian comprese che non poteva ignorare la sua richiesta d’aiuto. In fondo non riguardava solo lei, ma anche la piccola e non poteva negare una mano ad un uomo che ne necessitava, andava letteralmente contro l’insegnamento che le era stato impartito da suo padre.
«Cosa ti serve?» domandò, perdendosi nel blu dei suoi occhi.
Il biondo rimase a fissarla in silenzio per una frazione di secondi. Era bellissima, come sempre. Si accorse di amare tutto di quella donna, dal suo modo stravagante di vestire all’eleganza dei suoi portamenti. Amava il modo in cui si legava i capelli ed i giochi di colore che creavano le sue iridi alla luce del mattino.
Sentì il bisogno incontrollato di baciarla, stringersela al petto ed amarla, come se non ci fosse mai stato un domani, ma represse il tutto, concentrandosi sul problema inziale «Lo scrittore. Devo conoscere quell’idiota da strapazzo!»
«Non posso aiutarti…» finse lei, scuotendo il capo. Non poteva portare quel tizio dallo scrittore di quel libro, siccome avrebbe riaperto in loro vecchie ferite, non ancora risanate.
Il giovane però, parve perdere la pazienza. Le strinse il braccio per nervosismo, mentre il suo tono diventava autoritario «Devi aiutarmi e so che puoi farlo.»
La mora si arrese a mostrare resistenza, soggiogata dallo sguardo implorante del giovane che, sfortunatamente, amava.
«D’accordo, come vuoi tu.»
 


Arthur iniziò a nutrire i primi dubbi sull’identità di quello scrittore da strapazzo quando Mithian gl’indicò la strada da seguire, ma quando arrivarono a Seymour Street, tutti i suoi presentimenti si rivelarono fondati.
Arthur posteggiò la sua auto come qualche giorno prima, quando involontariamente aveva aggredito il padre della mora, scambiandolo per un malintenzionato. Scesero entrambi dall’auto, dirigendosi verso il portone in legno mogano dell’appartamento. Mithian estrasse un mazzo di chiavi dalla sua borsa, aprendo la serratura per poi far passare il biondo.
Salirono le rampe di scale, fino ad arrivare al terzo piano; la mora si fermò accanto ad una porta, la cui targa aveva inciso il cognome ‘Myrddin’. Bussò per semplice cortesia, in quanto fosse totalmente inutile per lei farlo.
Sentirono dei passi avvicinarsi all’ingresso, poi il rumore di un chiavistello che si apre. Quando la porta si aprì, due occhi cristallini scrutarono i loro volti, mentre delle labbra carnose s’incurvarono in un sorriso gentile «Oh… non siete venuti qui per picchiarmi, vero?» lanciò una frecciatina al biondino che, per nulla contento della risposta serrò la mascella con fare indispettito «Forse.»
Mithian lo ammonì con lo sguardo, ricordandogli che l’uomo dinanzi ai suoi occhi fosse suo padre. Ma quest’ultimo sembrò non curarsene alzando le spalle «Beh, in questo caso: siete i benvenuti.»
 


