Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: theprophetlemonade    31/08/2015    5 recensioni
Jean Kirschtein non sa esattamente perché ci sia bisogno di qualcuno per pulire la piscina, dato che nessuno sembra mai nuotarci dentro, ma, quando vede sua madre che proprio non riesce a smettere di fare gli occhi dolci al nuovo inserviente, Jean capisce che potrebbe non essere l’unica.
A quanto pare, cercare di instaurare una relazione con quel ragazzo della piscina coperto di lentiggini è più complicato di quanto sembra, se aggiungi una situazione familiare più che disastrosa, uno stronzo infedele come padre e un’esistenza seriamente solitaria.
Un’AU fluff e angst in egual misura, dove vedrete alcuni ragazzi che puliscono piscine, altri che fumano sui tetti, tanti problemi con i genitori e soprattutto Marco a petto nudo.
Genere: Angst, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt, Un po' tutti
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapter 10: Dreams

 

 

Sommario:

Chiunque trovi il tempo per essere gentile è bellissimo.

 

 

È strano come tutto inizi con i telefoni.

Credo sia piuttosto ironico, perché ogni volta che squilla il telefono di casa mi vengono i brividi; la possibilità che, ogni volta, ci sia una bionda svampita dall’altra parte della linea è un peso enorme nella mia testa. Credo che questo spieghi perché non rispondo mai al telefono quando Connie o Sash mi chiamano o mi mandano un messaggio. È una specie di abitudine che ho sviluppato nel corso degli ultimi anni … da quando è iniziata questa storia con mio padre. È solo che non mi piacciono i telefoni.

Allora quand’è, esattamente, che sono diventato praticamente incollato allo schermo del mio Samsung?

Sono sveglio, steso sul mio letto; l’insonnia di questa notte è fin troppo prevedibile, perché ogni volta che provo a chiudere gli occhi, la scena di oggi sul tetto si ripete nella mia testa più e più volte. E non mi soffermo nemmeno sulle parti importanti – tipo ciò che ha detto Marco, o ciò che io avrei dovuto dire – sto semplicemente ricordando il colore di quel cazzo di cielo sopra le nostre teste, o la sensazione del pacchetto di sigarette che mi premeva nella coscia ogni volta che la mia gamba si contorceva in uno spasmo nervoso, oppure il modo in cui l’orlo dei pantaloncini di Marco si spostava sulle sue gambe. Cioè, perché? Seriamente.

Mi giro su un fianco e fisso i contorni sfuocati della sveglia sul mio comodino con uno sguardo arrabbiato, provando a concentrarmi sul suo tic-tic-tic costante. Ci metto circa venti tic per realizzare che è solo terribilmente fastidiosa, cazzo. Sto letteralmente per afferrare il cuscino inutilizzato sul mio letto e metterlo sule orecchie – con la speranza, non so, di soffocarmi fino a farmi addormentare – quando l’oscurità tinta di arancione della mia stanza si illumina di una luce blu, accompagnata dalle vibrazioni sulla superficie di legno.

Cerco il telefono sul comodino a tentoni, gettando la sveglia e tante altre cose sul pavimento con un baccano che mi fa sussultare. Quando lo afferro, continua a fare bzzt nella mia mano mentre assottiglio lo sguardo per distinguere le parole scritte sullo schermo accecante.

Chiamata da Marco-Polo.

Il numero di volte in cui mi ha scritto messaggi a orari assurdi della notte prima d’ora non dovrebbe sorprendermi tanto. A quanto pare abbiamo entrambi degli orari terribilmente alterati. Non ci penso su un attimo prima di accettare la chiamata e premere il telefono tra il mio orecchio e il cuscino. Forse avrei dovuto. Considerando ciò che è successo oggi e tutto il resto. Non ho troppo tempo per rimuginarci, comunque, perché Marco non fa neanche una pausa per respirare quando si apre la comunicazione.

“Mi piacciono veramente tanto le canzoni dei Fleetwood Mac. Non me l’aspettavo, perché sono un po’ diverse da quello che ascolto di solito, ma mi piacciono davvero, davvero tanto. Davvero davvero,” mi parla nell’orecchio in tono enfatico. Non ha detto nemmeno pronto. Marco, cos’è successo?

“… Uh, ah s-sì?” Se potessi tradurre il flusso dei miei pensieri per iscritto in questo momento, non sarebbe altro che un rigo intero di punti interrogativi, letteralmente.

“Mhm. Credo che la mia preferita sia, uh… vediamo. Ecco. La numero ventuno,” dice, mentre ovviamente legge la lista delle tracce che ho scribacchiato malamente sul CD che gli ho regalato. “Dreams. Ecco il titolo. Questa mi piace tantissimo.”

“S-Stevie Nicks è brava, eh?” dico in una risata – be’, più che altro è una specie di grugnito rauco mezzo addormentato che probabilmente suona anche peggio dall’altra parte della linea – ma giuro che ho tutte le buone intenzioni. Il tono di Marco cambia in un istante, acquisendo una nota sospettosa.

“… Ti ho appena svegliato, vero?”

Rido di nuovo, e stavolta sembra un verso molto più umano. Marco emette una specie di verso di disprezzo per sé stesso.

“Non è un problema,” lo tranquillizzo. Davvero non c’è alcun problema. Gli ho detto io di chiamarmi. (Ecco, magari non alle due del mattino, ma mi ci posso abituare.) “Non mi ero ancora addormentato.” Non riuscivo ad addormentarmi, in realtà.

“Non pensavo fosse molto tardi,” afferma, e sento dei rumori dall’altra parte della linea mentre credo stia cercando qualcosa. Un orologio o qualcosa del genere, immagino. “Ah—oh, merda, Jean, avresti dovuto dirmelo. Sono le due passate!”

Credo sia la prima volta in assoluto in cui lo sento dire una parolaccia – così, autenticamente, e non per farmi il verso – e mi fa ridere ancora di più. Finisco per afferrare il secondo cuscino da dietro la mia spalla per utilizzarlo per cercare di attutire il rumore. Dio solo sa che aspetto ho in questo momento.

“Stai ridendo di me?” dice in un sussurro, strappandomi una risata nasale.

“Hai appena detto una parolaccia. Non ti avevo mai sentito dire parolacce prima d’ora,” sorrido, girandomi per stendermi sulla schiena sul mio materasso. Mi allargo a quattro di mazze, con una mano sullo stomaco e una spalla leggermente sollevata per tenere il telefono in equilibrio. “È innaturale,” aggiungo in tono canzonatorio. “Dev’essere arrivata la fine del mondo o qualcosa di simile.”

“È la tua cattiva influenza,” ribatte senza pensarci un attimo. Mh, probabilmente non posso dargli torto.

“Mi hai chiamato solo per insultarmi, Marco?” l’ampio sorriso che ho stampato in volto probabilmente rovina ogni tentativo di mantenere un tono severo.

“Ovviamente no,” piagnucola lui. Riesco praticamente a sentire la sua espressione imbronciata. “Uh…”

“Allora hai chiamato soltanto per parlare del CD?”

“No… uh, be’… sì,” ammette impacciatamente. “Scusami, so che prima ho detto che mi sarebbe piaciuto ascoltarlo insieme a te, ma… hmm, l’ho messo nel lettore CD appena sono tornato a casa dopo che ci siamo visti, ed è tutta la sera che lo sto ascoltando.”

Hmm. Sono io o inizia a fare caldo qui? No, è solo che mi sta facendo arrossire come un idiota un’altra volta. Sta diventando una brutta abitudine di Marco.

“Quindi mi hai rovinato il sonno solo per questo?” ridacchio, guadagnando un gemito di protesta da Marco. “Nah, tranquillo. Sto scherzando. Quel CD l’ho fatto per te.”

“E mi piace veramente tanto.”

“Sì, l’avevo capito.”

Il suo entusiasmo è fantastico, ma anche… piuttosto strano. Soprattutto messo a confronto con il Marco che sedeva affianco a me sul tetto circa dodici ore fa.

“… Come stai? Va tutto bene?”

“Huh? Uh, s-sì. Sto… bene,” balbetta e, sì, ho fatto saltare la sua copertura, ormai. Respiro profondamente, e deglutisco con aria determinata.

“Non è un problema se, ecco, se mi vuoi dire che mi stai chiamando per altre ragioni. Magari non solo per ringraziarmi per un CD. Tipo… hai capito.”

Come sei eloquente, Jean. Dovresti sapere che fai schifo con ogni forma di comunicazione. Parlare è troppo difficile per te, ricordalo. Hai le capacità oratorie di una patata con gli occhi.

“T-tipo cosa?” farfuglia Marco.

“Tipo: hai capito.”

N-non ho capito.”

Uh, non farmelo dire ad alta voce. Cristo santo.

“Be’, uh… se volevi, uh… chiamarmi per, uh…”

“Per sentirmi meglio?” finisce la frase per me.

“… Sì.” Ecco. Ho qualche speranza, no?

La linea è occupata dal silenzio, interrotto solo da altri rumori di fondo da parte di Marco. Anch’io mi muovo un po’, spostando il telefono sull’altra spalla. Le luci dei fanali delle automobili che si susseguono sulla strada passano tra le fessure delle mie tende e si distendono sul soffitto, allungandosi sempre di più, per poi affievolirsi improvvisamente, prima di scomparire evidentemente fuori dalla portata della mia finestra.

“Di solito ti contorci dall’imbarazzo se dico cose del genere, Jean,” medita Marco sommessamente – forse timidamente? “E mi prendi in giro perché sono troppo sdolcinato e cose così.”

“Come fai a sapere che non mi sto contorcendo dall’imbarazzo in questo momento, eh?”

“Ti conosco, Jean. Troppo bene, a quanto pare.” Accompagna quell’affermazione con una risatina fra sé e sé. Ma non nega il fatto che stia chiamando perché qualcuno lo consoli un po’. Perché io lo consoli. Si sta affidando a me per una cosa del genere.

“Huh,” sospiro. “Be’, credimi sulla parola, non sto facendo nessuna smorfia imbarazzata. In effetti, non sono mai stato così lontano dall’imbarazzo in tutta la mia vita. Sono impassibile, al cento percento. Sono praticamente Spock in questo momento.” Col cazzo. La mia faccia va a fuoco, e continuo a mordicchiarmi le labbra per bloccare questo stupidissimo sorriso che sta cercando di farsi strada.

“Il tuo sarcasmo dà del filo da torcere persino a Mina, sai?”

“Vorrei proprio vedere quanto ci sa fare. Aspetta … detta così sembra proprio una cosa brutta.”

“Oh mio Dio … Jean.”
 


 

C’è qualcosa di particolare nelle telefonate delle due del mattino. Ci si sente – o, perlomeno, io sento più o meno la stessa sensazione di quando sono ubriaco. Ci sono meno filtri. Solo che, invece dei singhiozzi, le parole sono interrotte dagli sbadigli.

Inizio a chiedermi cosa stia facendo Marco – oltre a parlare con me, ovviamente – ad esempio, in che punto della casa si trova? È nella sua stanza? Com’è la sua stanza? È rimasto  steso sul letto al buio come me, ad ascoltare il CD per la maggior parte della serata? Mi rendo conto del fatto che ci sono tantissime cose che non so. Stringo un patto con me stesso, mentalmente, per iniziare a conoscere tutte queste piccole, banali abitudini.

Parliamo di musica per un po’ di tempo. Mi parla delle altre tracce che gli sono piaciute nel CD, principalmente per i testi. Ecco una cosa che gli piace. Le parole. Non è come me; io ho bisogno soltanto di un bell’assolo di chitarra e sono a posto.

Mi consiglia di ascoltare qualcosa che piace a lui ogni tanto (anche se ammette che i miei gusti sono nettamente superiori). Dopo un po’, però, dalla sua bocca escono più sbadigli che parole.

“Dai, vai a letto,” dico con un tono inflessibile. “Sei stanchissimo, è palese.”

“Non sono—” sbadiglia sonoramente. “— stanco.”

“Oh, sì che lo sei. Non sai proprio mentire.”

“Gli sbadigli non aiutano, eh?”

“Neanche un po’,” lo canzono.

C’è un momento di silenzio – uno di quei silenzi colmi di pensieri – prima che Marco parli nuovamente.

“Stai andando a letto anche tu?”

“Sì, penso di sì.” Potrei riuscire finalmente a prendere sonno, adesso. C’è qualche speranza. Marco emette un verso di assenso. “Ehi, Marco, domani hai da fare?”

“Devo lavorare,” ammonisce lui. “Scusa, Jean.”

“Che ne dici di martedì?”

“Lavoro, di nuovo.”

“Anche di sera?”

Ridacchia delle scuse affettuose nel mio orecchio. I peli sulle mie braccia sembrano rizzarsi, perché la sua voce sembra improvvisamente così vicina.

“Devo fare dei turni extra al bar dove lavoro,” mi dice in un sospiro. “E devo coprire alcuni degli appuntamenti di Levi questa settimana, per sdebitarmi per i giorni liberi che ho preso. Ho bisogno di soldi, ora più che mai.”

Tendo a dimenticare, a volte, che fa ben due lavori e che per lui i soldi che guadagna sono una necessità e non un lusso. Quello è un mio privilegio. Le mie cose, la mia auto, la mia casa certe volte devono sembrargli così ridicole. Lui si spacca il culo per arrivare alla fine del mese, e mio padre cosa fa per la sua vita piena di comodità? Fa un numero indefinito di viaggi di lavoro, a quanto pare.

Non riesco a vedere molto al buio, a parte alcune forme indistinte illuminate dalla luce soffusa semi-arancione proveniente dai lampioni al di là delle mie tende. Riesco a stento a individuare i riflessi tenui sulla TV che mio padre mi ha portato l’altro giorno, per rimpiazzare quella che avevo prima. In quel momento non ho battuto ciglio. Nella mia testa era un modo per compensare l’ansia che mi ha messo addosso per gli esami. Ma adesso mi sento in colpa anche solo a guardarla. Non ne avevo bisogno.

“Giovedì, Jean. Te lo prometto,” dice Marco, insinuandosi tra i miei pensieri. “Ho solo due appuntamenti, e il tuo è l’ultimo. Quindi posso rimanere per un po’ più di tempo… se per te va bene, ovviamente.”

Ovvio che va bene, stupido.
 


 

Papà torna a casa lunedì pomeriggio. È piuttosto inusuale vederlo durante la settimana ultimamente, ma è tornato soltanto per fare le valigie per il prossimo viaggio.

