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Autore: Lost In Donbass    10/08/2015    0 recensioni
California, 1987.
Questa è l'America della perdizione, della musica, delle libertà negate. E' il tempo di un'epoca giunta al limite, dove non c'è più niente da dire. E' l'America delle urla, delle speranze, dei cuori infranti.
Nella periferia di un'insulsa cittadina si muovono otto ragazzi, otto anime perdute e lasciate a loro stesse. Charlie se ne vuole andare ma gli manca il coraggio di voltare le spalle. Jimmie Sue spera, crede in qualcosa che la possa salvare ma a cui non sa dare un nome. Jake è al limite, soffoca tutto nel fumo, dimentica grazie all'alcol, non ne vuole più sapere. Jasper ha finito di sperare, di pregare, di credere; ha dimenticato cosa vuol dire piangere, cosa vuol dire vivere.
Tirano avanti come possono. Sono le creature di una periferia assassina e di una società fraudolenta e fallace. Sono dei bastardi senza gloria e senza onore.
E questa è la loro storia.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO QUATTORDICI: NOTHING’S LEFT TO CLING ONTO, YOU GOT TO HOLD ON TO YOURSELF
Si consiglia di ascoltare durante la lettura “Hold on” dei Green Day.

Jasper camminava mollemente lungo il breve torrentello che costeggiava il nato nord della cittadina. Si trascinava lentamente, come se solo muoversi gli costasse una fatica terribile. Fumava senza voglia, la sigaretta appesa al lato della bocca sottile, i capelli gli ricadevano sulle spalle, sporchi, impregnati di tabacco, gli occhi cerchiati tenuti bassi, il mascara che pesava irrimediabilmente sulle ciglia lunghe, le mani tenute nelle tasche degli skinny neri, affondate simbolicamente nella sua perenne noia. I tacchi rimbombavano sul graticcio del fiume, secco dopo tanti mesi di rare pioggerelline occasionali. Il ragazzo sembrava solo un’ombra smorta su uno sfondo di un inferno vuoto e secco, bruciato dal sole e dall’inutilità insita da sempre dalla fondazione della cittadina di cartongesso. Jasper osservò un grosso scorpione correre veloce sulle rocce e andarsi a nascondere sotto un sassolino. Sospirò, continuando a camminare per quella desolazione che lui si rifiutava categoricamente di chiamare “casa”. Il sole pallido bruciava incessante la terra polverosa, giallastra, e i pochi rovi abbarbicati sul graticcio. Il rigagnolo d’acqua stagnante contribuiva a peggiorare sensibilmente il paesaggio corroso di quel piccolo pezzo di terra nel nord della California.
Jasper proseguì strascicando i piedi, dirigendosi verso nord, verso qualcosa di sconosciuto, di luminoso, di diverso. Verso quel qualcosa che probabilmente non avrebbe mai avuto la fortuna di vedere. Sospirò, aspirando il fumo dolciastro della sigaretta e espirando una triste ombra di fumo grigiastro nell’aria pesante, lasciandosi cadere seduto sul graticcio, sotto il sole cocente, solo con i suoi pensieri, con i suoi problemi. Tirò fuori dalla tasca della felpa un blocco di fogli da disegno pieno zeppo di schizzi e acquerelli e  qualche carboncino. Disegnare lo aiutava a mettersi in ordine la testa, a estraniarsi dai drammi che ogni volta facevano capolino nella sua mente stanca. Sfogliò annoiato i vecchi schizzi; disegni di Jake, del suo Jake, in ogni posizione, con ogni espressione. Disegni dei Gentiluomini, delle loro disgrazie, dei loro cuori. Disegni di Charlie, il piccoletto terrorizzato da se stesso. L’unico, forse a poter far qualcosa per salvarlo. L’unico ancora abbastanza umano per poterlo tirare fuori dalla fossa che si era scavato con le sue stesse mani. Non ci credeva, quando Jake gli diceva “staremo insieme per sempre”. Non ci credeva, quando i Gentiluomini urlavano “supereremo tutto insieme, siamo o no una famiglia?”. Non ci credeva, quando qualcuno esclamava “ce la faremo”. Credeva nell’espressione stupita di Charlie, nel suo modo di vedere le cose: credeva fermamente che quel bamboccio insicuro avrebbe potuto tirare fuori qualcosa di veramente geniale. Gli avrebbe messo qualsiasi cosa in mano: c’era la vaga speranza che sapesse cosa farne.