Si accomodarono nel salotto.
L’uomo si sedette sulla poltrona mentre di fronte, Mithian e Arthur si accomodarono sul divano.
«Allora… in cosa posso esservi utile?» domandò, riservando un’occhiata alla figlia. La mora colse in pieno il colpo; cercò di tirarsi via di dosso quel senso di disagio che l’aveva improvvisamente attanagliata, sistemandosi al meglio sul divano.
«Risposte.» la voce di Arthur arrivò come un suono secco alle orecchie del corvino. Quest’ultimo si rigirò i pollici delle sue mani, accennando una risata. S’incurvò lievemente in avanti, sporgendosi verso il biondo «Non mi sembra che tu mi abbia posto delle domande.»
«No, infatti.» lo assecondò il giovane con sufficienza, per poi lasciare cadere a peso morto il libro sul tavolo «Le più puerili se l’è poste da solo.»
Mithian lasciò scorrere lo sguardo innervosita, prima su uno e poi sull’altro, non comprendendo quell’assurda aria di sfida che si era creata fra i due.
L’uomo guardo la copertina del libro, rivivendo vecchi rancori. Le sue iridi azzurre si spostarono prima sulla figlia che, sentendosi in difetto abbassò lo sguardo colpevole, poi sul biondino che, con aria di sfida sembrava volesse averla vinta.
Accolse con piacere il gioco velato d’insulti del biondo, poggiando la sua schiena contro lo schienale della poltrona «Un libro non contiene domande, caro ragazzo.» ricongiunse le mani, intrecciando le dita tra loro «E’ solo uno strumento utile per iniziare a porsele.» gli sorrise, convinto di avergli dato la piacente delucidazione.
«Non m’importa chi fa le domande!» sbottò Arthur perdendo il filo del discorso, non digerendo per niente quell’aria filosofica che quel tizio emanava «Voglio solo sapere come diamine va a finire questo stupidissimo libro.»
L’altro corrugò la fronte, ignorando volutamente l’irritazione del giovane «C’è scritto se non erro.»
«Beh, sì. Erra!» ringhiò stufo di quell’aria saccente da parte di quello scritto da strapazzo «Il quel maledettissimo libro non c’è nulla che somigli ad un lieto fine!» inveì contro l’uomo, puntando stizzito l’indice verso il libro.
Rise sornione, sminuendo per quanto gli fosse possibile l’irritazione ingiustificata di quel tizio «Non è mica una favola della buona notte.» si raddrizzò nel suo posto, sentendo la schiena smetterla di dolergli «Probabilmente dovresti mirare a generi più…»
«Era una favola della buona notte.» s’intromise la mora, interrompendo per la prima volta nella sua vita un discorso del padre.
L’uomo la guardò stupito, mentre il biondo sembrò ringraziarla dell’appoggio. Mithian però non stava solo assecondando i capricci del giovane come quest’ultimo credeva, Mithian diceva la verità «Poi però è diventato un incubo.»
Il corvino incassò quel colpo basso, capendo forse di aver tirato troppo la corda. Abbassò lo sguardo sui suoi pollici che, meccanicamente, roteavano tra loro, poi lo lasciò ricadere sul biondo, assumendo un’aria più gioviale. Sospirò, sbattendosi le mani sulle cosce «Bene. Ora che mi sono vendicato per il generoso gancio che mi avevi donato, sono pronto a rispondere alle tue domande.» inclinò il capo, spiegando il palmo, facendogli cenno di proseguire.
«Voglio il lieto fine.» disse solamente, senza dare ulteriori spiegazioni.
L’uomo scrutò a fondo le iridi bluastre del giovane, cogliendone grande determinazione ed un forte senso dell’orgoglio «Non c’è un lieto fine.» rispose arricciando le labbra, alzando le spalle «Quella, è l’unica fine del libro.»
Mithian stava diventando stranamente nervosa. Il suo corpo sembrava aver perso il controllo. La sua mano sinistra, accanto alla coscia di Arthur iniziò a tremare lievemente. La mora serrò forte la mascella, pregando chiunque la stesse ascoltando che suo padre non se ne accorgesse.
Sentì il calore della mano del biondo sovrastare la sua, mentre con dolcezza prese a stringergliela. Mithian si voltò verso il giovane che però non la guardava, concentrato com’era a tenere telepaticamente testa al corvino. Il cuore le si sciolse in petto, riscoprendosi per la prima volta da quando era malata, protetta da qualcuno.
Il padre si accorse del gesto del biondo, con grande rammarico da parte della giovane.
«Mithian…» la richiamò, fingendo disinteresse «Potresti preparare un caffè, grazie.»
 

Quando la mora fu abbastanza lontana da non udire le loro conversazioni, il corvino si decise ad aprire nuovamente bocca «Lasciala andare.»
Arthur corrugò la fronte, non capendo dove quell’uomo volesse andare a parare «Cosa?»
«Penso che mia figlia non sia la ragazza giusta per te.» affermò serio, sporgendosi verso di lui.
«Decido io ciò che è meglio per me.» dissentì il biondo, irritato dalla stupida affermazione dell’uomo.
L’altro però, mantenne la sua posizione, parlando chiaro «Mithian è malata. Molto malata. Stare al suo passo rallenterebbe il tuo e credimi, non c’è cosa peggiore che innamorarsi di una persona non sana.»
«Ma che diamine stai dicendo?!» il biondo accigliò lo sguardo, guardandolo con disprezzo.
L’uomo lasciò correre il tono diffidente del giovane, porgendogli dei fascicoli medici «Non lo dico solo per il tuo bene, ma anche per quello di Mithian. Lei cercherebbe in tutti i modi di stare al tuo passo… ma ciò finirebbe solo per ferirla.»
Il biondo guardo con fare sospetto le carte che l’uomo gli porse, decidendo solo infine a prenderle tra le mani. Diede una rapida occhiata all’uomo che non aveva ancora perso la sua espressione seria, poi controllò cosa quelle stupide carte dicessero.
Sgranò gli occhi, sentendo improvvisamente il respiro venirgli meno.