Lo incontro in cucina, dove è intento a parlare con la domestica del suo lavaggio a secco. (Improvvisamente non ho più voglia di Coca-Cola, e prendo in considerazione l’idea di indietreggiare silenziosamente fino a uscire dalla stanza e salire nuovamente le scale.)

“Jean,” mi chiama, ostacolando il mio mesto piano di fuga. Mi fa segno con una mano, ma non si degna nemmeno di guardare nella mia direzione. Questa cosa mi irrita, per qualche motivo. “Volevo parlarti prima di partire.”

Non ho scambiato una parola con lui dall’incidente della settimana scorsa a cena. Evitarlo era diventata la mia priorità (proprio come per lui è una priorità evitare la sua famiglia). Non provo neanche a nascondere l’espressione accigliata che troneggia sul mio volto mentre prendo in considerazione l’idea di darmela a gambe; ma, in qualche modo, mi convinco ad attraversare la cucina nella sua direzione. La nostra domestica è abbastanza terrorizzata dalla mia espressione – o forse sa che è meglio non immischiarsi nelle conversazioni tra me e mio padre – da precipitarsi nella lavanderia dove, a quanto vedo, cerca di tenersi impegnata svuotando la lavatrice.

Mi fermo dall’altro lato del bancone da cucina rispetto a mio padre, e cerco di ostentare nonchalance cercando un bicchiere in uno degli armadietti che sovrastano il forno. Mi fa sentire alto. Più alto di lui. È questo l’importante.

“Che c’è?” domando bruscamente, per fargli capire che non sono contento di… qualsiasi cosa voglia dirmi. Si acciglia, i suoi occhi piccoli e brillanti scompaiono sotto le sopracciglia folte.

“Quando escono i risultati degli esami?”

Faccio spallucce, e ispeziono l’interno del bicchiere che ho scelto in cerca di sporcizia. Sembra abbastanza pulito.

“Un paio di settimane,” rispondo. “Perché?”

Incrocia le braccia sul petto ampio e sulla pancia sporgente.

“Voglio assicurarmi di essere qui per quel periodo,” ribatte. Rimango interdetto per circa un millisecondo, prima di tornare con i piedi per terra con uno sguardo alla sua espressione. E pensare che ho creduto per un istante che potesse essere interessato a suo figlio per il bene di suoi figlio stesso. E invece no. Gli interessano solo i numeri e le lettere. I voti.

“Dobbiamo assicurarci che tu faccia una scelta saggia quando dovrai selezionare i corsi del prossimo anno.”

“Quel noi non mi sembra appropriato.” Non riesco a credere di aver mai permesso che ci fosse un noi.

Jean.”

“Che c’è?”

“Non affronteremo un’altra volta questa discussione.” Questa non è una discussione. È un litigio. “Mi assicurerò che tu faccia la scelta giusta per il tuo futuro. Non ti lascerò mandare all’aria la tua carriera.”

A quel punto abbassa lo sguardo sul suo orologio da polso – il suo stupido orologio da tredicimila dollari – e a quanto pare questo significa che è troppo impegnato per portare avanti questa conversazione adesso. Non posso che pensare, dato il modo in cui l’espressione il tuo futuro si è destreggiata sulla sua lingua piena di inganni, di essere in uno di quei film da femminucce. Io dovrei essere l’eroe, che finalmente si volta verso suo padre e dice qualcosa del tipo: non è il mio sogno quello che sto mandando all’aria, è il tuo, per poi scappare di corsa, lasciando suo padre troppo scioccato per poter dire qualcosa. Riesco praticamente a vedere quella scena nella mia testa.

Ovviamente, non accadrà mai una cosa simile.

“Un’auto mi sta aspettando fuori,” mi informa in tono severo. “Quando torno, mi aspetto che tu abbia riconsiderato le tue priorità, Jean. Lo spero davvero.”

Raccoglie entrambe le borse da sopra al bancone, e se ne va. Quando il rumore della porta principale che sbatte raggiunge le mie orecchie, mi accorgo di aver stretto entrambe le mani attorno al bordo del bancone di fronte a me, fino a far diventare le mie nocche bianche come il gesso. Cazzo.

Non so come facessi a sopportarlo prima. Forse ho solo raggiunto il limite che era già nascosto da qualche parte dentro di me, e le sue cazzate sono diventate veramente troppe perché io le possa sopportare. Il pensiero di essere incatenato a un computer per tutto il giorno, in prigioni di vetro e pavimenti in cemento, dalle nove del mattino fino alle cinque del pomeriggio … merda, come ho fatto a non dire niente prima d’ora? Perché, a quanto so adesso, non c’è niente che possa odiare di più dell’idea di lavorare per la sua compagnia.

Non è quello che voglio. Non voglio essere un robot nell’ufficio di un’azienda. Non voglio essere quell’uomo che risorge solo per fare qualche viaggio di lavoro per scappare da un matrimonio privo d’amore. Non voglio diventare come lui.

Spero che questo sia il viaggio da cui non farà ritorno. Su, fai pure. Scappa con la tua ventenne inutile al tuo fianco. E vedi se me ne frega qualcosa. (Non me ne fregherebbe nulla.)
 


 

Sono le due del mattino quando mi viene voglia di mandare un messaggio a Marco, invece di stare qui a scoraggiarmi per i miei problemi. Credo che le due di notte siano un mondo tutto nostro, ormai. So che è ancora sveglio (e, anche se non lo fosse, immagino che sia il tipo di persona che dorme con il telefono vicino all’orecchio).

A: Marco-Polo
ti è mai venuta voglia di rannicchiarti da qualche parte e non pensare mai più al futuro

Da: Marco-Polo
Sempre.
 


 

È mercoledì, credo. Forse? Sì, è mercoledì.

Tip-tip-tip. Tip-tip-tip.

Sussulto dietro le palpebre chiuse, e rotolo sul letto per spostarmi fuori dalla portata del raggio di sole che mi colpisce dritto in faccia. Devo imparare a chiudere bene le tende ogni sera. Premo il naso nel cuscino ed emetto un brontolio mentre mi sgranchisco le spalle con un rumore soddisfacente.

Tip-tip-tip.

Le lunghe dormite come questa sono fantastiche (e ne avevo decisamente bisogno). Lunedì ho dormito fino alle due (e sarei dovuto rimanere a letto più a lungo, per evitare mio padre), e martedì fino alle dodici (solo perché mia madre ha insistito dicendo che sarebbe stato, cito testualmente, osceno dormire fino al pomeriggio per due giorni di fila). Il mio letto è così comodo. Non può capire. Ho faticato per tutto l’anno con il solo scopo di dormire tutto il giorno senza essere disturbato dal senso di colpa. Soffoco un mmmph soddisfatto nel cuscino, e rigiro i piedi nel mio nido di coperte.

Tip-tip-tip.

Cos’è quel rumore? Sembra quasi come se qualcuno stia bussando alla porta. Non può essere già così tardi. Potrei decisamente dormire per… qualche ora in più…

Tip-tip-tip.

No, aspetta. Il rumore non proviene dalla direzione della porta. Viene dalla… finestra? Apro un occhio con aria riluttante, mentre l’altro è ancora pigramente spiaccicato sul cuscino. La mia stanza è grigia, salvo quell’unico raggio di sole. Qualcuno sta proprio picchiettando sulla mia finestra.

Dannatissimi uccelli. Non sanno che sono in vacanza?

Mi sollevo, con le braccia che crollano sotto al peso del mio corpo (perché, probabilmente, stare svegli fino alle tre di notte per giocare all’Xbox a volte non è l’idea migliore del mondo). Tutto mi sembra pesante, annebbiato, e abbastanza confuso. Getto via le coperte e porto le gambe sul bordo del letto; il pavimento di legno si incolla alle piante dei miei piedi. Un’altra giornata caldissima. Che felicità.

Tip-tip-tip.

Mi strofino gli occhi con aria assonnata e sistemo l’orlo della maglietta che ho sollevato mentre dormivo. Le assi del pavimento scricchiolano sotto al mio peso mentre cammino lentamente nella mia stanza, evitando per miracolo di sbattere nuovamente le dita sulle mie pile disordinate di libri dell’università. Non so esattamente come, dato che il mio cervello è ancora decisamente addormentato, e la luce accecante che mi colpisce in viso rende tutto ancora più annebbiato.

Piego la testa per guardare sotto le tende, mantenendo il tessuto soffice su una spalla, e assottiglio lo sguardo. Non ci sono uccelli. Ma c’è qualcosa – qualcuno – di molto meglio.

È proprio strano che io riesca a dormire così bene da quella telefonata di domenica sera, eh?

Sollevo la finestra, che mi sembra molto più pesante di quanto ricordassi. Marco mi saluta dal cortile sotto di me con un enorme sorriso, appoggiato al suo retino nel bel mezzo del prato.

“Buon giorno, bella addormentata,” sorride. “Immaginavo stessi dormendo.”

Huh?

Mi strofino gli occhi con più decisione, provando a scacciare ogni traccia di foschia dalla mia testa. Merda. Già, è mercoledì. Nonostante tutto, sono riuscito a dormire. Wow.

“Mmm, che ore sono?”

“Le dodici passate,” risponde Marco in una risata. A volte mi chiedo sinceramente cosa lo renda così allegro sin dal mattino. Non che sia ancora mattina, tecnicamente. Ma avete capito che intendo.

“Stavi lanciando qualcosa sulla mia finestra?”

Porta le mani in alto e mi guarda con un’espressione piuttosto imbarazzata.

“Qualche sassolino. Scusami,” ammette. “Stavi veramente dormendo, eh?”

Dannazione, in quale film anni ottanta mi sono appena svegliato? Non sapevo che John Hughes fosse il regista della mai vita. Batto le palpebre con aria risoluta, e provo ad assottigliare ancora di più lo sguardo. Niente da fare. Quello è proprio Marco, e non John Cusack con uno stereo portatile.

“Mh-già,” mormoro, appoggiando il mio peso sul davanzale della finestra. Rischio seriamente di riaddormentarmi, ma mi risollevo immediatamente prima di cadere con il culo a terra. “Huh! Merda, cioè… ah, giusto! Scendo subito! Aspetta.”

“Certo,” risponde Marco. Il suo sorriso è affettuoso, ma in esso c’è qualcosa che definirei fragile. Ancora. Meglio questo piuttosto che non sorridere affatto, giusto?

Lascio cadere nuovamente la tenda sulla mia testa, e pesco un paio di jeans tra quelli buttati sul pavimento della mia stanza. Già, sono leggermente sudici. Li lancio nel cesto della biancheria, e provo con un altro paio di jeans abbandonati, premendoli contro il naso. Hmm, no. Non vanno bene. Ripeto quest’operazione con circa sei paia di pantaloni e quattro magliette che ho appeso senza troppe cerimonie nel mio pavimentarmadio (come lo chiamerebbe mia madre). Provo con l’armadio vero e proprio – perché so che almeno la mia maglietta dei Ramones è sicuramente pulita e pronta per essere indossata.

Mi sfilo la maglietta che uso come pigiama; mi fa abbastanza schifo il modo in cui si sta già incollando alla mia pelle, e sono in piedi da, quanto, cinque minuti al massimo? L’estate è perfetta per dormire e cose così, certo, ma mi sono decisamente stancato di questo tempo, al cento per cento. E mi aspettano almeno altri tre mesi di quest’inferno sudaticcio.

Per errore noto il mio riflesso nello specchio mentre infilo la maglia dei Ramones sulla testa. Wow, qualcuno (sto guardando te, Marco) avrebbe potuto dirmi che i miei capelli arruffati sono uno spettacolo da guardare. È una guerra di ciuffi ribelli, stamattina. Mi lecco le dita e provo ad allisciare alcune delle ciocche peggiori, ma… non ottengo molto.

Le occhiaie danno un tocco in più, devo ammetterlo.

Dopo aver trovato un paio di pantaloni quasi sicuramente puliti (e non rimessi nell’armadio dalla mia versione pigra del passato), barcollo fino al piano di sotto, e mi accorgo di non essere ancora interamente in grado di controllare le mie stesse gambe, quando rischio di saltare completamente l’unico scalino. Continuo a cercare di appiattire la massa di capelli che ormai sembra avere vita propria, ma non ho alcuna speranza di vincere questa battaglia. Mi arrendo mentre entro in cucina in scivolata.

Marco è appoggiato a una delle sedie fuori nel patio, sta giocherellando con le guarnizioni del retino, ma alza lo sguardo su di me non appena nota la mia presenza, e si fa avanti per salutarmi quando apro la porta sul retro con una spinta. Ugh. Luce solare. La mia nemesi.

“Sembri ancora mezzo addormentato,” ridacchia lui, e io emetto una specie di… grugnito in risposta. “A che ora sei andato a dormire ieri sera?”

“Non so,” biascico, strofinandomi con forza le guance e la pelle sotto gli occhi, per provare a scacciare questo senso di confusione. “Intorno alle quattro, forse?”

Le quattro,” ripete Marco, scuotendo la testa con un’aria quasi disperata. Si volta per camminare nuovamente verso la piscina, ma non me la sento tanto di seguirlo. Se ne accorge abbastanza velocemente. “Va tutto bene, Jean?”

“Uh, s-sì,” rispondo, stringendo le dita di una mano nell’altra in un gesto imbarazzato. “È solo che, uh, sai… la piscina… e, uh…” è difficile perché, senza il pretesto dello studio, la mia solita abitudine di sedermi sui gradini del capanno della piscina sembra molto più vicina al bordo della piscina di quanto non sembrasse prima. Aggiungeteci anche il fatto che non sono arrivato a meno di due metri di distanza dalla piscina da… be’, da quella volta.

“Oh,” dice Marco, con la bocca aperta a forma di “o”. Credo che gli fosse sfuggito di mente; non posso fargliene una colpa, a essere onesti, perché sono sicuro che in questo periodo abbia cose molto più importanti a cui pensare. “Perché non ti siedi sui gradini del capanno della piscina? Non è troppo vicino, no?”

Apro la bocca per parlare, ma la chiudo altrettanto rapidamente, mordendomi il labbro inferiore. Cristo santo. Lo fa sembrare facile come dovrebbe essere. Mentre io lo faccio sembrare un gesto patetico com’è effettivamente.

Ovviamente so che è una cosa stupida. E che la mia reazione è esagerata. Seriamente, come potrebbe succedere anche lontanamente qualcosa di male, se mi sedessi lì come facevo normalmente? È vero: non può succedere nulla di male. Non succederà. Nessuno mi schizzerà. Nessuno mi spingerà in acqua. Tuttavia, questo non aiuta a placare la mia agitazione.

