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Autore: Jordan Hemingway    27/07/2015    2 recensioni
Dal testo:Alle tre e dieci gli ingranaggi del matrimonio ticchettavano precisi come quelli di un orologio.
L’autista aveva fatto scendere la sposa davanti all’hotel e gli ospiti attendevano nella hall sorseggiando calici di liquido argentato.
Le guardie del corpo dello sposo avevano lanciato legami runici contro una mezza dozzina di giornalisti intraprendenti, che il giorno dopo avrebbero scritto articoli pungenti sulla libertà di stampa e la discriminazione tra umani ed elfi.
L’orchestra eseguiva lenti e ballate Sindarin con la consumata abilità di un prestigiatore nel segare in due un folletto.
La cerimonia dell’anno poteva ufficialmente iniziare.
Genere: Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2.Promozione: Nuova Regina
 
It dont’ mean a thing if I ain’t in your eyes
Probably ain’t gonna fly, no.
Fergie, A little party never killed nobody (All we got)
 
 
Imlach alzò la testa in tempo per vedere Huntor barcollare e cadere oltre la scalinata con un foro all’altezza del cuore.
La sala era in preda al caos: gli spari sovrastavano le voci e le urla degli ospiti, che tentavano di creare barriere e legami di protezione, inutilmente. Le armi dell’orchestra e del cecchino dovevano essere state costruite per penetrare la magia elfica, a giudicare dalla morte di Huntor.
Umani contro elfi, come nelle peggiori faide dei bassifondi cittadini: come era potuto accadere?
Era necessario identificare gli aggressori, per avere la possibilità di restituire la visita, ma prima veniva qualcos’altro.
Imlach si portò vicino a Morwen: l’elfa fissava il cadavere del padre senza accorgersi della sparatoria intorno a lei.
“Mi ha fatto da scudo.” Mormorò, quando il marito la prese per mano e la guidò lontano dalla balaustra, verso i corridoi. “Si è gettato davanti a me.”
“Posso sempre rimediare, dolcezza.” Il cecchino era alle loro spalle, il dito pronto a scattare sul grilletto del fucile.
Ancora una volta fu Imlach a spostarsi velocemente dietro l’angolo di una porta, tenendo alle sue spalle Morwen.
Il cecchino abbassò la canna. “Così non vale, amico, non sai che il tempo è denaro?” Sbuffò. “Ho una tabella di marcia da rispettare: ore undici, uscire dalla torta; ore undici e uno, far fuori la sposa; ore undici e tre, scappare.” Elencò, per poi estrarre un orologio dal gilet. “E sono già le undici e cinque, ci credereste?”
Imlach scagliò un legame d’attacco contro l’avversario, senza preoccuparsi dell’orario. Tuttavia, l’umano si limitò a parare l’incantesimo con il suo fucile, non alzando nemmeno gli occhi. “Voglio dire, fra venti minuti iniziano le corse. Secondo voi quanto dista l’ippodromo?” Sospirò, prima di sparare ancora all’improvviso. “Dovrebbero darmi un aumento, davvero.” La pallottola si era conficcata nel braccio di Morwen, nonostante la copertura di Imlach.
“Che cosa vuoi da noi?”
Il cecchino lo guardò con aria smarrita. “Secondo te?” Allargò le braccia per indicare la sala sottostante. La banda di orchestrali stava schivando magie con una perizia pari solo a quella già dimostrata nell’esecuzione musicale, mentre la maggior parte degli ospiti si gettava verso le uscite di servizio, nella speranza di scappare, operazione resa difficile dalle raffiche di mitra e dall’impiego di altre armi modificate per resistere ai contro-incantesimi elfici.
“Chi ti ha mandato?”
“Perché dovrei dirtelo?” Lo sbeffeggiò l’umano. “Fai il bravo e lasciami uccidere tua moglie.”
“Perché così potrei decidere di finirti subito e non pezzo dopo pezzo.”
La risposta fu un nuovo sparo. “Spiacente, elfo, non ho tempo per le battute di spirito, ho un lavoro da completare.” Sogghignò. “E poi, come pensi di riuscire a prendermi, se la tua magia è del tutto inut…”
Non riuscì a completare la frase.
 