La paziente Mithian Myddrin risulta affetta dal morbo di Parkinson, riscontrando alcuni effetti collaterali della malattia:
  • Perdita dell’equilibrio;
«Permesso, mi scusi.»
Una ragazza dai lunghi capelli castani, mossi al punto giusto, lo aveva tamponato e con lui anche il suo Iphone, che irrimediabilmente cadde a terra.
«Mi scusi, non so proprio dove metto i piedi!»
  • Sbalzi d’umore improvvisi;
Si alzò di scatto dal divano, avviandosi verso il corridoio, quando la voce di Arthur la paralizzò «Però una cosa la so.» disse, vedendola fermarsi nel centro esatto della stanza.
  • Tremolio agli arti;
Mithian stava diventando stranamente nervosa. Il suo corpo sembrava aver perso il controllo. La sua mano sinistra, accanto alla coscia di Arthur iniziò a tremare lievemente.
 
Il giovane chiuse furioso quel fascicolo, gettandolo in faccia all’uomo, indignato. Non poteva essere possibile, Mithian non poteva e non doveva essere malata. Anche se tutto, nella sua mente fu subito più chiaro.

«Beh, Mithian… ti ringrazio per l’intensione, ma ti assicuro che non ho bisogno proprio di nessuno.» il biondo cercò gentilmente di chiudere la questione, ma poi sentì la donna incalzarlo «Tutti abbiamo bisogno di qualcuno.»

Si diede dello stupido da solo per non aver colto subito i segnali.
«Te lo dico per esperienza personale, se l’ami, lasciala andare.»
Arthur volse lo sguardo ancora attonito all’uomo e solo in quell’istante si accorse che i suoi occhi erano lucidi. Il Parkinson è una malattia ereditaria ed era facile presuppore dunque, che anche la madre di Mithian ne fosse affetta.
 «Il libro era solo una metafora di un amore distrutto dalla malattia.» spiegò il corvino, continuando a tenere fisso lo sguardo in quello del biondo.
L’altro non gli rispose. La rabbia era talmente forte che Arthur non riuscì a controllarsi. Si alzò con stizza dal divano, correndo fuori dall’abitazione come una furia.
Era arrabbiato con quello scrittore da strapazzo. Era arrabbiato con Lancelot che gli aveva propinato l’incarico di badare a quella bambina, arrabbiato con Ygraine per averlo costretto a leggerle un libro della buona notte; irato con Mithian per essere stata così se stessa da nascondere l’imperfezione più fatale; irato con se stesso, per non averlo compreso prima.
 