Marco muove un passo nella mia direzione, e mi sembra che stia pensando di porgermi una mano. (Non lo fa.) Si sforza di sorridere, ma è un sorriso triste, oppure falso, e non sono sicuro di riuscire a distinguere la differenza.

“Puoi farcela, Jean.”

Lo faccio. Non perché abbia improvvisamente trovato il coraggio di superare questa stupida paura. Vorrei tanto che fosse così. Lo faccio perché dargli un’altra preoccupazione a cui pensare non rientra nei miei piani.

Deglutisco rumorosamente e mi incammino verso il capanno della piscina. Provo a tenere le spalle dritte.

Il gradino più alto è leggermente in ombra, quindi il cemento non ha ancora raggiunto la temperatura degli inferi, perciò mi sembra la scelta più ovvia. Mi sposto all’indietro, finché le mie spalle non toccano i pannelli di legno.

Marco non sembra convinto. È esitante, mi fissa per un po’ di tempo, non intenzionato a mettersi a lavoro.

“Forse dovresti bere o mangiare qualcosa, Jean?” suggerisce. Scuoto la testa, assottigliando le labbra in una linea sottile. Mi si stanno già formando dei nodi nello stomaco.

Sospira attraverso il naso e si volta, calciando via le infradito prima di affondare il retino nella piscina. Lo fa vorticare nell’acqua descrivendo la forma di un otto, con le dita dei piedi piantate sul bordo di cemento. Mentre mi dà le spalle, la mia gamba destra pensa che sia un momento appropriato per iniziare a tremare visibilmente. Cioè, avete presente quel tremore nervoso che arriva ogni tanto con l’eccesso di zuccheri, o di caffeina, o cose del genere? È una sensazione simile. Solo che è dieci volte peggio, unita alla sensazione che qualcuno abbia versato del cemento a presa rapida in ogni vena che ho in corpo.

Non lasciare che la paura ti controlli. Dai, respira. Smettila di fare tanto casino per niente, cazzo. Non hai il diritto di essere spaventato. Respira.

Marco tira il retino fuori dalla piscina e pesca le due o tre foglie della siepe che è riuscito a catturare. Un attimo prima di immergerlo nuovamente nell’acqua, getta uno sguardo alle sue spalle; forse per dirmi qualcosa, forse solo per assicurarsi che io non sia svenuto su un fianco. La sua espressione cambia all’istante; il suo volto sembra aprirsi. Empatia? Simpatia? Per favore, non farmi sentire più patetico di quanto mi senta già.

Provo a costringermi a non tremare quando abbandona il retino sull’erba, e viene a inginocchiarsi di fronte a me sui gradini di cemento, cazzo!. Forse sto sognando. Forse questo è davvero un film degli anni ottanta.

Marco posa entrambe le mani sulle mie ginocchia, e mi guarda dritto negli occhi. Non so come faccia, ma riesce a sgombrare la sua espressione da ogni traccia di preoccupazione, e sembra così forte. Basta uno sguardo. Quanto vorrei riuscirci anch’io.

Le mie gambe tremano ancora sotto le sue mani e, cazzo, vorrei farle smettere, ma tutto quello che riesco a fare è far diventare bianche le mie nocche a furia di stringere le dita sul bordo del gradino su cui sono seduto. Non batto le palpebre. Non lo fa neanche lui.

“Jean,” mi dice in tono calmo. È bello sapere che uno di noi è calmo. Mi sento come un cerbiatto davanti ai fanali di un’auto. “Lo sai che è normale avere paura, vero?”

Deglutisco rumorosamente e annuisco, nonostante nella mia mente stia scuotendo violentemente la testa. Credo che Marco abbia una sorta di potere telepatico, perché non sembra convinto.

 “Avere paura è normale,” ripete. “Non odiarti per questo. Accettala, e superala. Ci vorrà del tempo, ma stai andando così bene. Non scomparirà immediatamente, ma non ti devi… buttare giù, va bene?”

Che tu sia dannato, Marco Bodt.

Vorrei raccontargli di come questa stupida fobia sia tutto ciò che conosco. Di come costruisce il mio mondo, mi imprigiona, mi insegna a mangiare, bere, respirare. Vorrei dirgli che la paura esiste semplicemente sotto ogni pensiero – perché non devo pensarci sempre, ma sono sempre conscio della sua presenza – e che devo controllarmi per le cose più stupide, come lavarmi le mani o radermi la mattina. So che, se mi schizzo involontariamente, devo bloccare tutto e concentrarmi solo sul mio respiro per cinque minuti. È sempre lì. È come quando sei in campeggio, e fa freddissimo, cazzo, quindi ti metti dei calzini più pesanti, oppure un altro maglione, ma non riesci mai a scaldarti. Il freddo – la paura – è penetrato nelle tue ossa.

“Ero serio quando ne abbiamo parlato qualche tempo fa. Ti aiuterò a superarla, Jean.”

Tamburella con le mani sulle mie ginocchia e inclina la testa. È ridicolo. Ma ridicolmente le mie gambe stanno smettendo di sussultare, lasciando spazio solo per un leggerissimo tremore. Persino io riesco a sentirlo a stento, adesso.

Dice queste cose – queste cose così altruiste, cazzo – perché pensa che mi facciano sentire meglio. In un certo senso: ovviamente ci riescono. Come potrei non sentirmi meglio quando mi fissa dritto negli occhi con un’espressione così onesta? Ma, allo stesso tempo… mi ricorda che non posso offrirgli alcun aiuto in cambio.

Si solleva, facendo leva sulle mie ginocchia, e mi dà un colpetto al piede con il suo. Alzo gli occhi al cielo e provo ad allestire un sorriso forzato. (Probabilmente sembra più una smorfia.)

Allora torna a pulire, ma continua a parlarmi – ovviamente, per evitare che mi metta a pensare ad altro – e non mi dà le spalle a meno che non sia strettamente necessario.

Non so dire esattamente di cosa parliamo: primo, perché sappiamo tutti qual è l’argomento di cui io vorrei discutere e, secondo, perché proprio quella cosa mi fa notare gli sguardi assorti, persi nel vuoto, che rivolge all’acqua quando la conversazione arriva a un punto fermo. Ci sta pensando. Al suo problema. Qualsiasi cosa esso sia.

Ma, prima che me ne accorga, siamo rimasti a parlare per ore.

“Marco,” dico. La mia voce vacilla leggermente, e non mi sopporto per questo. Respiro profondamente e mi calmo. Guardo lui, e non l’acqua, quando si gira a guardarmi con un’espressione interrogativa. “Dovremmo passare più tempo insieme. Prima di sabato.”

“Non voglio sembrare come un disco rotto, ma… sono impegnato,” mi rivolge un sorriso dispiaciuto. “Dico sul serio.” La sua espressione mi dice che probabilmente non si parla degli stessi impegni di prima; non è impegnato a lavorare, ma più che altro… ecco. A risolvere le sue cose. Da solo. Maledizione.

Sbuffo, ma non per la frustrazione per essere stato scaricato. Ovviamente non lo capisce.

“Hai altri amici che meritano il tuo tempo,” propone, “Sono certo che tu non abbia voglia di passare tutta l’estate con il tuo inserviente della piscina.”

Uhm. Sì che ne ho voglia. Quando sono con te posso essere me stesso. È importante.

“Ha,” lo canzono, “Li conosci Connie e Sasha? Riesco a trascorrere tipo… trenta minuti alla volta in loro compagnia prima di sentire il bisogno irrefrenabile di rifugiarmi sotto le coperte – o sotto un’automobile – per l’immediato futuro. Una delle due cose va bene.”

“Non sono poi così male,” ridacchia Marco, “A me sono sembrati abbastanza divertenti.”

“Ah-hah. Be’, ne parleremo dopo la festa di sabato, quando li vedrai combinati con l’alcol,” ribatto. “Comunque. Ti sbagli. Non, uh… non mi dispiacerebbe…”

“Cosa non ti dispiacerebbe?”

“… Passare tutta l’estate insieme a te.”

Vedo la sua espressione contorcersi in un: “oh” interiore. E poi diventa molto, molto rosso.

Marco è fortunato, perché è in quel momento che mamma – con il suo tempismo impeccabile come sempre – arriva a casa, e tronca sul nascere gli insulti che gli stavo per rivolgere.

“Marco!” canticchia. “Sei tornato!” Trotterella sull’erba nella nostra direzione, e Marco combatte a lungo per reprimere la gioia che trasuda dalla sua espressione. Sono sarcastico, ovviamente. Non posso farne a meno. Credo che la mia, di espressione, sia una via di mezzo tra la faccia di uno che ha appena ricevuto una pacca sul sedere, e Katniss Everdeen in quella scena nell’ascensore in Catching Fire. Avete capito di quale sto parlando.

“Salve, signora Kirschtein,” Marco le sorride amabilmente, “Come sta?”

Mamma ha i suoi occhiali da mosca sollevati sulla testa, e la sua borsa è ancora adagiata nell’incavo del gomito, quindi deduco che sia letteralmente appena tornata a casa. Nella mia testa, le rivolgo un’espressione truce e la rimprovero mentalmente per aver interrotto un… momento importante.

“Oh, io sto benissimo, dolcezza,” mia madre è praticamente spumeggiante. “Sono così contenta che tu sia tornato. Ci sei mancato!”

Intendi effettivamente Marco, oppure semplicemente qualcuno su cui fantasticare, mamma?

“Mi dispiace di non avervi avvisati prima,” si scusa Marco, posando brevemente il suo sguardo su di me a metà della frase. Non deve scusarsi. Non ce n’è bisogno. Il suo problema era più importante della mia depressione. “Ho avuto dei problemi in famiglia senza preavviso, e ho dovuto prendermi dei giorni liberi d’emergenza.”

“Tesoro, non preoccuparti,” lo rassicura mia madre, con una pacca affettuosa sul bicipite. È difficile capire se abbia un secondo fine con quel gesto. (Se sia a caccia o meno.) “Succede a tutti, non ti devi scusare. Be’…” A quel punto sposta lo sguardo su di me, e io inarco un sopracciglio in aria d’attesa. “Ecco, forse dovresti scusarti con Jean. Non l’ho mai visto avvilirsi così tanto in giro per casa.”

“Mamma!”

Ovviamente decide di continuare, cazzo.

Completamente dipendente dal telefono,” continua, senza mollare la presa su Marco. Lui non sembra troppo a disagio, perché è concentrato su di me, mentre mi contorco dall’imbarazzo. “È stato incollato al cellulare per giorni. Non riuscivo proprio a farglielo lasciare, neanche a cena.”

“Oh, davvero?” Marco. Marco, no. Dai. Non incoraggiarla.

“Sono contenta che abbia smesso di sentirsi messo da parte,” cinguetta mamma. Muove la sua mano libera per scompigliarmi i capelli, ma mi sporgo più indietro per quanto mi sia fisicamente possibile per uscire fuori dalla sua portata. No. Emette un lieve tsk dalle labbra di colore rosso acceso. “Speravo avesse superato questa fase adolescenziale.”

Mamma!”

“Sai, Marco, mi ricorda quella volta in cui aveva, quanto?, dodici o tredici anni, credo, e si rifiutava di—”

“Mamma, basta così! Sono certo di aver sofferto abbastanza dall’imbarazzo, potrebbe bastarmi per il resto della mia vita, quindi per favore… ti prego, smettila.”

Mamma ride e torna a focalizzare la sua attenzione su Lentiggini.

“Vedi cosa intendo? È così lunatico! A proposito di lunatici…”

Inizia a parlare rapidamente delle sue interazioni con il collega di Marco – quel tipo, Levi – lamentandosi della sua maleducazione e, di nuovo, dicendogli di quanto è contenta di avere nuovamente Marco al posto di “un ometto così terribile con un’espressione così arrabbiata”.

Marco mi rivolge la solita faccia da aiutami a sfuggire dalle grinfie di tua madre ma, ehi, sai una cosa? Non questa volta. Eh no. L’hai incoraggiata, Marco. Quindi penso che questa sia la punizione che meriti. È solo colpa tua.
 


 

Nei giorni successivi, mi ritrovo a –ecco, quando non dormo in ogni momento utile – a riempire i miei album da disegno. Era da un po’ di tempo che non mi sentivo abbastanza motivato da prendere in mano una matita e cose del genere, ma è diventato un buon modo per passare il tempo.

Adesso mi è più facile disegnare Marco. Non che prima non fosse facile, certo, ma mi sembra di conoscere il modo in cui si muove, quindi traccio le linee sul foglio quasi istintivamente. Soffro un po’ al solo pensiero della sua espressione dell’altro giorno sul tetto, ma sento il bisogno di imprimerla su carta dalla mia memoria, per essere certo di non dimenticarmene. È assurdo come uno schizzo di Marco triste sia il disegno più realistico che abbia mai fatto.

Entro venerdì ho riempito ogni centimetro vuoto in ogni sketchbook che riesco a trovare nascosto nella mia stanza. Sfoglio le pagine sporche di grafite, e mi sorprendo nel notare da quanto tempo disegno solo e soltanto Marco. Sono passati mesi dall’ultimo disegno di Mikasa e, riguardando quello, e guardando ciò che sto disegnando adesso… be’, mi imbarazzo per aver anche solo pensato di mostrare a qualcuno questi disegni vecchissimi. (Mi imbarazza ancora di più il fatto che Marco li abbia visti tutti, una di quelle prime volte in cui entrò in casa.)

Tuttavia, c’è uno schizzo che mi piace davvero tanto. Occupa una pagina intera (non ho riempito gli spazi bianchi con piccoli primi piani e cose così); ho disegnato Marco, appoggiato al cofano del suo furgone, quella volta in cui è venuto a trovarmi dopo l’esame di chimica. L’ho disegnato quella sera stessa, quando sono tornato a casa, perché c’era qualcosa nel suo volto preoccupato rivolto a qualsiasi cosa stesse leggendo sul telefono che mi è rimasto impresso.

Di solito non faccio disegni a figura intera – principalmente perché io e i piedi non siamo esattamente in buoni rapporti – ma questa è un’eccezione. Le linee sono armoniose, e non rozzamente accennate. Pare che io sia riuscito a cogliere un po’ dell’essenza del vero Marco, e ne vado abbastanza fiero. Servirebbe un po’ di colore, però. Forse dovrei…?

Non ci vuole molto perché io finisca a gambe incrociate su quel poco di pavimento libero della mia stanza, passando al setaccio con aria decisa tutta la robaccia che ho accumulato durante gli anni sotto al mio letto, perché da qualche parte, nascoste sotto la pista di macchinine che mi regalarono a dieci anni, e sotto questo calzino sporco e spaiato, so di avere dei colori acrilici.