Jasper cercò un foglio ancora immacolato e cominciò a disegnare, veloce, senza pensare, aspettando che fossero le mani a decidere cosa fare. Ne prendeva forma un volto, un sole, qualcosa di indefinito come se stesso. Quel posto gli fece venire in mente la prima volta in cui aveva deciso che lui avrebbe salvato l’America. In cui si era fermamente deciso di far qualcosa per la sua nazione, di tirarne fuori qualcosa di buono, qualcosa per cui valesse la pena lottare, vivere, morire. Cercava disperatamente un motivo per rendere fieri gli americani; voleva essere conscio che esistesse almeno qualcosa per cui sacrificarsi. Jake, certo. C’erano i suoi occhi nocciola e il suo sorriso disarmante. Ma non era abbastanza, non riempiva completamente il cuore di Jasper come avrebbe dovuto. No, c’era qualcosa di dannatamente sbagliato in tutto quello, di scombinato, di ingiusto. Pensò a quanto forse avrebbe avuto bisogno di piangere; lo sentiva spesso dire, che bisognava piangere, che tenersi le lacrime dentro era sbagliato e dannoso. Eppure lui non ci riusciva. Non si ricordava nemmeno più come si facesse, a spremere fuori il pianto, a cavarsi fuori dagli occhi ormai secchi l’acqua salata che scendeva a goccioloni. L’ultima volta che aveva pianto era stata quando aveva avuto suppergiù cinque anni. Aveva pianto perché aveva visto sua madre ubriaca fradicia che piangeva a sua volta; non sapeva il motivo, ma vedere la propria madre piangere era una cosa terribilmente deprimente. Così, senza motivo apparente, anche lui aveva versato un fiume di lacrime, fermo immobile sulla porta del salotto, senza che nessuno lo abbracciasse e senza che lui corresse da qualcuno. Congelato lì, in lacrime silenziose. Ma quelle lacrime non avevano cambiato nulla; era tutto rimasto uguale, morto ancora prima di nascere, buio senza luce, polvere mai spazzata caduta su un cuore fermo ormai da anni, silenzio mai interrotto e occhi incendiati dalla tristezza senza via d’uscita. Jasper aveva capito che piangere non sarebbe servito a nulla, che le lacrime non avrebbero cambiato il mondo, che erano solo debolezza. Che poi gli occhi avrebbero continuato ad ardere fino a consumarlo. Lui non piangeva. Lui combatteva. Poteva aver già perso, ma non si sarebbe arreso, non avrebbe lasciato che il pianto colasse su di lui e lo distruggesse. Sarebbe rimasto lì, come polvere depositata, a resistere. Mangiato dai rimorsi, soffocato dagli ideali di altri gente, Jasper non piangeva. Non piangeva, e ormai si era asciugato gli occhi, asciutti come due grosse ametiste opacizzate dalla luce di un diamante.
Si passò un mano tra i capelli, che sapevano ancora di Jake, della sua pelle, del suo respiro di fumo. Prese un foglio e cominciò a disegnare se stesso, seduto sulla riva di un fiumiciattolo asciutto come i suoi occhi, con il sole pallido sulla testa, come un giudice che non vedeva l’ora di mandarlo sulla sedia elettrica. Hai rubato, Jasper? Sì, ho rubato le mie stesse lacrime. Hai corrotto, Jasper? Sì, ho corrotto le loro anime candide. Hai trafficato, Jasper? Sì, ho trafficato le idee di altra gente, avvelenandole con la mia parola. Hai bestemmiato, Jasper? Sì, ho bestemmiato contro qualcosa a cui non credo. Hai rapito qualcuno, Jasper? Sì, ho rapito il cuore di troppa gente. Hai ucciso, Jasper? Sì, ho ucciso me stesso. Cosa ne deduci, Jasper? Che merito la morte.