*

 
Un tonfo di una tazzina contro il pavimento attirò l’attenzione del corvino; si voltò in direzione della cucina, decidendo di andare a controllare.
Avanzò piano, finché il rumore di singhiozzi strozzati dal pianto non lo paralizzò. Con cuore bloccato nel petto decise di scorgere oltre l’arco che dava alla cucina.
Mithian si era accovacciata a terra, tenendosi le mani tremolanti accanto alla tempie, disperandosi straziata. Continuava a ripetere frasi sconnesse, maledicendosi da sola per la sua stessa malattia. Qualcosa che, volente o nolente faceva ormai parte di lei.
Quando la mora si accorse dello sguardo del padre su di sé, cercò in vano di rialzarsi, ricadendo impacciatamente sul pavimento, ripetendo continuamente le sue scuse per quell’ignobile condizione nella quale riversava. Suo padre non meritava una figlia così fragile, continuava a ripetersi.
«Mithian…» il padre s’inginocchiò, portandosi alla sua altezza. Aveva la voce tremante e gli occhi lucidi; con i suoi pollici asciugò le lacrime sulle guance della propria bambina, ormai cresciuta «Mithian io sono tuo padre, non devi nascondere il tuo dolore anche a me.»
Tentò di trattenere le lacrime per quanto possibile, sentendo un fastidioso nodo alla gola che le impediva di respirare, mentre un dolore immane la costringeva a singhiozzare «Non voglio ferirti come la mamma. Non voglio essere la causa del tuo dolore.»
Le parole di sua figlia furono come una lama dritta nel petto: sua figlia stava nascondendo un dolore immenso per non farlo soffrire e ciò lo uccise. Non poteva essere fiero di se stesso se Mithian si piegava in due dal dolore, anche a causa sua. Le prese il viso tra le mani, alzandoglielo all’altezza delle sue iridi cristalline «Io amavo tua madre, Mithian. L’amavo più della mia stessa vita e credimi, se ti dico che sono contento di aver sofferto con lei, piuttosto che sapermi felice con qualunque altra donna al mondo.»
I pensieri della giovane furono tutti orientati verso il biondo. Ormai, non pensava ad altro in quei giorni. Arthur era diventato il perno della sua vita e dirgli addio era doloroso e straziante… quasi impossibile.
«Io lo amo.» singhiozzò la mora tra le lacrime, stanca di nascondersi dietro un sorriso falso «Lo amo, papà.» ripeté piangendo, perché consapevole di non poterlo avere.
L’uomo si sentì così vuoto, così impotente dinanzi al dolore lancinante che attanagliava la sua piccola Mithian. Ricordò di quando aveva sette anni e cadendo si sbucciava il ginocchio. Con le lacrime agli occhi correva da lui, solo per farsi coccolare, anche se in realtà la ferita già non le faceva più male. Adesso sua figlia era lì, in lacrime e lui non poteva fare nulla; nulla se non abbracciarla e consolarla con semplici carezze.
Il corvino deglutì il boccone più amaro che avesse mai assaporato, trascinandosi la figlia tra le braccia, cingendole le spalle. Sentì le lacrime di Mithian bagnargli la maglia bluastra, mentre le sue spalle si rialzavano a ritmo con i singhiozzi. Se la strinse forte a sé, carezzandole delicatamente il capo, mentre delle lacrime pungenti lottavano per scendere dai suoi occhi.

“Perché diamine stai piangendo, Emrys?!” sbottò Morgaine irata con le lacrime ad appesantirle gli occhi “Sono IO quella che avrà una vita di merda, sono IO quella malata!”
Emrys rimase in silenzio, non sapendo cosa dire. Ricordò il solo il mondo crollargli addosso, dopo nulla più. E l’unica cosa che poté fare fu guardare impotente, mentre perse tutto ciò che gli era di più caro nella vita.

«Andrà tutto bene.» le sussurrò all’orecchio, per poi stringerla più forte. Gli sembrò così piccola e fragile nelle sue mani, tanto che ebbe paura di spezzarla «Te lo prometto.»
 