Dopo tre scarpe da ginnastica spaiate, le mie dita si piegano su una custodia di plastica, e – bingo!

La custodia è incrostata di pittura ormai secca, quindi devo faticare per aprirla e, quando finalmente cede, i tubetti di colore volano dappertutto. Ugh.

Dipingere è molto più difficile di quanto ricordassi. Non è di alcun aiuto il fatto che la pittura sia così vecchia, e fa quello che fanno tutti i colori vecchi, riempiendo il foglio di macchie grumose e striate, e alimentando progressivamente la mia rabbia.
 


 

Da: Marco-Polo
Ehi! Volevo chiederti se c’è bisogno che porti qualcosa per domani? Devo portare un sacco a pelo? Del cibo? Qualcosa da bere?

Uno dei pennelli con cui sto dipingendo sta per rotolare giù dalla scrivania quando faccio un balzo per salvarlo, notando l’icona di un nuovo messaggio nell’angolo dello schermo del mio telefono. Sono le sette passate. Ops. Non ho proprio sentito l’arrivo di un messaggio. Tutto d’un tratto sono passate sei ore e sto ancora dipingendo. Quand’è successo?

A: Marco-Polo
scusa se non ho risposto stavo dipingendo

A: Marco-Polo
comunque non devi portare niente

Da: Marco-Polo
Cosa stai dipingendo? :D

La mia sedia da scrivania scricchiola rumorosamente quando mi sporgo all’indietro, stiracchiando le braccia sulla testa con uno schiocco soddisfacente. Ispeziono il lavoro che ho fatto finora. Non… non è male, credo, per essere il mio primo tentativo con questo stupido metodo di colorazione per fare esattamente quello che avrei potuto ottenere con le matite.

Valuto quanto suonerebbe omoerotico se rispondessi alla domanda di Marco: te, ovviamente. Probabilmente se lo facessi attraverserei decisamente il limite del disagio.

A: Marco-Polo
mi sto solo esercitando con i colori

A: Marco-Polo
è MOLTO difficile

Una notifica di Skype lampeggia nell’angolo in alto dello schermo del mio portatile, e minimizzo la finestra di Facebook che tengo sempre aperta per aprire una nuova chat.

Robodt:
>> Posso vedere? :D

KirschFINE:
>> posso accendere la webcam
>> se vuoi

Robodt:
>> Davvero? Mi farebbe piacere! :o

KirschFINE:
>> okay
>> però niente chiamata perché sarà super imbarazzante quando vedrai cosa sto disegnando

Robodt:
>> Non è pornografico, no? Perché mia sorella è qui in casa da qualche parte.

KirschFINE:
>> no
>> cristo santo marco

Mi sistemo rapidamente i capelli, perché, come al solito, oggi non li ho pettinati e, a giudicare dal riflesso sullo schermo, un uccello potrebbe averci fatto il nido.

KirschFINE:
>> ok ecco qui
>> non ridere
>> e niente commenti sdolcinati

O altro, penso. Premo il pulsante per la videochiamata, controllando due – anzi, tre – volte che il microfono sia spento e aspetto che Marco accetti, con una smorfia imbarazzata. Ecco qui, Marco, ti presento… Marco. Appare sul mio schermo, con una t-shirt a tinta unita e un asciugamano attorno al collo, e i capelli intrisi di goccioline d’acqua. Indietreggio e, distogliendo lo sguardo dalla webcam, reggo l’album da disegno per farlo entrare nell’inquadratura. Non guardo l’espressione di Marco, mentre noto il rettangolo arancione lampeggiare nuovamente nell’angolo dello schermo, e lo fisso con aria incredula e le guance che vanno a fuoco.

Robodt:
>> Jean! È veramente bellissimo! :D
>> (Posso dirlo della mia stessa faccia?)

Sei perdonato, rifletto, mentre metto subito giù l’album, sentendomi leggermente rincuorato. Mi concedo un breve sguardo al suo viso, e lo vedo sprizzare gioia da tutti i pori, con le lentiggini che si stagliano sulle sue guance come tante piccole stelle. Non posso negare il sentimento di orgoglio che va espandendosi nel mio petto, ma trattengo il sorriso che minaccia di prendere posto sulla mia faccia, concentrandomi invece ostinatamente sulla scelta dei pennelli più appropriati. Continuano a spuntare sullo schermo messaggi di Marco, quindi do loro uno sguardo distratto quando compaiono, fra una pennellata e l’altra.

Robodt:
>> Tu e Mina avete tante cose in comune, sai? Anche a lei piace molto disegnare!
>> Sono sicuro che se sapessi disegnare le starei molto più simpatico hahaha :D
>> Purtroppo sono un fratello maggiore terribile senza un briciolo di talento artistico.
>> Ehi Jean, sei sicuro che non ti posso chiamare? D:
>> Vorrei parlare con te mentre disegni!

Finisco di stendere i punti di luce sull’auto dove il mio Marco disegnato è appoggiato, prima di decidermi a rispondere almeno all’ultimo messaggio. La sua espressione in webcam è supplicante, e si sta mordendo il labbro, speranzoso. Gli rivolgo uno sguardo truce e scuoto la testa.

KirschFINE:
>> no
>> cioè
>> ti sto disegnando, non voglio parlare con te contemporaneamente perché …..
>> beh è già abbastanza imbarazzante così ok?

Robodt:
>> Perché sei in imbarazzo? D: è un dipinto bellissimo da quel che ho visto finora!

Non riuscirò mai a finire questa roba se continua a distrarmi così. Be’, in parte è anche colpa mia, probabilmente. Mi lascio distrarre continuamente.

La barra della chiamata di Skype appare al centro del mio schermo, insieme all’orribile suoneria. Aggrotto le sopracciglia e clicco il pulsante rosso per rifiutare la chiamata con aria di sfida.

Robodt:
>> D:

KirschFINE:
>> no

Robodt:
>> E se ti supplicassi in ginocchio?

Ah… oh. Per favore, qualcuno mi butti in piscina adesso, perché l’immagine mentale che è appena comparsa nella mia testa non è neanche lontanamente adatta ai minori di tredici anni. Oh Dio. Perché ho appena pensato a una cosa del genere? Marco… in ginocchioimplorante… alzo stupidamente lo sguardo… e ha messo il broncio. Sporgendo il labbro inferiore.

Pensieri etero, solo pensieri etero.

Potrei decisamente vincere un premio per la mia capacità di sentirmi costantemente sopraffatto. È per questo che non attivo il microfono, Marco. Perché a quanto pare non ho un minimo di controllo su questi cazzo di incontrollabili pensieri gay, Cristo santo. Il verso strozzato che mi lascio scappare è assolutamente vergognoso, e affondo la testa tra le mani.

KirschFINE:
>> preferirei che non lo facessi

Sento bussare delicatamente sulla porta della mia stanza, il rumore è sufficiente a distogliermi dal mio vortice di pensieri inappropriati; mi giro sulla sedia quando mamma scivola sull’uscio della porta.

“Ciao, tesoro,” mi sorride, e a quanto pare nota il modo in cui sono aggrappato ai bordi della sedia come se la mia fottutissima vita dipendesse da essa. “Sto per partire, quindi ho pensato di controllare—” Il suo sguardo supera la mia spalla per posarsi sullo schermo del mio portatile, e poi sul set di acrilici e album da disegno sparsi sulla mia scrivania, e si blocca a metà frase. È abbastanza per costringermi ad agire, mi sporgo immediatamente all’indietro e chiudo il computer probabilmente con molta più forza di quanto sarebbe consigliato, e provo a coprire il dipinto con tutti i fogli di carta che riesco a reperire nei dintorni.

Merda. Cazzo.

“Cosa stavi facendo, tesoro?”

“Niente,” ribatto bruscamente, fissando le mattonelle ai suoi piedi. “Non stavo facendo niente.”

Mamma supera la mia stanza a grandi passi, evitando magicamente le pile di vestiti e libri sparsi letteralmente ovunque (sì, prima o poi metterò tutto in ordine), fino a posizionarsi affianco alla mia scrivania, dando un colpetto ai fogli di carta con un dito.

“Dai, Jean. Fammi vedere.”

Cosa pensa che sia? Un porno?! Perché mai dovrei disegnare dei porno? Diamine, probabilmente sarebbe meno imbarazzante, cazzo.

Mi lascio scappare un lamento basso, ma lei non si muove. Bene, cazzo.

Rimuovo i fogli di carta dal mio disegno; un po’ di pittura fresca si trasferisce sulla facciata inferiore ma, fortunatamente (anche se effettivamente in questo momento a chi importa? Sicuramente non a me), il dipinto non si macchia.

“Uh…”

“Jean,” mi dice, “L’hai fatto tu?”

Oh Dio. Ci siamo. Prima o poi sarebbe dovuto succedere. Addio a ogni speranza di fare dell’arte il mio futuro. Certamente è stato bello finché è durato.

“…Sì.”

“Perché non me l’hai mostrato prima?”

Aspetta, che?

“Huh?”

Mamma si avvicina all’album da disegno, ispezionando il mio lavoro. Mentre io sono in uno stato di shock generale. Urrà.

“È Marco, vero?” chiede, “Jean, tesoro, è meraviglioso. L’hai disegnato da zero?”

“T-ti piace?”

Il cuore mi martella nel petto, e il suono del sangue che pompa è abbastanza forte nelle mie orecchie da rischiare di attutire le parole di mia madre. Porca puttana.

“Certo che mi piace,” risponde enfaticamente, “Vorrei solo sapere perché è la prima volta che vedo un tuo disegno, Jean! Ne hai altri?”

“Io, uh— cazzo, cioè, uh, sì! Scusa! Ne ho molti altri!”

“Mi piacerebbe molto vederli.” Mi rivolge un sorriso a trentadue denti, e sto quasi per imitare la sua espressione (seppur con un’aria più precaria e decisamente sbalordita, cazzo!), quando il suo telefono inizia a squillare. “Ah!” esclama, dando un’occhiata al numero mentre lo estrae dalla tasca posteriore. “Accidenti, è il mio taxi. Devo scappare, tesoro, ma devi mostrarmi altri disegni appena torno, va bene?”

“Uh… certo.”

Si flette sulle ginocchia per piantarmi un bacio schifosamente sdolcinato sulla fronte (vorrei ricordarle che ho diciannove anni, e non cinque, ma il mio cervello probabilmente si è trasformato in poltiglia ed è pronto a colarmi dalle orecchie).

“Ti manderò un messaggio non appena sarò atterrata,” dice, “Fai il bravo. Divertiti. Telefona a casa della nonna se hai bisogno di qualcosa, okay?”

“… Certo, mamma. B-buon viaggio.”

Non so esattamente quanto ci metta a riacquisire le mie facoltà cerebrali ma, quando ci riesco, finisco praticamente per affondare nella sedia, abbandonandomi a un lungo sospiro che stavo trattenendo da tempo. È appena successo davvero? Non…non sono stato rinnegato? No, a parte gli scherzi. L’ha davvero presa bene?

Riapro la mia conversazione con Marco su Skype e controllo i messaggi non letti che si sono accumulati nell’angolo. Il video ovviamente si è spento quando ho chiuso violentemente il portatile.

Robodt:
>> Ehi, il video è appena diventato tutto nero?
>> Tutto bene?
>> Sei ancora in linea?

KirschFINE:
>> scusa
>> è appena successa una cosa molto surreale
>> credo che mi abbia impallato il cervello

Robodt:
>> Cos’è successo? :o
>> Tutto bene?

KirschFINE:
>> è appena entrata mia madre
>> e ha visto cosa stavo disegnando
>> e le è piaciuto???????

Per la seconda volta questa sera, ricevo una chiamata su Skype. Tiro un sospiro e premo il tasto per alzare il volume sulla mia tastiera, prima di accettare la chiamata. La voce di Marco riempie immediatamente la mia stanza. Decido di non accendere la webcam, questa volta.

“Hai visto, te l’avevo detto!” mi canzona. “Ti avevo detto di dare una possibilità a tua madre!”

“Va bene, va bene,” mi ritrovo a ridere; è una risata sommessa, rincuorata. “Non c’è bisogno di farmelo pesare, Lentiggini.”

“Ma è veramente grandioso, Jean! Sono così felice per te,” continua, e sono contento che non possa vedere la mia faccia in questo momento. “Forse riuscirai a parlarle per entrare nella facoltà di arte il prossimo anno, eh?”

“Hah, adesso stai correndo un po’ troppo…”
 


 

Sabato mattina mi pento di essermi mai offerto volontario di mettere a disposizione la mia casa per le bravate di Connie. Tanto per cominciare, devo svegliarmi oscenamente presto (e questo per me è già abbastanza per farmi odiare tutto e tutti per l’eternità), e cominciare a nascondere tutti gli oggetti che devo portare in salvo da quelle scimmie ubriache dei miei amici se voglio evitare che i miei genitori mi rinneghino. Il che implica principalmente spostare tutte le foto dalla mensola sopra il camino nel salotto; colgo l’occasione per toglierne qualcuna anche dalla tromba delle scale perché, credetemi, se Ymir o Eren le vedessero, di certo non sarebbero gentili come Marco con i commenti sul piccolo Jean di tre anni.

Quando Marco arriva per pulire la piscina, sto correndo in giro a gambe levate provando a riordinare, versando snack assortiti in qualche ciotola (è così che si fa, no?), e cercando il punto più fresco della casa dove poter conservare la birra. Sto trascinando una pila di coperte giù per le scale (il che, in effetti, è piuttosto difficile, perché inciampo nei miei stessi piedi più di una volta e rischio di fare un volo di tre metri fino ad atterrare di testa sul pavimento di legno), per portarle nel salotto, quando noto che Marco si è stabilito in cucina, e sta girando avanti e indietro su uno degli sgabelli da bar.

“Yo,” lo saluto, scaricando le coperte in un mucchio vicino alla porta del salotto, e lo raggiungo in cucina. Marco sussulta lievemente, ma la sorpresa è rimpiazzata subito da un sorriso.

“Ehi,” sorride, “Scusa, sono entrato in casa senza dire niente! Ho, uh… ho finito con la piscina.”

“Nah, non c’è problema.” Mi avvicino a lui con il pretesto di prendere qualcosa da bere dal frigo, ma mi fermo quando vedo quello che indossa al posto dei soliti pantaloncini color cachi. “…Perché indossi un costume da bagno?”

Ridacchia con aria imbarazzata e si gratta la nuca, evitando intenzionalmente il mio sguardo. Non promette nulla di buono.  (Ha preso lezioni da Sasha alle mie spalle?)