 
Jake non era soddisfatto di quello che avevano fatto come vendetta. Va bene, avevano messo a soqquadro completo il covo di quei bastardi, avevano rovinato quello che potevano rovinare, avevano legato come un salame la piccola vedetta, avevano fatto tutto quello che si poteva fare per vendicarsi. Ma qualcosa stonava, e stonava perché Frizzy non aveva fatto il solito urlo di battaglia che puntualmente faceva alla fine di qualche azione distruttiva. Stonava perché Jimmie Sue non stava ridendo sguaiatamente come al solito. Stonava perché Jeremy non aveva ancora aperto una birra. Stonava perché Boleslawa non stava canticchiando. Stonava perché Ash non si puliva gli occhiali freneticamente. Stonava perché lui non stava fumando. Stonava perché non c’era Jasper. E senza di lui, niente era come al solito; gli pareva così strano che li avesse mandati da soli. Che avesse lasciato da solo lui. Si sentiva un po’ egoista a pensarlo, ma qualcosa gli diceva che la sua figura era qualcosa di importante per Jasper. Se lo augurava, perlomeno, che l’amore fosse ricambiato.
-Jake?
Il vocino di Charlie, lo fece voltare di scatto. Il ragazzino lo guardava con i grandi occhi scuri un po’ troppo tondi.
-Dimmi, Charlie.
-Non saremo stati un po’ troppo vandali?
-Non si è mai troppo vandali, con quelli lì.- sogghignò stancamente, accendendosi finalmente una sigaretta. La sua seconda dipendenza. Ne allungò una a Bolly, che fece metà con Jimmie e l’altra a Ash.
-Sai mica perché Jasper ci ha lasciato da soli?
-Non so che gli passi per la testa, Charlie. E faresti meglio a non cercare di capirlo.
-Mi è parso strano.
-Senti, bello, tu non lo conosci, ok?! Non può sembrarti strano!
L’aggressività rivelata da Jake fece indietreggiare Charlie. Un altro passo falso. Era veramente un disastro a rapportarsi con la gente.
-Scusa, io non volevo … cioè …
-Jake, smettila. Non trattarlo male.- intervenne Boleslawa, lanciandogli un’occhiataccia da dietro la cortina di fumo sottile. – Jasper non vorrebbe.
Jake lanciò un’occhiata di traverso all’amica, ma non le disse nulla.
-Scusa Charlie, non volevo trattarti male- borbottò, affondando ancora di più nelle tasche della felpa.
Charlie si limitò a scuotere la testa, come a cancellare tutto e si avviò velocemente dietro a Jimmie e Frizzy che marciavano davanti.
-Che diavolo succede, Jake?- sussurrò Ash all’orecchio del ragazzo, trattenendolo un po’ in dietro rispetto agli altri.
-Non lo so, Ash.
I due si guardarono, occhi nocciola dentro occhi neri, visi seri, circondati dall’imprescindibile cortina di fumo leggero e impalpabile come le loro anime. Fumo, dentro. Semplici sigarette tirate e poi schiacciate sotto le scarpe. Sigarette di contrabbando, pagate una miseria per gente distrutta. Filtri di vita.
-Jasper è strano. E io lo posso dire.
-Non ha niente.
Jake si accese in fretta un’altra sigaretta, voltandosi e distogliendo lo sguardo da quello fisso e severo di Ash, scompigliandosi da solo i capelli, in un goffo tentativo di imitare le carezze del Capo.
-Tu vuoi che non abbia niente. Ma sappiamo entrambi che non è vero.
Ash lo afferrò per le spalle muscolose e lo costrinse a guardarlo in faccia.