Qualche giorno dopo…
 

Azienda Mecoalt, ore 9.30



Arthur cercò di dimenticare, siccome i ricordi iniziarono a fare troppo male.
Quella rabbia che aveva dentro non si era ancora placata.
Perché il mondo è così ingiusto? Si domandava, serrando forte i pugni fino a farsi male.
Aveva sempre avuto tutto ciò che desiderava, gli bastava solo chiederlo e l’avrebbe avuto. Arthur era sempre stato un tipo caparbio e determinato, catapultato nel mondo in continuo movimento, mirando sempre più in alto, ma la vita sembrava volerlo sfidare ogni volta. L’aveva fatto cadere quando si era innamorato di Ginevra, ma Arthur era riuscito a rialzarsi anche quella volta.
Ma Mithian era stato un colpo basso. Innamorarsi di lei non era nei suoi piani, però era successo e… per un minuto si era anche convinto che fosse stata la cosa migliore che gli fosse capitata; ma l’amore era cieco e la sfiga ci vedeva benissimo, quindi la malattia aveva fatto la sua comparsa, rovinando il migliore dei quadri che fossero mai stati disegnati.
«Ho saputo che Lancelot è tornato.»
Arthur si accorse solo in quel momento della presenza autoritaria del padre nella stanza. Indossava il suo impeccabile completo, mentre al polso s’intravedeva il quadrante del suo Calvin Klein.
«Potrò vederti più diligente nel svolgere il tuo lavoro, dunque.» Uther si sedette oltre la scrivania, sistemandosi su una sedia a mo’ di ufficio, poggiando i gomiti sul tavolo, ricongiungendo le mani «Suppongo che questi non siano giorni facili per te, soprattutto dopo aver scoperto della malattia di Ginevra... ma un Mecoalt deve sempre guardare innanzi, senza farsi mai abbattere.»
Il biondo parve ascoltarlo solo in quel momento. Corrugò la fronte, guardandolo in volto «Ginevra?»
Il padre si accorse di aver parlato in sproposito così cercò di liquidare la faccenda «Pensavo che il tuo amico te ne avesse parlato.»
Arthur alzò il tono, allontanando il dorso della sua mano sinistra dalla guancia, lasciandolo sospeso a mezz’aria «Ginevra era malata?!»
«Ormai è passato.» concluse il brizzolato alzandosi dal suo posto «Non ha ormai più alcuna rilevanza.»
Si aggiustò la giacca con fare fiero, per poi dare le spalle al figlio. Si avvicinò alla porta quando si sentì il braccio circondato da una morsa.
«Esigo sapere.» gli occhi di Arthur erano colmi di rabbia e risentimento ed il suo tono non ammetteva repliche.
Il padre si voltò a guardarlo, inarcando le sopracciglia e dischiudendo le labbra dallo stupore. Suo figlio non si era mai rivolto a lui in quel modo; Arthur non aveva mai osato sfidarlo o ribellarsi alle sue parole fino a quel giorno.
Fingere ormai era inutile, se ne convinse il brizzolato, così riprese la sua espressione quotidiana caratterizzata da una faccia dittatoriale «Siediti.» lo intimò, cedendo alla sua volontà.
 