“Ecco… avevo pensato di provare una cosa,” mi dice. “Se non sei impegnato, ovviamente.”

Non so perché accetto di seguirlo in cortile, eppure lo faccio; suppongo abbia qualcosa a che fare con la sensazione che mi assale quando guardo la pila di coperte accatastate nel corridoio, e decido che non è proprio il caso di farmi infastidire ancora da queste faccende di casa.

Marco si dirige intenzionalmente verso la scalinata della fottutissima piscina, e mi chiedo sinceramente se sia completamente impazzito una volta per tutte. Mi fermo in mezzo al prato e incrocio le braccia, tamburellando con le dita sui miei bicipiti. Lui entra nella piscina, arriva al terzo o quarto gradino, dove l’acqua gli arriva alle ginocchia, e si volta nuovamente a guardarmi.

“Vieni qui, Jean.”

“Già, meglio di no,” scuoto la testa. “Non so cos’hai mangiato a colazione, ma ovviamente ti ha dato al cervello.”

“Jean,” sospira. Posa entrambe le mani sui fianchi, ma quell’atteggiamento di sufficienza non gli si addice per niente. “Accontentami almeno per cinque minuti. Vieni qui.”

Non ho molto tempo per crogiolarmi nelle mie insicurezze perché sento già i miei piedi muoversi sull’erba senza nemmeno aspettare un mio comando. Mi fermo davanti agli scalini della piscina e guardo Marco qualche gradino sotto di me, con uno sguardo che dice, per favore, illuminami, dimmi in che piano diabolico mi stai per coinvolgere, e come pensi di farmi entrare in piscina. Perché stai pur certo che non succederà, cazzo.

“Se stai per sparare qualche cazzata,” inizio, “… sul mantenere quell’idiota promessa sul fatto di aiutarmi ad… affrontare questa cosa, allora stai tranquillo, Calypso, io ti libero dai tuoi legami umani, o come diamine diceva la citazione. Non mi avvicinerò più di così.”

“Jean, voglio solo che ci provi.”

“No. Non ci proverò. Qualsiasi cosa tu abbia in mente. No e poi no.”

Marco sale un gradino, e il livello dell’acqua ora è all’altezza delle sue caviglie. Le goccioline luccicano sulle sue ginocchia coperte di lentiggini. Ugh. Sono ancora leggermente più alto di lui, ma i nostri occhi sono quasi alla stessa altezza.

Mi porge entrambe le mani e mi fa segno di avvicinarmi. Ecco, se potessi eliminare tutta quella piscina attorno a lui, dietro di lui, di fronte a me, sì, non ci sarebbe alcun problema. Ma

“Ricordi quell’articolo che ti ho letto al telefono?” mi chiede, “Dobbiamo fare piccoli passi alla volta. Consigliava di provare a mettere i piedi nell’acqua per cominciare. Penso che sia fattibile.”

È come se tutta la spavalderia che avevo in corpo fosse scomparsa in un istante e, invece di essere fiduciosamente ribelle e pronto a deplorare il suo suggerimento, improvvisamente sento quei brividi di freddo fin troppo familiari che accompagnano il panico.

“Sai che non posso farlo,” mormoro sommessamente, incapace di nascondere il tremore che inizia a intaccare la mia voce, “Dai, devo finire i preparativi per—”

Non ho il tempo di finire, perché Marco si sporge in avanti e prende entrambe le mie mani nelle sue, avvolgendo le mie dita nei suoi palmi. Non mi strattona in avanti – diamine, sa che non gli conviene – piuttosto mi sostiene lì dove sono.

“Un passo. Ce la puoi fare,” sorride; è quel suo sorriso che, per uno stupidissimo, brevissimo istante, mi fa credere che non ci sia niente di impossibile. “E poi possiamo andare a versare patatine in una ciotola, se proprio vuoi.”

Le mie unghie sono conficcate nei suoi palmi oramai e, Cristo santo, non mi sorprenderei se gli rimanessero i segni per l’eternità.

Un passo. È tutto quello che vuole. Devi fare solo un passo avanti.

“Non ti accadrà nulla di male,” aggiunge Marco, “Sai che non lo permetterei.”

Le mie gambe stanno tremando, eppure alzo un piede dal cemento del bordo della piscina e faccio qualcosa che non avrei mai pensato di poter fare.

Scendo un gradino, nella piscina.

“Ha!” rido nella mia tremante incredulità, portando l’altro piede affianco al primo, sommersi fino alle caviglie sul primo scalino. L’acqua è fredda, il modo in cui lambisce le mie caviglie è letteralmente la sensazione più disgustosa che abbia mai provato, ma Marco… Il modo in cui mi sorride. È raggiante, cazzo.

Rafforza la presa sulle mie mani tra di noi e mi concentro sulla stretta, sul modo in cui riesco praticamente a sentire la sua energia spumeggiante che si trasmette nelle mie dita. Guardatelo. È così felice, cazzo.

Il mio cuore batte all’impazzata, alterato dall’adrenalina, dall’euforia, dalla paura più assoluta, insieme a tutte le altri sensazioni che potrei provare, tutte stritolate in un unico caotico, fantastico istante.

“Non sei poi… così santo… come pensavo,” sussurro, mentre la voce si annoda nella mia gola per il nervosismo. “Lentigginoso bastardo… nascosto segretamente sotto tutta quella… scorza di affettuosità.” Arriva con il pretesto di pulire la mia piscina per poi in realtà trovare nuovi modi per t-torturarmi.

“Sapevo che ce l’avresti fatta,” dice in un ampio sorriso, dondolando le nostre mani unite. È così sdolcinato. Così ridicolo. Così perfetto. “Vuoi provare a scendere un altro gradino?”

Guardo in basso, verso l’acqua che circonda i miei piedi, e qualcosa si contorce nel mio stomaco. Al prossimo gradino l’acqua è più profonda, e quel pensiero mi fa arrossire la nuca con un’ondata di viscido calore. Contraggo la mascella e deglutisco a fatica.

“M-magari un’altra volta.”

“Va bene. Sei stato già bravissimo oggi, Jean.”

Per tutta risposta, sbuffo.

“… Non posso crederci, sei venuto qui con il c-costume da bagno, cazzo. Avevi intenzione fin dall’inizio di trascinarmi in questa fottutissima p-piscina.”

Avrebbe eseguito il solito tic nervoso – grattandosi la nuca, imbarazzato – se le mie mani non fossero state saldamente serrate nelle sue. Quindi opta per un’espressione imbarazzata, guardandosi i piedi. È il mio tremore generale a riportarlo finalmente alla realtà, e suggerisce di uscire dalla piscina. Continua a tenermi le mani per più tempo del necessario.
 


 

“Ehi, quante coperte ci sono lì?” grido in direzione delle scale, per metà dentro l’armadio a muro del corridoio. Riesco a trovare un po’ di cuscini stipati dietro la caldaia, e li trascino fuori, mettendoli in spalla insieme agli altri cuscini che ho collezionato dal resto della casa.

“Uh, cinque o sei, credo?” grida Marco di rimando, “Oh, e un sacco a pelo!”

“Mmm, probabilmente basta così allora,” rifletto, più che altro con me stesso, mentre esco lentamente dall’armadio, rischiando di sbattere la testa sullo scaffale sopra di me. “Ora ti lancio dei cuscini, okay?”

Afferro tutti quelli che riesco a mantenere, e spingo gli altri in cima alle scale con i piedi. Guardando oltre la ringhiera, vedo Marco posizionato sotto di me, con un sorriso raggiante. Diamine, che faccia stupida.

“Perché stai sorridendo così, idiota,” grugnisco, mentre lancio un cuscino direttamente sulla sua faccia; colpisce il bersaglio con un oomph soffocato.

“Ehi,” mette il broncio, stropicciandosi il naso lentigginoso, “Sei proprio ingiusto. Ti ricordo che sono un tuo ospite!”

Gli lancio un altro cuscino per tutta risposta, ma stavolta lo afferra a mezzaria.

“La tua espressione idiota mi fa venire da vomitare.”

“Ah bene, allora in futuro mi sforzerò di non essere felice per te,” sorride beffardo. Prendo in considerazione diverse possibilità per approssimativamente un secondo, prima di decidere di lanciargli in faccia tutti i cuscini da sopra la ringhiera.
 


 

A quanto pare, Marco non ha intenzione di indossare costume da bagno e polo da lavoro per il resto della serata (grazie al cielo). Quando finisco di farlo lavorare come uno schiavo, sgattaiola verso il suo furgone e torna con un piccolo borsone nero appeso a una spalla.

“Ti dispiace se vado a cambiarmi, Jean?”

Sono solo le tre, ma ho già deciso di aprire una birra. Penso che ne avrò bisogno prima che cali la sera. Mi lecco le labbra per disfarmi dei baffi di schiuma, per poi indicare vagamente in direzione delle scale.

“Nah, fai pure,” rispondo. “Puoi lasciare tutto in camera mia. Probabilmente lì saranno più al sicuro.”

Mi rivolge un sorriso e poi si dirige al piano superiore; rimango ad ascoltare lo scricchiolio familiare delle assi del pavimento della mia camera che attraversa il soffitto della cucina, prima di bere un altro sorso. Hmm. Sono ancora in quella fase orribile di: questa birra è una merda, quindi dovrei proprio berne dell’altra affinché inizi a sembrare più decente. Afferro un’altra lattina dalla cassa per Marco, la posiziono sul bancone e poi nascondo nuovamente la mia scorta in una delle ante della credenza, per tenerle al sicuro. (Probabilmente non è di grande utilità, perché Connie e Sasha diventano letteralmente dei segugi quando si tratta di annusare l’alcol nascosto.)

Suona il campanello e, come si dice, quando parli del diavolo… Sento il rumore sulla veranda prima ancora di mettere piede in corridoio e vedere le sagome dei miei amici preferiti attraverso il vetro.

Con un sospiro deliberatamente eccessivo, apro la porta per trovarmi di fronte a un paio di facce sorridenti.

“Jean!” grida Sasha, praticamente gettandosi fra le mie braccia. Mi scosto per evitare che il contenuto della mia birra venga versato ovunque. “Sei pronto a festeggiaaareeeeeeee?!”

“Ti prego, dimmi che non sei già ubriaca,” mi lamento, spostandomi da un lato della porta per farli entrare. “Cos’ha bevuto?”

“Niente,” interviene Connie, posando lo zaino che reggeva in spalla con un tonfo sonoro (presumo sia pieno di alcol e nient’altro). “Be’, a parte due lattine di piscio di gatto, in effetti, sì.”

“E non hai pensato al fatto che adesso dovremo sopportarla per il resto della serata finché non arrivano gli altri?”

“Uh… no.”

“Bene.”

Trascino entrambi in cucina, dove Sasha si mette a girare a più non posso su uno degli sgabelli della cucina, e Connie inizia a svuotare il suo zaino sul bancone. Ha portato alcol a sufficienza per inebriare un piccolo esercito, merda, ma ha portato anche un pacco intero di bicchieri di plastica, quindi penso di poterlo perdonare, perché almeno è arrivato preparato.

Ispeziono una delle bottiglie di vetro satinato, rigirandola nella mia mano libera per leggere il tasso alcolico. I miei occhi sembrano rifiutarsi di leggere quel quarantaquattro percento sull’etichetta.

“Merda, ma questa roba è etanolo puro?”

“Probabilmente se lo bevessi diventeresti cieco all’istante,” sorride Connie.

“È quello l’intento!” scherza Sasha, allungando un braccio per prendere la bottiglia dalle mie mani – è un rum bianco di qualche sorta, a quanto pare – ma lo allontano subito dalla sua portata.

“Uh, assolutamente no, Sash. Non inizierai a bere alle tre del pomeriggio, Cristo santo.” Per tutta risposta borbotta un po’, ma la sua attenzione viene distolta quando Connie le passa un bicchiere di plastica e le versa mezza lattina di birra Bud Light, tenendo l’altra metà per sé.

“Quindi, quando arrivano gli altri?” domanda Connie, bevendo qualche sorso fin troppo zelante di una birra che ho paragonato più a volte al sapore del vomito.

“Più tardi,” rispondo. “Ve l’avevo detto di non venire così presto.” Sento le scale scricchiolare, e per qualche ragione sento il mio viso scaldarsi leggermente. “Oh, ma, uh… Marco è già qui.”

Lentiggini gira l’angolo in quel momento, e si ferma, sorpreso, nel vedere la cucina più piena rispetto a prima che andasse al piano di sopra. Ha sostituito il look da inserviente della piscina con un paio di pantaloni chino marrone chiaro e una camicia bianca, e vaffanculo, Marco, devi ricordarmi costantemente di quanto tu sia attraente e di quanto io sia ossuto? Gli rivolgo uno sguardo di rimprovero da dietro la mia lattina di birra mentre bevo un altro – per quanto più scontroso – sorso.

“Inserviente sexy!” strilla Sasha, scendendo dallo sgabello e lanciandosi nella direzione di Marco. Che dio lo benedica, quell’idiota, perché pensa bene di porgerle le mani per sostenerla, invece di lasciare che inciampi sui suoi stessi piedi come meriterebbe.

“Uh… ciao!” Marco ride con aria imbarazzata, guardandomi come se mi stesse chiedendo: cosa dovrei fare con questa persona decisamente poco sobria, Jean? Per tutta risposta, mi limito a fare spallucce.

Connie afferra la birra dalle mani di Sasha e la beve fino all’ultimo goccio, prima di portare il bicchiere al lavandino per riempirlo d’acqua. Lo restituisce alla sua ragazza senza un briciolo di compassione (e lei beve senza battere ciglio, il che è già una grande impresa).

“Stai proprio bene così tirato a lucido,” dice allora Connie, indicando Marco con la lattina. “Vero, Jean?”

“Sta provando a farci sentire tutti delle merde,” concordo io, nonostante mi ci voglia tutto il mio autocontrollo per non balbettare, vedendo Marco arrossire vertiginosamente ancora una volta. E poi sento che sto arrossendo a mia volta. Ed è diventata una gara di sguardi agitati e imbarazzati da una parte all’altra del bancone della cucina che ci separa. Connie tossicchia nella mano.

“Quindi, uh, quand’è che arriva Ymir con la sua birra schifosa?”
 


 

Ymir e la sua birra schifosa arrivano alle sei in punto e, per quell’ora, Sasha ha fatto in tempo a smaltire la sbornia e a ubriacarsi nuovamente. È abbastanza divertente guardarla mentre tenta di conversare disastrosamente con Marco, che cerca di calmarla con uno sguardo colmo di panico. Ha l’espressione più sollevata che gli abbia mai visto in volto quando viene letteralmente salvato dal suono del campanello, e le orecchie di Sasha si drizzano immediatamente (ve l’ho detto che ha un sesto senso per l’alcol).