 
Morwen Thorodhrim non notò il fiotto di sangue che uscì dalle labbra dell’uomo che aveva tentato di ucciderla, come non aveva notato il proprio novello sposo tessere una rete di incantesimi approfittando della parlantina del primo.
Non guardò Imlach gettarla sul malcapitato umano, e non ascoltò i lamenti prima sommessi, poi urlati di quest’ultimo, fino a quando la vita gli venne strappata dal corpo.
Non si interessò del fatto che attorno ai due l’aura si fosse fatta pesante, come se una qualche altra magia fosse all’opera, una magia che aspirava il potere del marito impegnato a distruggere il sicario.
In effetti, Morwen Thorodhrim in quel momento aveva seri problemi di concentrazione.
Suo padre era morto.
Huntor, il pilastro di uno dei clan più potenti, era stato ucciso e il suo sangue si mescolava a quello dei feriti e degli altri caduti, umani ed elfi.
Per difendere lei si era sacrificato volontariamente, e questo poteva significare una cosa sola: Morwen Thorodhrim avrebbe dovuto sopravvivere per portare a termine l’unione tra i clan.
Perché tra le molte qualità di suo padre (diplomazia, ipocrisia, malevolenza) non era mai rientrato anche l’altruismo.
Non si era sacrificato per lei, bensì per il clan.  Come figura paterna aveva fallito su tutta la linea, ma come leader aveva avuto abbastanza buonsenso da capire chi fosse più importante.
Lei, ovviamente.
Dunque, sia per la memoria del vecchio che per il proprio neonato impero, non avrebbe vanificato la dipartita del padre: chiunque avesse commissionato il suo assassinio avrebbe pagato un prezzo altissimo, elfo o umano che fosse.
Il regno di Morwen Thorodhrim stava per cominciare.
Fu il suo ultimo pensiero prima di aprire la porta dello studio di Imlach e anche l’ultimo della sua vita, dal momento che non appena entrò la pallottola le spaccò il cranio a metà.
 