Telefonata, casa Mecoalt


«Era malata.» la voce di Arthur risuonò strana dall’altra parte della cornetta «E tu lo sapevi.» rimarcò, incastrandolo.
Lancelot si fece coraggio, sapendo che prima o poi sarebbe arrivato quel momento; puntò lo sguardo verso un punto indefinito della stanza, stringendo tra le mani la cornetta del suo telefono «Non voleva che tu lo sapessi, ed io le avevo dato la mia parola.»
«Avevo il diritto di saperlo… in fondo siamo stati insieme.» il biondo sibilò quella frase a denti stretti, riscoprendosi ancora ferito nel profondo.
 «Non voleva che tu soffrissi.» la voce di Lancelot era un veliero in balia di onde di un mare di ricordi, in procinto di tempesta «Per questo ha finto.»
Il silenzio si materializzò tra i due. Nessuno fiatò per un paio di secondi, finché il moro non proseguì «Preferiva essere odiata per un tradimento che non aveva commesso, piuttosto che addossarsi la colpa di un dolore che non avrebbe potuto guarire.»
Arthur sentì il sangue gelarsi nelle vene.
Cercò di realizzare quanto gli fu detto, temendo di aver compreso male.
Ginevra non l’aveva tradito. Se n’era andata dalla sua vita per non farlo soffrire, consapevole che l’avrebbe superato.
«Perché ha cercato te?» domandò, volendo ormai togliersi ogni dubbio e vederci – per suo diritto – finalmente tutto più chiaro.
«Ginevra si svegliava ogni giorno temendo che fosse l’ultimo.» nella voce di Lancelot traspariva molta malinconia; si era lasciato abbandonare in ricordi amari e dolci, quelli di una donna che condivideva tutto con lui, tranne che il suo cuore. Quello era tutto rivolto ad Arthur. Sorrise, facendosi coraggio, essendole ugualmente grato per tutto ciò che avevano condiviso «Io ero un soldato ed ogni volta che uscivo dalla porta di casa, non sapevo se vi avrei fatto più ritorno. Condividevamo la nostra più grande paura. Non dovevamo temere di essere l’uno la caduta dell’altro. Eravamo delle mine già innescate, stavamo solo aspettando l’ultimo countdown prima di esplodere.»
Arthur rimase sospeso in quelle parole, maledicendosi ancora una volta di essere stato così cieco. Si sentì una pessima persona per aver gettato al rogo tutti i loro ricordi, dicendo definitivamente addio al loro amore.
Un ultimo dubbio gli tornò alla mente «Ha lasciato scritto qualcosa?» domandò, per poi aggiungere dopo qualche attimo di silenzio «Una lettera in punto di morte o qualcosa così?» tentò.
«Sì.» gli rispose, soltanto.
Arthur aspettò in silenzio che continuasse, sentendogli il cuore compiere strane palpitazioni nel petto.
«L’hai già ricevuta, effettivamente.» disse, provocando confusione nel biondo. Lancelot sorrise, rievocando vecchi ricordi «La sua lettera per te era Ygraine.» cominciò a dire, vagando con la mente nella memoria «Quando scoprì di essere incita ebbe paura che in qualche modo la bambina potesse nascere malata, così si convinse ad optare per l’aborto. L’accompagnai all’ospedale, dove incontrammo un paio di coppie nella sala d’attesa. Ginevra guardò una ragazza giovane, sulla ventina sorreggersi la pancia. Ne sorrise di riflesso dicendomi ‘Non voglio condannare la mia bambina all’oblio, senza che abbia mai potuto vedere la luce del sole.’ Così uscimmo dall’ospedale. Fu per lei una gravidanza molto sofferta, ma si sforzò nel regalarmi sempre un sorriso in quei pochi giorni che mi ebbe accanto. Quando arrivò il momento del parto io le stringevo la mano, ma il suo viso era assente; perso nel dolore. Guardava altrove, concentrandosi in un punto morto. Quando la bambina uscì dal suo corpo e ne udì il pianto, la vidi sorridere di riflesso nel vuoto. Qualche ora più tardi, dopo essersi svegliata mi ha detto ‘E’ stato con me tutto il tempo, aiutandomi. Sua madre gli è stata portata via troppo in fretta ed io voglio rimediare in qualche modo. Voglio che la nostra bambina si chiami Ygraine.’ Io annuii consenziente, accettando anche quel pegno d’amore rivolto ad una persona che non ero io.»
Calde lacrime colarono dagli occhi del biondo, mentre qualsiasi parola moriva nella sua bocca. Non l’aveva mai ringraziata per tutto ciò che gli aveva sempre donato, anche solo stando al suo fianco, ma quel giorno ne trovò il coraggio.
Grazie, per tutto, le disse con la mente, immaginandosela sorridere appagata dalle sue parole.
 

*

 
Arthur era rimasto chiuso in casa a rimuginare su quanto fosse stato cieco. Era stato al fianco di Ginevra per così tanti anni, senza mai accorgersi della sua malattia… e lo stesso era successo anche con Mithian.
Uno scampanellio lo distolse dai suoi pensieri; voltò lo sguardo verso il corridoio, dove il suono si era propagato, ignorando del tutto chi potesse mai cercarlo. Suo malgrado, si alzò dal divano e si avviò verso la porta, aprendola senza troppi indugi.
Il viso cordiale dell’uomo lo accolse con un sorriso beota «Suppongo di non essere di disturbo.» aggiunse poi, rimanendo impalato di fronte al biondo, nei suoi abiti casual.
«Sì, lo è.» rispose di rimando, facendo per chiudere la porta. L’uomo però, avanzò di un passo, bloccando la ante col suo piede contro lo stipite.
 «Sono venuto per chiederti scusa.» aggiunse il corvino, insistendo.
«Non mi servono le tue scuse.» tagliò corto il biondo, con fare acido, ma l’uomo fece maggiore pressione, riuscendo a spalancare quanto meno la porta «Insisto!»
Arthur lo guardò indignato, arrendendosi nel lasciargli campo libero «Oltre ad essere uno scrittore da strapazzo è anche un idiota.»
«Terribilmente idiota.» precisò il corvino, chinandosi per prendere un pacco sigillato e porlo al giovane «Ma fa parte del mio fascino.»
«Cos’è?» chiese il giovane, indicando con lo sguardo il pacco.
«Il pacco che non ho avuto il coraggio di gettare al rogo.» l’uomo insistette, porgendoglielo ancora una volta, finché il biondo non parve convincersi, rigirandoselo tra le mani con fare indagatorio.
«Sei una brava persona, Arthur Mecoalt e meriti le risposte che desideravi.» gli disse solamente, per poi incurvare le labbra in un sorriso nostalgico. Arthur lo guardò allontanarsi, rigirandosi ancora per una volta quel pacco tra le mani, poi decise di entrare.
 