“È Ymiiiiirrrrr!” canticchia, afferrando Connie per una mano per correre ad aprirle la porta. Marco tira un sospiro di sollievo e affonda nello sgabello da bar dov’è seduto con una risata incerta.

“Tutto bene?” domando in un sorriso, dandogli un colpetto alla caviglia con il mio piede.

“Avevi ragione… sul fatto che sono intensi,” ammette. “Sono già esausto.”

“Heh. E non hai ancora visto nulla.” Infilo il braccio nella foresta di bottiglie che Connie ha lasciato sul bancone, e affetto la lattina di birra che avevo preparato per Marco. “Vuoi bere qualcosa?”

La lascio fra le sue mani senza aspettare una risposta; in effetti, sono alla mia terza lattina, quindi le cose stanno lentamente scivolando nel piccolo mondo di Jean-e-basta. Rigira maldestramente la lattina fra le mani.

“S-sono solo le sei?” domanda con esitazione, “Non è un po’… uh, preso?”

Emetto uno sbuffo di scherno, indicando tutte le lattine che noialtri abbiamo già svuotato nel frattempo. Ma un pensiero mi balena in testa in quel momento.

“Aspetta. Mettiamo le cose in chiaro, Marco. Ti sei mai ubriacato prima d’ora?”

Dopo quella domanda acquisisce un’aria leggermente imbarazzata, e tira la linguetta della sua lattina senza guardarmi negli occhi. Gli do un altro colpetto con il piede.

“T-tecnicamente… no.”

“Tecnicamente no,” ripeto, sentendo un sorrisetto affiorare agli angoli delle mie labbra. “Cosa significa con esattezza?”

“Ecco, s-sono diventato un po’ brillo al matrimonio di mio cugino, quello conta?” dice, ma prova subito a rimediare. “C-cioè, uh… be’, mia madre… e, uh… no. No, mi spiace. Non mi sono mai ubriacato.” Si morde il labbro. Non mi sorprende poi così tanto, se devo essere onesto. È esattamente il tipo di persona che aspetterebbe di compiere ventun anni prima di prendere anche lontanamente in considerazione l’idea di sbronzarsi. Però, d’altro canto…

“Aspetta, fammi capire bene. Mi stai dicendo che sei amico di Reiner Braun e non ti ha mai costretto – minacciandoti con qualche presa di wrestling – a ubriacarti? Neanche un po’?

“No? Non ho mai… bevuto con Reiner, in realtà.”

“Ti aspetta una grande serata, allora,” sorriso, sporgendomi verso di lui e sollevando la sua lattina con le dita, costringendolo a bere un sorso di birra. La manda giù con una smorfia. “Il sapore migliorerà man mano che la bevi,” gli prometto maliziosamente. “Diamine, se è arrivata Ymir non vedrai l’ora di ubriacarti appena possibile, così non dovrai dare retta ai suoi discorsi di merda. Credimi, è quello che farò io.”

“Ti ho sentito, Kirschtein!” l’urlo di Ymir attraversa il corridoio. “Appena metto giù tutta questa birra prendo a calci quel culo ossuto che ti ritrovi fino a spedirti su Giove.”

Ymir entra in cucina, con tre casse da dodici fra le braccia, che posiziona sui banconi ancora vuoti con un grugnito e uno schiocco delle articolazioni della spalla. È seguita da Historia, che trasporta le borse di entrambe, per poi abbandonarle – con più eleganza della sua ragazza – vicino alla porta. (Connie e Sasha stanno ancora ridacchiando nel corridoio, a giudicare da quello che riesco a sentire.)

“Spero che ti piaccia bere la pipì di gatto, Marco,” gli dico con aria di rimprovero per Ymir, e Marco risponde con una risata educata.

“Spero che ti piaccia sentirei il mio piede su per il culo,” ribatte Ymir, schiaffeggiandomi il braccio con un’aria decisamente più omicida del necessario. Ahia, cazzo. “La birra di merda è la migliore, snob che non sei altro.”

“Abbiamo portato anche alcune bevande analcoliche da mischiare,” si intromette Historia con un sorriso dolce stampato in volto. Ovviamente ha notato il disagio di Marco di fronte all’aggressività e alla pazzia generale che contraddistingue i miei amici. (E ha ragione, avrebbero tutti bisogno di un buon terapista.) “Sai, nel caso in cui non ti dovesse piacere la birra.” Si avvicina a Marco, prendendo posto furtivamente sullo sgabello affianco a lui, e dice a bassa voce, teatralmente: “Tranquillo, neanche a me piace la birra.”

Ymir ringhia e mi dà – perché proprio a me – un altro schiaffo.

“Farò finta di non aver sentito, solo perché sei carina,” dice alla sua ragazza alle sue spalle. “Jean, purtroppo, non lo è.”

Così mi offendi,” metto il broncio.

“Oh, sta’ zitto.”

Connie e Sasha tornano in cucina, anticipando impazientemente l’apertura del bottino di Ymir (nonostante avessero già abbastanza alcol prima, quindi non capisco esattamente il motivo). Questo distrae Ymir quel tanto che basta perché io riesca a scappare fuori dalla sua portata, unendomi alla conversazione fra Historia e Marco.

“Quindi, tu devi essere Marco?” dice, offrendogli una mano da stringere. (Perfetta, Historia, sei perfetta, che Dio benedica tutta la tua normalissima esistenza). Marco – che sembra sospettoso e leggermente preoccupato – le stringe la mano con un sorriso educato.

“Sì, sono io,” dice. “Non credo di—”

“Mi chiamo Historia,” interviene, “E lei è Ymir, nel caso non l’avessi capito. Giuro che è gentile, il più delle volte. È solo che diventa stranamente possessiva quando si parla della sua scelta in fatto di birre. Mi scuso in anticipo per tutto quello che farà nelle prossime ore.”

“Fai bene a scusarti,” mi intrometto io. “Se quando torna mia madre trova la casa rasa al suolo, so esattamente a chi chiedere il risarcimento.”

Non saprei dire se Marco sia genuinamente terrorizzato, o solo leggermente sopraffatto dall’euforia di tutti gli altri (leggasi: Ymir e Sasha); beve un lungo sorso di birra, e stavolta sembra apprezzarla con gratitudine.
 


 

Quando arrivano Eren, Mikasa e Armin, inizio a pensare che forse Marco è semplicemente un po’ nervoso in mezzo a tanta gente. Sorride educatamente quando qualcuno gli parla – e attacca subito bottone con Armin, nonostante etichetti immediatamente Eren come un matto come le altre (glielo leggo negli occhi) – ma in generale si limita a seguirmi come un’ombra mentre mi sposto in giro per la casa, cercando di evitare che accada qualcosa di ridicolmente stupido ancor prima che diventi buio.

Tuttavia, non è l’unico. Io ed Eren ci scambiamo una specie di cenno con il capo come saluto, ma non andiamo oltre. Non so cosa dovrei fare. Non so esattamente in che rapporti siamo adesso – ha detto che siamo a posto, e che mi ha perdonato per le ossa rotte – ma … come può accantonare tutta quella situazione così? Io non ci riesco. Ci sono ancora notti in cui mi ricordo … di quel momento. E mi sveglio sudato e senza fiato, e devo consolarmi dicendomi che non è andata così male come il mio cervello del cazzo vuole farmi credere, e che Eren non sapeva cosa stesse facendo, che è solo impulsivo e non poteva sapere che avrei reagito così. Non è stata colpa sua. Eppure … in un certo senso, lo è stata. Avevo così tanta paura. Anche adesso ho paura.

È per questo che non so cosa fare. Quindi ci giriamo intorno l’un l’altro per il momento, evitando qualsivoglia conversazione diretta, scusandoci a bassa voce a vicenda se ci urtiamo per sbaglio in cucina. Per adesso va bene così. È una ferita che deve ancora cicatrizzare.

Comunque, Eren è più che felice di divertirsi con gli altri. Vale lo stesso per me. In fin dei conti, sia io che lui li abbiamo evitati per tanto tempo.

Sasha prepara un gioco di carte nel salotto, e colgo l’occasione come una buona scusa per scappare in cucina, con l’intenzione di provare a ristabilire una specie di ordine nell’uragano causato da Ymir e dagli Springles (perché ormai anche Connie ha preso il treno per alticcio-landia).

Sto sgombrando il bancone da una manciata di lattine che finiscono dritte nella busta dell’immondizia, quando Marco compare al mio fianco e affonda in uno degli sgabelli da bar vicino a me. Appoggia i piedi sull'asse della sedia e lascia cadere le mani in grembo, con le spalle curve. Questa volta mostro più compassione per  lui.

“Hai bisogno di una pausa, eh?” domando, mentre ispeziono una bottiglia di vodka che ha già subito un’infrazione. “A chi lo dici. Non sono neanche le otto e sento già il bisogno di nascondermi sotto al mio letto per il resto della serata.”

Marco mormora qualcosa per esprimere accordo, passandosi una mano fra i capelli scompigliati. Ha arrotolato le maniche della camicia e sembra arrossire leggermente.

“Già,” sospira. “È, uh… un po’ imbarazzante quando sei l’unico che non conosce tutti. È un po’… difficile seguire tutte le conversazioni, a volte.”

“Credimi, ho smesso di provarci molti anni fa. Limitati ad annuire quando Sasha ti parla, e sei a posto.” Riesco a strappare un sorriso a Marco e, di conseguenza, sorrido a mia volta. “Vuoi bere qualcos’altro?” Ormai ha finito da un bel po’ la sua prima lattina (nonostante ci abbia messo lo stesso tempo che ho impiegato io a berne due). Prima che possa rispondere, qualcuno bussa decisamente alla porta principale, e potrebbe essere solo una persona (cioè, chi altri potrebbe riuscire a far tremare una casa intera semplicemente bussando su una porta, accidenti). “Ehi, pare siano arrivati Reiner e gli altri.”

“Vado io!” dice Armin mentre attraversa il salotto fino ad arrivare all’ingresso, e sono felice di vedere che non sono costretto a fare gli onori di casa da solo.

“Grazie, Ar!” grido di rimando, sperando che riesca a sentirmi tra le risate che risuonano nel resto della casa. Mi volto nuovamente verso Marco. “Hai scelto qualcosa da bere?”

“Uh… Non so… uh, prendo quello che prendi tu, credo?”

Sasha entra in cucina scivolando sui calzini, scontrandosi in pieno con il bancone. Non le invidio i postumi che avrà domattina quando la vedo prepararsi un altro drink, mischiando della vodka con del succo di frutta in parti uguali. Una volta finito, ne beve un sorso, trasforma la sua espressione in una smorfia disgustata e, ciononostante, ne beve un altro sorso.

“Volete provarlo?” ci chiede, notando la mia espressione annoiata. Porge il suo bicchiere di plastica a Marco. “Assaggia, assaggia!”

Metto una mano tra il bicchiere e il volto di Marco, respingendo l’oggetto verso Sash.

“Già, no. Non credo proprio.”

“Aw, Jean, ci togli tutto il divertimento!”

“Be’, non voglio vederlo accasciato sul pavimento prima delle dieci, okay?”

Afferro la bottiglia di vodka ormai quasi vuota e uso il tappo per dosare due bicchieri per me e Marco, diluendoli con un po’ di Coca-Cola. Guardo il fondo della bottiglia di vodka con aria pensierosa e, prima che Sasha abbia la possibilità di scolarsela fino all’ultimo goccio, faccio spallucce e verso quello che rimane nel mio bicchiere.

Già, ora è un po’ troppo forte. Senti come bruuucia.

Marco dà un’annusata incerta (strappandomi una risatina) al bicchiere che gli ho passato, prima di assaggiarne il contenuto. L’espressione che appare sul suo volto è piacevolmente sorpresa.

“Oh… è buono!”
 


 

A quel punto Marco sembra abituarsi all’atmosfera; credo sia anche merito di Bert e Reiner, che gli sono familiari e lo mettono a suo agio (oltre ad essere altri due volti conosciuti oltre al mio). Annie, la loro vicina leggermente spaventosa, sta sgranocchiando delle patatine che è riuscita a sottrarre, in qualche modo, a Sasha, mentre intavola una conversazione amichevole con Mikasa (i simili si attraggono, forse?)

Una volta calata l’afa del giorno, propongo di spostarci fuori – principalmente perché voglio allontanare i miei amici sempre più ubriachi dal nostro costosissimo televisore – ma, in effetti, è molto più bello stare seduti in cerchio sul prato, schiacciato tra Marco da un lato e Ymir dall’altro.

Il cielo è di quel bel colore azzurro rosato che si vede soltanto nei tramonti di mezz’estate, di quelli che riescono a calmarti nella maniera più profonda … a parte il fatto che tutto ciò perde qualsiasi significato, quando Sasha proclama ad alta voce che dobbiamo buttare giù qualche bicchierino. Ad ogni modo, la brezza è rinfrescante e l’erba è fresca sotto le mie mani quando mi sporgo all’indietro, chinando il collo per guardare in alto verso i ciuffi di nuvole di un arancione pallido. È diventato piuttosto facile distrarsi, vista la piramide di lattine di birra vuote che Marco sta impilando fra di noi. (Purtroppo, quel bulldozer che risponde al nome di Eren la distrugge quando balza dall’altra parte del cerchio per rubare qualcosa da Ymir, facendo mettere il broncio a Marco.)

Più Marco beve e più si lascia andare, e inizia a parlare con tutti gli altri. Mi basta rimanere a guardarlo per stare bene, noto il rossore che va formandosi sulle sue guance e il modo in cui la sua risata diventa sempre più sonora e spensierata. Quando Armin, che siede dall’altro lato di Marco, dice qualcosa che, a quanto pare, fa morire dal ridere, la risata di Marco lo fa quasi cadere all’indietro, se non fosse per la mano che gli poso sulla schiena per mantenerlo in equilibrio.

“Ehi, attento,” dico in un fiato, mentre lui volta la testa per guardarmi, finendo quasi per scontrare la sua fronte con la mia. “Caspita, sei decisamente sulla buona strada per alticcio-landia.”

“N-non sono brillo!” balbetta lui per tutta risposta, e non posso che alzare gli occhi al cielo con aria teatrale. “O forse sì?”

Oh sì,” gli sorrido. Reiner inizia a passare uno shot a ogni membro del cerchio (non fidandosi dell’abilità di Sasha di versare qualcosa), ma scuoto la testa al bicchierino che mi viene offerto da Historia da dietro la schiena di Ymir. “Andiamo,” dico a Marco, “Dovresti bere un po’ d’acqua finché riesci ancora a camminare.”