Mesi di preparativi.
Anni di sforzi e rabbia repressa, per salire quella dannata scala sociale gradino dopo gradino, arrampicandosi a volte con le unghie e i denti, per arrivare più in alto di chiunque, e mancava così poco, così poco…
Tutto vanificato da un dito affusolato premuto sul grilletto.
La donna si alzò dalla poltrona reggendo sulla spalla la canna della pistola ancora fumante e incedette lentamente verso Imlach, sorridendo e scuotendo i ricci biondo grano.
L’elfo tentò di richiamare la propria magia, ma inutilmente: sembrava che le sue energie gli fossero state sottratte all’improvviso.
“Una semplice precauzione: non mi sembrava il caso di lasciarti troppi vantaggi.” Spiegò l’altra. “Piaciuto il mio regalo di compleanno?” Mormorò poi complice e spiò la sua reazione da sotto le ciglia.
Il risultato di una vita intera di maneggi e trame sotterranee era distrutto, e quella donna, chiunque fosse, pareva intenzionata a giocare con lui.
Non aveva intenzione di assecondarla.
“Hai avuto quel che volevi?” Domandò secco, oltrepassando il cadavere della moglie. “Allora vattene.”
“Non hai paura di essere il prossimo?” Cinguettò l’altra, avvicinandosi ancora, ma Imlach la ignorò, preferendo sedersi alla scrivania.
“In tal caso sarei morto prima di entrare, come lei.”
“Corretto. E non mi chiedi perché sono ancora qui?”
“Non mi interessa.” Ed era vero: in quell’istante la mente dell’elfo stava lavorando a pieno regime, tessendo piani per rappezzare quel che sarebbe stato rovinato quella notte, escogitando strategie e pianificando alleanze per non perdere ogni cosa.
La donna umana posò una mano sulla scrivania,  con l’altra gli puntò contro l’arma, esigendo attenzione. “Dovrebbe. Dopotutto, ho appena ucciso tua moglie.”
Imlach non la degnò di uno sguardo, e questo parve irritare la sconosciuta. “Scommetto che non ti aspettavi un attacco del genere da un clan di umani. Non è così?”
Nessuna risposta.
“Non sai nemmeno chi siamo, vero?” Il sorriso per un istante si ruppe in una smorfia, prontamente repressa. “Te lo dirò: siamo i nuovi padroni della città, hai capito? Non abbiamo più bisogno di voi elfi nei nostri affari.”
L’altro rifletteva. Gli umani erano fastidiosi, tendevano a intromettersi troppo spesso, cercando tornaconto dove non avrebbero dovuto. Forse la donna apparteneva a una di quelle bande al soldo di magnati umani dell’alta finanza, preoccupati di quel che l’unione dei clan Thorodhrim e Helegrim avrebbe potuto significare per loro.
Un sicario, tuttavia, sarebbe sparito dopo aver completato il lavoro.
E soprattutto: perché lui era ancora in vita?
“Davvero non ti interessa sapere chi sono?” La donna girò attorno alla scrivania.
“Sei un’adanrim.”
“Un’umana,” La voce di lei enfatizzò la parola, “che ha distrutto ogni tua speranza di grandezza con l’aiuto di pochi uomini.” Tubò. “Quanti elfi possono dire altrettanto?”
Dunque sapeva il significato di quel che aveva fatto. Niente di cui meravigliarsi, solo i sicari di basso livello lavoravano all’oscuro della situazione.
“Non sei almeno un po’ sorpreso? Neanche un po’?”
Il tono piatto avrebbe dovuto metterlo in guardia, pensò Imlach quando il calcio della pistola lo raggiunse al mento con violenza.
“Di’, non vuoi sapere chi è la donna che ti ha fatto le scarpe?”
L’elfo si portò la mano alla mascella, macchiandosi le dita di sangue. “Credi che basti uccidere una pedina per distruggere quello a cui ho lavorato per così tanto tempo?” Indicò Morwen, attorno alla quale andava allargandosi una pozza di sangue e materia cerebrale. “Vi sbagliate, tu, la tua banda e chi vi ha assoldato. Godetevi la vittoria di stasera, finché potete. Otterrò quel che voglio, a costo di impiegarci una vita intera, e non vivrete abbastanza per constatarlo.”
L’altra lo colpì di nuovo con l’arma, facendolo cadere a terra.
“Per essere un abile stratega, sottovaluti troppo i non-edhel.” Lo afferrò per il collo della camicia. “Guardami.”
“Sono Amy Walden. Mio padre stava per avere il controllo di questa città quando tu eri un semplice cane da guardia. Il suo unico errore è stato fare affari con il clan Helegrim: per i suoi servizi avete ucciso mia madre e lo avete privato di tutto.” Lo informò, e ora la sua voce non era più insinuante. “Io mi riprenderò quel che era mio.”
“Dovrei ricordare la morte di un umana?”
“Non mi aspetto tanto.” Ora la sua faccia era vicinissima a quella dell’elfo.
Imlach distolse lo sguardo, ma lei lo costrinse a tenere ferma la testa.
“Ti ricordi di me? Ero la bambina che voleva giocare con i cerberi quando il tuo padrone veniva a parlare con papà. Ero la ragazzina che ti guardava quando avete fatto irruzione nel nostro palazzo per uccidere mia madre.”
Per un lungo attimo i due si fissarono: gli occhi argentei dell’elfo riflessi nelle pupille nere dell’umana.
E alla mente di Imlach tornò un ricordo lontano, una sparatoria che avrebbe dovuto essere intimidatoria, una madre fin troppo brava a mirare, una bambina bionda coperta di sangue, un sangue che lei stessa aveva versato un attimo prima che la madre premesse il grilletto che avrebbe ucciso il giovane elfo rimasto allo scoperto, lo sguardo di quella ragazzina cresciuta in fretta.
Per la seconda volta Imlach ricambiò quello sguardo, e Amy vi si riconobbe.
E finalmente qualcosa sembrò tornare a posto nel viso distorto della donna. Con un ultimo strattone lasciò andare Imlach, e indietreggiò lentamente verso la porta.
“L’effetto del annullamento del tuo potere svanirà tra pochi minuti, meglio che io vada.” Scalciò via il corpo ormai tiepido di Morwen, e sorrise all’elfo. “E non disturbarti: conosco la strada.”
“Umani…” Mormorò Imlach, quando la porta fu chiusa.
Un’unica parola per un significato così complesso, al punto che nemmeno un elfo sarebbe mai riuscito a coglierlo tutto.
Puntellandosi alla gamba della scrivania, Imlach tornò a sedersi nella poltrona, aspettando la fine della serata e la prossima mossa sulla scacchiera: la sua regina era morta, il suo alfiere caduto, nel campo avversario una delle pedine era rinata regina.
Ora toccava a lui a muovere.


N.d.A: Questa storia partecipa al contest The Ancient Tales, indetto da Ino_chan e Tsunade su EFP Forum.
Per ragioni inerenti ai pacchetti del contest, il protagonista doveva essere un nobile e al tempo stesso appartenere a una casta che gli impedisse di realizzare i propri obiettivi: ho interpretato la cosa usando Imlach, un elfo (quindi di per sè nobile rispetto agli umani e alle altre specie della società) di bassa estrazione che sposa un'elfa di casta più elevata per i propri scopi.
Le strofe della canzone a inizio capitoli appartengono alla soundtrack del Grande Gatsby, alle cui atmosfere mi sono vagamente ispirata (?) e la lingua elfica appartiene a Tolkien, ma è avulsa dal contesto. 
...Suppongo sia tutto molto tirato per i capelli (all'inizio pensavo a una storia mooolto più lunga), per cui vi ringrazio per aver letto fin qui^^
 
  
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