Il biondo aveva aperto il pacchetto sigillato dallo scotch, ritrovandovi vecchie foto sbiadite a ricoprire un cd. Lo prese tra le mani, guardandone la superficie sporcata da un pennarello nero. C’era scritto Il vero lato della storia.
Accese il suo lettore audio, capendo che si trattasse di un videofilmato, prendendo posto sul divano. A braccia incrociate guardò lo schermo, subito dopo aver premuto Play.

L’immagine di una donna corvina si materializzò sullo schermo. Aveva i capelli raccolti in morbide onde, la pelle bianca in netto contrasto con gli occhi smeraldo e le labbra rosse “Sono le quattro del mattino e l’aria è pungente… Forse ti chiederai perché mi sto riprendendo nel cuore della notte o forse no: in fondo hai sempre saputo quanto fossi strana… a volte. La mia calligrafia è diventata illeggibile a causa… del-tu-già-sai-cosa, così ho preferito filmarmi: tanto la mia immagine è ancora perfetta.” Ci fu una brevissima pausa, poi la corvina continuò a parlare, stavolta lacrimando “Ho tanta paura, Emrys. E sono arrabbiata con il mondo. La mia malattia mi porterà via tutto ed io non posso sopportarlo. Quando il dottore mi ha diagnosticato quella cosa, ho visto il tuo viso adombrarsi. Sei crollato davanti ai miei occhi, senza neanche accorgerti che quella che avesse bisogno di sostegno ero io. La verità è che ho paura di te. Paura che tu possa odiare ciò che sto diventando. La malattia mi porterà via tutto ed io…” la donna si strinse le labbra, guardando in alto per non far scendere le lacrime sul suo volto, poi continuò “Avevo deciso di prendere quelle pillole: la via più facile e quella più indolore. Sono sempre stata una donna crudele e ciò non dovrebbe sorprenderti. Però io quelle pillole le ho buttate. Sono egoista e non m’importa di chiederti tanto, perché ti amo. Ho bisogno che tu ti prenda cura di me, anche se ciò ti farà soffrire come non mai in vita tua, ma so che non te ne pentirai. Come hai sempre detto tu ‘Una metà non può veramente odiare ciò che la rende completa.’ E tu mi hai resa completa, Emrys. Non mi hai regalato un ‘per sempre’, ma una ragione per continuare a lottare e vivere. Ed io ti ringrazio, per il nostro amore avverso alla malattia e all’infinito. Perché per davvero, l’amore vince su ogni cosa e tutto ciò che si fa per amore lo si fa aldilà del bene e del male.”

Arthur premette il tasto stop mentre l’immagine di Mithian gli balenò dinanzi agli occhi. Lui amava quella donna e non gliene importava nulla s’era malata e se avrebbe rallentato in qualche modo la sua ascesa nel mondo: voleva stare con lei, perché lo rendeva completo.
Convinto della sua scelta, si alzò di scatto dal divano, raggiungendo a grandi passi l’entrata, chiudendosi malamente la porta alle spalle.