 Rimetto Marco in piedi tirandolo da un braccio, e lui non se ne lamenta. Barcolla un po’ per i primi due passi, ma raccoglie tutta la sua concentrazione per camminare dentro casa, nonostante abbia bisogno di utilizzarmi come se fossi la sua riluttante stampella. Lo faccio appoggiare su un bancone della cucina e mi precipito verso il lavandino, aprendo il rubinetto dell’acqua fredda.

“Ti senti bene?” gli domando, vedendolo intento a ispezionare la trama del marmo del bancone. “Uh, Marco?”

“Ah, no! No, stai bene… cioè, io sto bene. Non sono ubriaco, no? Assolutamente… forse. Merda.” Sembra profondamente sconvolto, soprattutto quando emetto una sonora risata nasale nel sentire le sue imprecazioni. “Oh Dio…”

Gli passo il bicchiere d’acqua con un sorriso soddisfatto. Mi guarda pietosamente, le sue lentiggini sono quasi scomparse sotto al rossore del suo volto. Che imbranato.

“Perché tu non sei ubriaco?”

“Perché so già cosa dobbiamo fare dopo. Ci sto andando piano,” sorrido beffardo, prendendo qualche altra lattina di birra per me. “E poi qualcuno dovrà pur trascinare il tuo culo ubriaco dentro casa più tardi. Non credo che Armin riesca a prenderti in braccio.”

“N-non voglio… impedirti di divertirti.”

“Oh, figurati, non preoccuparti per me. Questo è incredibilmente divertente.” Guardarti mentre ti ubriachi completamente? È a dir poco grandioso.

A quanto pare, Marco riesce a trangugiare cicchetti con una facilità impressionante. O forse è solo molto bravo a reggersi in piedi anche quando è sbronzo. Chissà. Lo guardo buttare giù tre shot consecutivi di Dio-solo-sa-che-bevanda quando riprendiamo i nostri posti nel cerchio, acclamati da tutti gli altri. Ymir prova a passarmi un bicchierino ma, ancor prima che possa rifiutarlo, Historia lo strappa dalle dita della sua ragazza e lo butta giù in un unico sorso. Chi l’avrebbe mai pensato. Incredibile.

Io continuo a bere birra, che ormai ha un sapore migliore, e sento un bel ronzio in testa, ed è tutto così… bello. Bellissimo. Eren sfida Ymir a chi riesce a bere gli shot di tabasco che ha appena preparato. Anche questo è bello? Reiner finisce gli ultimi avanzi di rum bianco di Connie, per poi stampare un bacio sdolcinato sul volto di Bert. Bellissimo (ma anche abbastanza disgustoso, non lo nascondo). Mikasa, che sta ancora chiacchierando amichevolmente con Annie, mostra un raro ma fantastico sorriso a una delle affermazioni della biondina spaventosa. È bellissima. (Ha un sorriso incredibile, cazzo.) Marco si appoggia sulla mia spalla, e sento rimbombare la sua risata dentro di me. Questo è ancor più che bellissimo.

La brezza solleva un fruscio tra la siepe e l’erba tagliata corta, e porta con sé l’unica sensazione che mi sia mai piaciuta dell’estate. È rinfrescante. E rasserenante. Fa sembrare tutto più giusto.

Forse non sono poi così sobrio come pensavo. Non me ne lamento. La calda confusione nella mia testa è come una coperta stesa sui miei pensieri e, per una volta nella vita, mi sento a mio agio. Non accadeva da un po’.

“Ehi, ehi, ehi,” sento la voce implorante di Sasha, e mi accorgo di essermi imbambolato a tal punto da chiudere gli occhi. Ne apro uno, sollevato nel vedere che non sono io l’oggetto delle sue molestie, ma è Connie, al quale tira una manica. “Dovremmo giocare a never have I ever!”

Bene. Adesso sì che la situazione diventerà brutale.

“Finiremo solo per scoprire cose che non avremmo mai voluto sapere sulla vita sessuale di Bert e Reiner,” si lamenta Eren, “Di nuovo!”

“Che c’è, hai troppa paura del grande, sconfinato mondo gay, Jaeger?” urla Reiner, e Bert sembra desiderare che il terreno lo ingoi in questo preciso istante. “Hai paura di imparare qualcosa?”

A quanto pare questo basta per iniziare a giocare (non chiedetemi come o perché). I bicchieri vengono riempiti nuovamente, mentre io informo un’Ymir sempre più aggressiva del fatto che sì, c’è ancora tantissima birra nella mia lattina, ora fatti i cazzi tuoi. Eren inizia il giro, con uno schiettissimo “non ho mai fatto sesso con un oggetto inanimato”. Tutti sembrano sconvolti quando Reiner non beve un sorso; di solito è lui ad aver fatto tutte le cose più disgustose. Marco preme un po’ più forte la sua spalla contro la mia e mi sussurra nell’orecchio.

“E-ehi, Jean, non so come si gioca.” Il suo alito è intriso dell’odore di birra o, più che altro, di vodka. Non ha più alcuno scrupolo di invadere i miei spazi personali ma, a dire il vero… non mi dispiace per niente.

“Devi bere quando qualcuno dice qualcosa che hai fatto,” gli rispondo in un sussurro a mia volta. Contemporaneamente, il turno passa a Mikasa, affianco a Eren.

“Non ho mai… copiato a un test o un esame,” dice. Un paio di persone alzano gli occhi al cielo, e molte più persone bevono, me compreso. Trangugio un breve sorso di birra, per poi focalizzarmi nuovamente su Marco.

“Così. Se almeno una volta a scuola hai copiato, devi bere un sorso.”

“O-oh, ho capito,” risponde, “… Quindi tu hai copiato?”

Gli do una brusca gomitata nelle costole, al che lui sfoggia un sorriso malizioso, lasciandosi sgomitare.

“Non giocare a fare il Gesù lentigginoso con me, stronzetto.”

Passa il turno di Bert, e poi Reiner (con non poca sofferenza, e credo che potrei aver bisogno di lavarmi le orecchie con del sapone dopo quello che ha detto), e poi tocca a Connie, a Sasha, a Historia, per poi arrivare a Ymir. Nel giro di circa dieci minuti, sono venuto a sapere che Connie una volta è stato multato per atti indecenti (chissà come mai, la cosa non mi sorprende), a Bert è venuta un’orticaria per averlo fatto in un parco (una domanda stranamente specifica…), e la cosa più oscena che Marco abbia mai fatto nella sua perfetta, angelica esistenza è stata usare lo spazzolino di qualcun altro. Per la fortuna di tutti i presenti, Ymir ormai è così ubriaca che l’unica cosa che esce dalla sua bocca è un biascichio incomprensibile, così decidiamo all’unanimità di saltare il suo turno (con le conseguenti accuse potenzialmente pericolosissime che potrebbe rivolgerci) per passare direttamente a me.

“Non ho mai vomitato addosso alla persona che stavo baciando,” affermo senza battere ciglio. Il secondo anno delle superiori si ripete nella mia mente, vivido e incasinato.

“È successo solo una volta!” Eren e Reiner urlano all’unisono, prima di guardarsi l’un l’altro con aria scioccata “Aspetta, cosa?!”

Gli altri scoppiano in una risata fragorosa e, tra Bert che consola dolcemente Reiner ed Eren che strilla qualcosa del tipo “Te l’ho detto in confidenza!”, mi alzo rapidamente in piedi e dico che devo andare a pisciare (principalmente per scappare prima che Eren decida di uccidermi).

“Aw, devi già vomitare, eh?” mi canzona lui, cosicché alzo il dito medio nella sua direzione mentre cammino verso la casa. È strano – molto strano – perché, per un momento, si sente un pizzico del rapporto che avevamo prima che succedesse tutto quel casino. Credo di sentire lo sguardo di Marco su di me (e mi scuso mentalmente con lui per averlo lasciato solo), ma pare che non duri troppo, prima che la gente inizi a tartassarlo perché giochi il suo turno.

Nel bagno smaltisco un po’ la sbornia, grazie alla pisciata più lunga nella storia dell’uomo, e grazie all’acqua fredda con cui mi sciacquo il viso quando noto il rossore che ho raggiunto con l’alcol. Il ronzio in testa c’è ancora, è solo più attutito, e i miei pensieri sono meno osceni e annebbiati.

Bevo un bicchiere d’acqua quando passo dalla cucina, accartocciando il bicchiere di carta nella mano prima che gli altri possano prendermi in giro. La voce di Eren è ancora piuttosto chiara (nonostante tutto l’alcol che gli ho visto bere).

“Sei troppo per lui, Marco. Scappa. Finché sei ancora in tempo,” proclama con fervore, provando a punzecchiare il petto di Marco, finendo soltanto per sporgersi pericolosamente in avanti, rischiando di cadere con la faccia sull’erba.

Marco ride imbarazzato, e lo vedo grattarsi la nuca, come al solito, e incrociare le gambe sotto al corpo.

“Ehi, stai solo citando Scott Pilgrim o sei veramente una testa di cazzo, Jager?” tuono dall’altra parte del prato, facendo voltare alcuni di loro, mentre più di uno aspettava già con aria impaziente – ed esitante – la mia reazione. Non devono preoccuparsi (o almeno, spero di no). In effetti sono molto più curioso di sapere cosa sia stato detto mentre ero dentro casa; Marco sembra uno che ha appena visto la propria nonna nuda, a giudicare dal colore del suo viso.

Historia prova ad attenuare la situazione squittendo un “dai, ragazzi, tocca ad Armin!”; mi sorprende che sia ancora in forze, perché Ymir continua a farle avances sempre più sdolcinate, e borbotta ogni volta che Historia è costretta ad allontanarla. Un’Ymir ubriaca non è solo un’Ymir arrabbiata, ma anche un’Ymir oscenamente arrapata. Questo basta a distogliere il mio cervello leggermente ubriaco dal tentativo di tartassare Marco di domande inquisitorie.

Armin non è molto bravo a giocare a never have I ever. Probabilmente non aiuta il fatto che Connie e Sasha stiano provando a far trangugiare a Bert un miscuglio probabilmente velenoso, finendo solo per versargli tutto il bicchiere sul viso. Lui non ne è contento. Reiner si limita a ridere.

“Ragazzi, state un po’ zitti, cazzo!” urla Eren, prima di dare un colpetto ad Armin, probabilmente fin troppo forte, nelle costole. “Vai, Ar, fanne una buona!”

“Non… n-non mi viene in mente nulla! I-intanto andate avanti con il giro, ci penso un po’,” dice Armin, ma Eren non vuole sentire storie. Si sporge verso di lui e sussurra qualcosa nell’orecchio di Armin che lo fa diventare immediatamente rosso come un pomodoro.

“E-Eren! Non è un po’ troppo…?”

“No! Dai, dillo!”

Adesso tutti guardano Armin con aria impaziente (be’, per “tutti” intendo tutti quelli che riescono ancora a formulare pensieri dotati di senso…).

“N-non ho mai… immaginato qualcuno tra quelli seduti in questo cerchio… nudo.” Eren borbotta qualcosa del tipo non è quello che ti avevo suggerito, ma gli altri sembrano più divertiti dalla reazione di Armin piuttosto che dalla domanda in sé. Alzo gli occhi al cielo e bevo un sorso, proprio quando Reiner costringe Bert a fare cin-cin per poi mandare giù insieme qualsiasi cosa stiano bevendo.

Quello che provo per Mikasa non è esattamente un segreto in questo gruppo.

E poi, ecco, vorrei ricordarti quell’incidente quando hai buttato Marco in piscina… direi che quello conta, aggiunge il mio monologo interiore, sarcasticamente. Considerando la conseguente erezione e tutto il resto. Provo a nascondere la mia intensa vergogna dietro alla lattina di birra, mentre bevo un altro sorso per Marco.

Sia Connie che Sasha bevono un sorso spudoratamente, e lo fa anche Historia con un sorriso pieno di sottintesi (e credo che Ymir farebbe lo stesso, se riuscisse a sollevarsi dalla spalla della sua ragazza e reggere il suo drink senza il rischio di farlo cadere), e beve anche—

Aspetta un attimo.

Marco ha appena bevuto. Marco ha appena bevuto?

Nessuno sembra accorgersi del fatto che Marco abbia appena bevuto, perché all’improvviso sono tutti esaltati perché Anni ha appena mandato giù un sorso del suo cocktail, e adesso fa spallucce con nonchalance. Ma Marco ha appena bevuto.

“Wow, Annie! Ci stai decisamente nascondendo qualcosa!”

“Dai, dai, sputa il rospo!”

“Aspetta, non voglio sapere se sono io!”

“Perché mai dovrebbe pensare a te, scimmia pelata che non sei altro?!”

Tutto ciò entra da un orecchio ed esce dall’altro in realtà, perché sono bloccato qui con gli occhi spalancati (o con lo sguardo confuso da ubriaco; forse è quello il problema), puntati su Marco. Lui non mi sta guardando, ma Cristo santo, cazzo se ha le guance rosse!, e sta cercando di nasconderlo scaltramente dietro al bicchiere, pensa di essere furtivo, lo stronzetto—

Sono abbastanza ubriaco da decidere di sporgermi fin troppo vicino al suo orecchio, al che lui sobbalza immediatamente nel sentire il mio fiato sul suo collo; ma non si allontana. Anzi, in effetti… si sta avvicinando.

“Ti ho visto,” sussurro, e riesco letteralmente a sentire l’odore di birra nel mio fiato, per quanto è forte. La mia vista, tuttavia, non si sta annebbiando; probabilmente è un buon segno, altrimenti avrei rischiato di dargli una testata. “Non pensare nemmeno per un secondo che non ti abbia visto bere quel sorso, Lentiggini.”

Volta leggermente la testa, e il mio mento è praticamente appoggiato sulla sua spalla ormai (quando è successo?), e ci manca pochissimo per sbattere la testa l’uno contro l’altro.

Fa del suo meglio per non balbettare – o imprecare. Già, probabilmente per non imprecare.

“E-e quindi?”

“E quindi chi è l’oggetto delle tue perversioni, Marco?” mormoro, mentre lui dissolve lentamente in un concentrato di guance arrossate e risatine nervose. “Spero per te che non sia Eren.”

“… E se invece fosse proprio lui?”