-Non puoi vivere dietro a uno specchio di bugie, di finzioni, di speranze. Jake, dannazione, lo vuoi capire che l’esistenza di un essere umano non è costruita su fumo ma su solide basi di cemento armato? Tu ami Jasper, è palese, lo vuoi come io voglio Jimmie, e su ciò niente da rimproverarti. Ma devi ficcarti in testa che lui non è altro che nebbia, ballerina, instabile. Che certezze hai su di lui?
Jake spalancò gli occhi, sentendo affiorare un leggero magone, costretto a seguire quel doloroso discorso dall’amico, discorso che più volte aveva deciso di evitare a se stesso, per non pensare, per non farsi problemi. Quel discorso che era anche il suo incubo che lo distruggeva ogni notte, e che cancellava nei baci di Jasper. Quell’incubo che affiorava sempre, dietro a ogni sua risata, lacrima, boccata di fumo. Incubo che lo perseguitava.
-Io … - la voce cominciò a tremargli, incontrollata.
-Nessuna, Jake. Chi ti ha detto che lui ti ami? Non lo sai, ci scommetto che non ti ha mai detto “ti amo”, che non ti ha mai giurato amore eterno o roba simile. Lo so che sono idiozie queste che ti ho detto, ma costruiscono almeno un po’ le fondamenta di una vita. Hai una piccola certezza su cui cominciare a costruire la casa. Jasper non è altro che polvere, nuvole, acqua asciutta di un vecchio fiume dimenticato. Non può darti altro che sogni, illusioni, inganni che lui è così bravo a renderli veritieri. Anche io non posso pensare alla mia infanzia senza di lui, sarei perso ora. Ma tu hai superato il limite; provi il sentimento più distruttivo che c’è per lui. E questo non sarebbe un male, lo ripeto, se non fosse che lui è quello che è. Jasper uccide, Jake. È già morto.
-Non dirlo nemmeno per scherzo, Ash.
-Non mi capisci. Voglio dire che lui è perso, e ti porterà con lui nel suo labirinto, nel centro, nel cuore, e poi ti lascerà lì. Non è capace di amare, Jake, anche questo è palese. Per lui io non so cosa tu rappresenti, ma sono certo che prima o poi ti spezzerà il cuore, ti distruggerà senza nemmeno rendersene conto. Jasper è distruzione allo stato puro, non possiamo farci nulla. Renditene conto ora, prima che sia troppo tardi.
-Tu non sai niente!
Jake lo spinse via con le lacrime agli occhi, preso a botte dalle parole taglienti di Ash. Lo sapeva che aveva ragione, aveva dannatamente ragione, perché quel discorso anche lui se lo faceva spesso e volentieri. Ma cercava sempre di trovare una via di fuga tutto ciò, di non affrontare l’argomento, di passare oltre, di seppellire nel suo cervello le cose brutte come quella.
-Io non saprò niente, ma voglio solo aiutarti in qualità di amico. Pensaci, Jake.
Ash lo guardò tristemente, aspirò del fumo e gli voltò le spalle, avviandosi mollemente per strada, dietro agli altri, lasciando solo con il suo dolore, con le sue lacrime brucianti, con la sua sigaretta che si consumava come la sua vita, con il suo cuore amaro, con la consapevolezza, con la voglia di avere Jasper lì, che lo stringeva tra le braccia e gli diceva che andava tutto bene, che sarebbero stati per sempre insieme. Ma sapeva che non era vero. Jasper non gli aveva mai detto che sarebbe andato tutto bene, e nemmeno che sarebbero stati assieme per sempre. Niente di simile, di false speranze uscivano dalle sue labbra sottili e quella voce soffocata e melodica non diceva nulla di solare. Solo nebbia nel suo cervello, nei suoi occhi.
“C’è solo un modo per capire se si è vivi, morti, o nessuno dei due. E questo modo è constatare se c’è un motivo per cui vivere, e uno per cui morire. Se non c’è, allora sei finito. E la fine è peggio della morte” gli aveva detto Jasper, dopo una lunga passeggiata lungo le rotaie.
Jake si concentrò. Voleva vivere per Jasper, morire per Jasper. Ma vivere e morire per una sigaretta finita erano un motivo valido oppure no?
 
  
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