 
Seymour Street, ore 19.50


Parcheggiò malamente la sua auto sul ciglio del marciapiede, scendendo in tutta fretta, incurante della pioggia che batteva forte sul suo corpo.
«Mithian!» prese ad urlare, sotto la pioggia incessante, aspettando che la donna si facesse viva alla finestra.
Dopo l’ennesimo urlo la vide uscire allo scoperto. Aveva i capelli spettinati e la faccia lievemente arrossata, e sgranava i suoi occhioni nocciola, riprendendolo «Arthur, ma che diamine stai facendo?!»
«Dovevo dirti che la fine di quel libro fa pena; che Merlin è un idiota e che ti amo!» le urlò di rimando, socchiudendo gli occhi d’istinto per la pioggia che ne ricadeva sopra.
La mora scosse il capo «Ne abbiamo già parlato!» disse, alzando il tono quanto il giovane per farsi sentire.
«Ed io ho deciso!» la incalzò, zittendola «Ho deciso che preferisco stare con te rischiando di soffrire, piuttosto che sapermi incompleto per il resto della mia vita!» i vestiti aderivano al suo corpo, ormai rovinosamente bagnati, zuppi come i suoi capelli «Non avremo un ‘per sempre’, ma saremo felici. Perché tu mi rendi completo ed io ho bisogno di te!»
Mithian era tentata nel cedere, nel scendere le rampe di scale e catapultarsi nelle braccia del biondo, ma il suo più grande timore non l’abbandonava «Non voglio che tu soffra a causa mia!» confessò, in procinto di versare delle lacrime.
«Soffrirò lo stesso, qualsiasi cosa decida di fare.» sentiva la pioggia ricadere copiosa sul suo viso, mentre le sue iridi bluastre erano fisse sull’immagine della mora «Adesso sta a te decidere. Vuoi soffrire con me o preferisci gettare al rogo l’unica possibilità di sentirti pienamente completa?»
I loro sguardi s’incrociarono, mentre l’unico rumore che fece loro da sottofondo fu lo scrosciare della pioggia contro i tetti ed i veicoli impazziti della città. Mithian comprese di avere due possibilità: la prima era lasciare andare Arthur per sempre, privandosi di tanti momenti di dolore, quanti di felicità; la seconda era corrergli incontro, dimenticando il futuro e viversi il presente, così come sarebbe venuto.
Strinse le mani sulla mensola della finestra, prendendo la sua decisione.


Sette mesi dopo…
 
«Allora marmocchietta, che ne dici del nuovo finale?» Arthur sorrise vittorioso, aspettando con impazienza la risposta della piccola, dall’altra parte della cornetta.
 «Mi piace!» decretò soddisfatta, con un’inflessione – ovviamente – infantile nel tono di voce.
Emrys Myrddin si era rimesso all’opera, modificando – sotto consiglio severo di Arthur – la fine del suo libro, trovando il coraggio di pubblicarlo sotto consiglio pressante della figlia.
Lancelot intanto aveva detto la verità ad Ygraine riguardo la madre, ma il peggio sembrava essere passato. Padre e figlia adesso, riuscivano ad avere un rapporto sereno, beandosi di teneri e sfiancanti momenti familiari.
«Dovresti scrivere anche tu una favola!» propose la bambina, euforica.
«Beh…» Arthur si voltò verso l’allegra tavolata allestita nel giardino della villa Mecoalt, dove Mithian rideva gioiosa ai primi tentativi di ‘rapporto civile ed armonioso’ tra suo padre ed il Signor Uther Mecoalt «Qualcosa l’ho già buttata giù.»
Uther, con immensa sorpresa da parte di suo figlio, aveva accettato ben volentieri Mithian come sua ragazza, in quanto la ritenesse colta, aggraziata ed intelligente; tante doti che sembrava adorare con fissa maniacale.
«E ci sarà il ‘per sempre’?» chiese incuriosita la piccola.
Emrys si era rivelato un uomo dalle mille sfumature. Sapeva essere scherzoso, mentendo sempre quell’aria saccente e filosofica che Arthur tanto odiava. Ma alla fine, erano riusciti ad instaurare un rapporto, seppur strano, ma comunque civile. “Puoi chiamarmi papà.” Gli aveva detto una sera, ma Arthur aveva cordialmente rifiutato la proposta, roteando gli occhi.
Poi c’era Mithian. La loro relazione era come quella di tante coppie normali: litigavano di tanto in tanto, ma c’erano sempre l’uno per l’altra.
La malattia non aveva ancora vinto, e mai l’avrebbe fatto. I medicinali sembrarono funzionare, soprattutto dopo che Arthur si fosse messo in contatto con il medico migliore di Londra, il Dottor Draco Kilgharrah.
C’erano momenti brutti esattamente come quelli belli ed il biondo, d’altro canto, non pretendeva altro.
«No.» le rispose infine.
Mithian l’aveva scrutato dalla tavola e gli aveva sorriso, eguagliando in un solo momento la bellezza di quella giornata; Arthur le sorrise di rimando, parlando alla piccola «Ma posso assicurarti che vivranno tutti felici e contenti.»



Fine.

 
   
 
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