Mi prende alla sprovvista. Aspetta, no. Non dovrebbe essere così. Eren è tutto— E soprattutto, Marco merita— Non sono abbastanza ubriaco per—

Non voglio che Marco pensi a

La linea seria e sottile in cui ha costretto le sue labbra si disintegra nel fragore di una risata, e lui si allontana da me, affondando il volto tra le mani. Mi ci vogliono uno o due secondi di risatine strozzate prima che il mio cervello ci arrivi. Gli do un colpo sul braccio.

“Non sono abbastanza ubriaco per i tuoi scherzi di merda!” ringhio per tutta risposta, ma non posso nascondere il modo in cui le mie labbra si curvano in un sorriso. Come se avessi potuto crederti… cazzo! Marco sfoggia un sorriso incerto e si morde timidamente il labbro. È ancora dello stesso colore di una fragola; soprattutto con quelle lentiggini che si stagliano sulle sue guance arrossate e, diamine, devo ammettere che è carino—

“Tocca a me!” cantilena Eren, riportandomi bruscamente al presente e facendomi allontanare nuovamente da Marco. Non sono mai stato seduto così dritto in vita mia, e in questo momento è una vera e propria sfida, perché le mie tempie iniziano a pulsare decisamente più forte, e inizio a sentire caldo, e Marco. Cazzo… Marco.

Il gioco diventa sempre più incasinato da qui in poi, perché Ymir si è addormentata, e Bert decide di cambiarsi la maglietta ormai intrisa della birra che gli avevano versato addosso, ed Eren inizia ad arrabbiarsi sempre di più perché non riesce a costruire una piramide decente con le lattine di birra. Sta calando il buio, e la luce della cucina colpisce i volti di tutti, illuminandoli di bianco e di giallo, mentre alle loro spalle incombe la luce arancione dei lampioni oltre la siepe. Le domande si susseguono nel cerchio, e diventa sempre più assurdo vedere chi beve a quale affermazione, mentre tutti si sforzano per ricordare le informazioni peggiori per potersi torturare l’un l’altro.

“Non mi hanno mai fatto un pompino sul retro della piscina della nostra scuola media,” urla Sasha, gesticolando con troppa veemenza, schizzando Connie con un cocktail di vodka e Coca-Cola.

Devo bere, ovviamente, perché è perfidamente rivolto a me. È successo solo una volta, cazzo!

“Vaffanculo, Sash!” sbotto, pulendomi la bocca in maniera poco elegante con il dorso della mano. Lei, per tutta risposta, mi rivolge una risata malvagia. “Be’, non ho mai fatto un pompino a qualcuno sul cassone del furgone di Connie!”

“Ehi, così è troppo specifico!” si lamenta, ma beve un sorso comunque. “Non ho mai—”

“Ehi, ehi, ehi!” Ecco che tuona la voce di Reiner per interromperla. “Hai già giocato il tuo turno, ragazza patata! Che ne dite di questa: non ho mai fatto il bagno nudo in una piscina!”

“Cooooosaaaaa?” Sasha e Connie urlano all’unisono. “Non l’hai mai fatto?!”

“Proprio così!” Reiner sorride beffardo, apparentemente fiero di aver trovato una cosa un po’ osé a cui non abbia ancora partecipato. “Quindi sbrigatevi a bere, voi due!”

Bevono entrambi un sorso rapido, ma tornano immediatamente a torturare Reiner come un branco di iene.

“Ehi Reiner, sai cosa dobbiamo fare adesso, vero?” sorride Sasha, sollevando le sopracciglia con aria maliziosa. Riconosco lo scintillio demoniaco nei suoi occhi (non posso che sentirmi sollevato perché, per questa volta, non sono io il suo obiettivo). Reiner posa lo sguardo sulla piscina, e poi di nuovo su Sasha ma, a giudicare dalla sua espressione, è più che contento di essere trascinato in una delle sue stupidissime sfide.

“E adessoooo spogliatiiii!” urla Connie con aria trionfante. Per poi iniziare a cantilenare. “Spogliati! Spogliati! Spogliati!”

Non credo che qualcuno sia particolarmente contento di vedere Reiner fare uno spogliarello (io sicuramente non lo sono), eppure è proprio quello che fa. Connie e Sasha gioiscono avidamente, Annie alza gli occhi al cielo e Bert – appena uscito dalla porta di casa mia con una nuova maglietta – si ferma immediatamente sul posto e sembra quasi sul punto di svenire. (Essere il badante… cioè, il ragazzo di Reiner è sicuramente un compito fin troppo difficile.) Marco, al mio fianco, non la smette di ridere; è una risata talmente intensa che lo fa piegare in avanti e lo fa tremare da capo a piedi.

“Non entrerò in piscina da solo!” arriva l’urlo di guerra di Reiner, che ormai indossa solo le sue mutande bianche fin troppo aderenti. “Dovete farlo anche voi!”

Connie e Sasha non se lo fanno ripetere due volte. Credo che dovrebbero rivalutare le loro aspirazioni nella vita per quanto riescono a spogliarsi rapidamente, rimanendo in biancheria intima in men che non si dica (è ancora più sorprendente se prendiamo in considerazione la loro coordinazione occhio-mano in questo momento); ed ecco che tutti e tre corrono sull’erba, mentre stringono ancora in mano lattine di birra e bicchieri di carta, per poi tuffarsi in piscina biascicando a squarciagola “tuffo a bombaaa!”. L’acqua straborda dalla piscina, bagnando il cemento e l’erba circostante.

“Venite, ragazzi!” Ci incita Sasha una volta tornata in superficie, agitando le braccia e lanciando un urlo quando Connie prova ad affondarla. Da qualche parte in fondo al mio cervello, penso: alcol e piscina non mi sembrano un’idea grandiosa, ma è tutto molto annebbiato e confuso, soprattutto quando Annie decide di tirare su Mikasa e trascinarla verso la piscina, mentre Eren, Bert e persino Armin li seguono senza alcuna esitazione.

“Jeanbo, Marco, venite anche voi!” grida Reiner, generando un’onda gigantesca con le braccia mentre Bert si tuffa nella parte più profonda della piscina, tappandosi il naso con le dita. Marco sta ancora ridacchiando fra sé e sé, seduto a gambe incrociate sull’erba, quindi credo che sia fin troppo ubriaco. Io, d’altro canto, non sono abbastanza ubriaco.

Per quanto possa esserlo, questa sarà sempre la situazione che odio più di tutte.

“I-io passo!” grido di rimando, alzando la lattina di birra nella loro direzione come a voler fare un brindisi. “Ci tengo a questa maglietta!”

“Allora toglila!” ribatte Sasha, affacciata a bordo piscina, con una lattina di Bud Light ancora miracolosamente stretta in mano. “Spogliatiiiii!”

 Deglutisco, e per un breve istante decisamente poco-sobrio, mi sembra di vedere uno sguardo compassionevole da parte di Eren. Possibile? È perché l’ha capito. Perché proprio Eren dev’essere l’unico tra i miei amici ad aver capito? Deglutisco a fatica e in quell’unico istante spazzo via ogni residuo dell’atmosfera spensierata che ero riuscito a godermi fino a questo momento.

“Dai, Jean!”

“Smettila di essere così scorbutico e vieni con noi!”

“Evidentemente non hai bevuto abbastanza, Jeanbo!”

Un peso collassa sul mio braccio, un volto affonda nella mia spalla cogliendomi completamente alla sprovvista. Faccio cadere la lattina che avevo in mano per la sorpresa, e la birra cola fra i fili d’erba.

“Cristo santo, Marco!”

Avvolgo un braccio attorno a lui per evitare che cada rovinosamente a testa in giù. Mi rivolge un sorriso assonnato prima di girarsi con aria imbarazzata verso gli altri in piscina.

“Scusate, ragazzi, penso che per questa volta sia meglio se restiamo seduti!” Non so come abbia fatto a dirlo senza biascicare, eppure ce l’ha fatta, e ne sono colpito, e anche molto, molto, molto grato. Sasha e Connie rispondono alle parole di Marco alzando gli occhi al cielo con aria esasperata e sorridendo come lo Stregatto, per poi tuffarsi nuovamente in acqua, piombando sul povero, ignaro Bert.

“Problema risolto,” dice Marco in un sussurro, più che soddisfatto con se stesso. Il mondo in cui lo dice riesce a stringermi il petto e farmi incespicare. Provo a sistemarlo meglio fra le mie braccia, facendo del mio meglio per risollevarlo sulla mia spalla. “Mooolto meglio.”

“Cazzo, se sei ubriaco,” gli dico, stringendolo leggermente con un braccio. Quel gesto gli fa fare un singhiozzo, che lo sorprende come se non avesse mai sentito un suono simile uscire dalla propria bocca. Idiota.

“E tu sei così… così…” C’è qualche difficoltà a Marco-landia.

“Sono così cosa?” Lo incalzo con un ampio sorriso.

Si limita a rispondere con un mormorio incoerente e affonda nuovamente il viso nella mia spalla. Mi metto a ridere, ma la risata non può nascondere il modo in cui arrossisco. Almeno gli altri sono troppo distratti per fare caso a queste dimostrazioni d’affetto. (E se proprio gli dovessero interessare delle vere dimostrazioni d’affetto in pubblico, il modo in cui Ymir sta praticamente mangiando la faccia a Christa laggiù oscurerebbe le coccole di Marco senza alcun problema.)

Continuo a tenere un braccio avvolto attorno alla sua vita; principalmente perché ho davvero bisogno di tenerlo su ma anche perché, devo ammetterlo, è una bella sensazione, e lui è così caldo, e io mi sento… ecco, non lo so. Qualcosa. Mi sento qualcosa.

“Ehi, Marco?”

“Nnn?” si leva un rumore dalla mia spalla.

“Hai passato una bella serata finora?”

Si sforza di alzare la testa, ma riesce a stento a guardarmi con gli occhi lucidi e semichiusi. Tutto il sangue che si era concentrato sul mio volto si sposta ben più giù in quel preciso istante. Merda. Evita di farti vivo proprio adesso, piccolo Jean!

“Sì,” risponde sommessamente, “Sì… anche se…” la sua voce si affievolisce, forse perché ha perso il filo del discorso. Sollevo leggermente la spalla, per provare a incitarlo ad andare avanti.

“… Anche se cosa?”

Emette un verso di protesta e lascia cadere nuovamente la testa, spiaccicando la guancia sul mio bicipite.

“Anche se mi sento in colpa…” borbotta, “… a divertirmi.” Il calore abbandona il mio corpo in un istante.

Oh. Okay. Non mi sorprende la velocità con cui trangugiava quei bicchierini, allora. Nessuno beve una bottiglia intera di vodka per divertimento. Credo sia normale cercare di allontanare i pensieri tristi affinché… non ci infastidiscano almeno per un po’. E pensare che tutti quei pensieri sicuramente hanno gravato sulla sua mente per tutta la serata.

Non so proprio cosa dire; come sempre, d’altronde, perché essere un cretino inutile con le parole è la mia specialità. È anche peggio quando il mio cervello è intaccato dalla birra e ho Lentiggini appiccicato al braccio.

“Ti stai, uh… sentendo in colpa… adesso?”

“Mmm, no…” mormora in risposta. Il suo respiro mi solletica i peli sulle braccia, e lui assume una posa ancora più scomposta. “Ho deciso… che posso essere un po’… egoista.” Non so esattamente a cosa si riferisca, ma lo invito a continuare.

“Ah sì?”

“Sì, perché… perché ci sei tu, Jean…”

Non riesco più a reggerlo quando cade all’indietro, trascinandomi con sé. La mia testa colpisce il prato con una specie di whoomph soffocato, mentre il mio braccio è intrappolato sotto al peso del corpo di Marco. Siamo entrambi stesi sulla schiena, l’uno affianco all’altro; io sono quello che somiglia di più a una tartaruga spiaggiata.

Marco ride – credo che abbia quel tipo di sbornia: trova tutto dannatamente divertente – ma non me ne lamento, perché quelle risatine gli illuminano il volto di una luce che non avevo mai visto prima d’ora. Per un istante, proprio adesso, è come se ci fossimo solo noi due – senza il frastuono che proviene dalla piscina, senza il rumore dell’acqua e delle grida – un istante in cui rimango steso qui a guardarlo, mentre il suo sguardo è rivolto al cielo. Mi sembra quasi di essere in un sogno.

Il cielo è nero, pieno di stelle; le notti a Trost non sono mai completamente buie, specialmente in estate. Marco solleva una mano, dispiegando un dito, e sembra tracciare delle linee tra le costellazioni; ed è un gesto così presuntuoso che lo trovo adorabile, cazzo!. Ma quando indica la luna – la luna, del colore della luce di una finestra quando la guardi dall’esterno – mi rendo conto di guardare solamente la sua mano. Mi sento così piccolo ma, in fondo, anche le stelle sembrano piccole da una distanza così grande. Cazzo, quanto amo le stelle. Mi ricordano le sue lentiggini, e—

E nel mio stato di ebbrezza, quelle stelle sembrano un mare luccicante di se. Cosa accadrebbe se

“Jean?”

“Sì?”

“Credo di dover vomitare.”

 

Note dell’autrice:
È stato un capitolo lungo ... scusate per il ritardo. Ho passato un sacco di tempo a creare dei cosplay, quindi eccomi qui a postarlo alle 2 del mattino a casa di una mia amica dopo una lunga giornata passata a creare l’imbracatura di SNK hahahaha

Ancora una volta, non sono soddisfatta al 100%; il capitolo sembra un po’ incasinato e non molto… ecco, graduale, ma è stato divertente da scrivere! Sta certamente nascendo qualcosa, anche se il fatto che Jean sia un ubriaco presuntuoso che sputa frasi filosofiche sulle stelle non aiuta per niente. Che sfigato.

Comunque continua così, Marco.

Il resto della festa sarà nel capitolo successivo, dove diventa tutto più fluff e io utilizzo fin troppe metafore, per la mia immensa gioia.

Come sempre, grazie mille per tutte le fan art del capitolo precedente; erano le più belle che abbia visto finora! Vi giuro che ho pianto …

Adoro sentire i commenti di tutti, quindi le vostre recensioni sono apprezzatissime, sia qui che su Tumblr. Fatemi sapere cosa vi piace e cosa non vi piace (le critiche costruttive sono ben accette!), e quello che sperate che succeda. Riuscite sempre a risollevarmi il morale.

Note della traduttrice:
Scusate tantissimo per il ritardo, ancora una volta! ;_; Lo posto anch’io alle 2 di notte senza rileggerlo per bene, quindi sopportate eventuali errori fino a domattina, quando rileggerò e correggerò tutto a dovere! Non vorrei farvi aspettare oltre quindi preferisco postarlo subito; spero che il bel capitolo compensi l’attesa infinita.

   
 
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