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Autore: SagaFrirry    21/10/2015    0 recensioni
Terzo ed ultimo capitolo della trilogia. Ormai è trascorso molto tempo dall'ultima battaglia. I pianeti e gli universi si spengono, gli Dei si addormentano. Che sia la fine? E quel ragazzo con un teschio tatuato sul volto che ruolo avrà? Vecchie conoscenze, nuovi personaggi, profezie dimenticate e divinità risvegliate. L'inizio della fine!
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La città degli Dei'
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DOVE ERAVAMO RIMASTI?

 

Kasday, dopo essere divenuto una delle divinità Alte, cade in uno stato di follia e depressione da cui pare non possa e non voglia uscire. Momoia, madre degli Alti, lo considera una sua proprietà e, di conseguenza, lo maltratta e lo deride, soprattutto in seguito alla relazione fra Kasday e la sua unica figlia nata per amore, poi portata al suicidio. La madre, resosi conto che il numero degli Alti sta calando, vorrebbe combinare l’unione fra Kasday e Raido, Signore del Cielo, ma Kasday, turbato dall’abbandono per paura di Vereheveil e disperato per la separazione da tutto ciò che amava, rifiuta di unirsi a Raido, provocando l’ira sempre più viva di Momoia. Nel frattempo gli Alti incominciano una guerra con i Celesti, creature viventi in un universo parallelo ed a loro corrispondenti. Entrambe le fazioni, rendendosi conto di non potersi sconfiggere a vicenda, decidono di chiedere aiuto ai loro sottoposti, Dèi ed esseri magici. Questi, però, spaventati da un conflitto catastrofico, date le forze degli opponenti, si mostrano titubanti e poco propensi a collaborare. Momoia perciò decide di unire ai suoi eserciti Luciherus, facendolo divenire Dio della Forza e del Coraggio. Lo incontrerà in una spiaggia su cui il Principe tentava invano di scacciare i pensieri che lo rendevano infelice. Si era, infatti, reso conto solo ora, con la sua lontananza, di quanto fosse legato a Kasday. Con la promessa che, divenuto un Dio, lo avrebbe rincontrato di nuovo, e con la prospettiva di nuovo potere, Luciherus accetta di divenire un Dio con grande sconcerto delle altre divinità, specie Vereheveil, che lo ritengono troppo impulsivo ed irascibile. I due, Vereheveil Dio delle Letterature e Luciherus, si odiano profondamente e si scontreranno spesso nel corso della storia, incolpandosi a vicenda per l’accaduto passato e per il destino di Kasday. La guerra con i Celesti non si svolge come Momoia aveva previsto. Si rende subito conto, infatti, che entrambe le parti stanno perdendo membri senza rinascere, come invece accadeva solitamente. Confusa da questa nuova situazione, sfoga la sua rabbia su Kasday, che si rifiuta di combattere, e sulle divinità minori, che costringe ad andare ad una guerra da cui sa che non potrebbero far ritorno. La Dea della Guerra, consapevole del fatto che il patto fra il figlio Kasday e gli Alti non è più valido perché i nuovi Kaos e Destino sono cresciuti, esprime il desiderio di rivederlo e chiede aiuto a Luciherus, che è ora una divinità potente. Vereheveil sconsiglia alla Dea di farsi accompagnare da un individuo simile perché pericoloso ma poi, vista la determinazione della Dea, decide di aiutarla ed affrontano tutti e tre le guardie che sorvegliano il palazzo di Kasday, blindato e proibito. Riescono nel loro intento solo grazie all’aiuto di spiriti non più in vita: l’antico Kaos, sposo della Guerra; Kadmon, padre di Luciherus, e la bellissima madre di Vereheveil. Kasday non vuole incontrarli ma, grazie all’aiuto del suo angelo vigilante Nosmagiés, hanno modo di vedersi. Vereheveil, ancora spaventato dal nuovo aspetto inquietante di Kasday, non nasconde i suoi timori, ma Luciherus, sempre più attratto dall’impossibilità di averlo, gli fa capire che non potrebbe mai spaventarlo o odiarlo e capisce di amarlo, non solo nel suo aspetto femminile. All’inizio della guerra globale in cui tutti si incontrano, Dèi ed altre creature, ecco che si scopre che in realtà la causa della morte di Alti e Celesti è proprio Kasday, che li uccide e li assimila a sé. Luciherus, a conoscenza della cosa dopo il loro momento di passione, non interviene e rispetta il suo desiderio di morire, pur non comprendendolo. Kasday uccide Momoia, unica creatura in grado di farlo rinascere, ma viene attaccato dal figlio Kavahel, che teme che gli universi possano finire una volta morti tutti gli Alti ed i Celesti. Sotto un albero al tramonto, Kasday muore abbracciando Luciherus, che piange perché non vuole perderlo. L’albero fiorisce, mentre il corpo del creatore di quel mondo si dissolve. Kavahel diviene una divinità molto più potente, mentre Luciherus si ritira su un’isola, lasciando la guida del pianeta dei Demoni a Mihael, nel frattempo caduto. Il Principe dei demoni, in isolamento, si ritrova a guardare l’orizzonte oltre il mare, udendo in lontananza la voce dei suoi nipotini e comprendendo il desiderio di morte di Kasday. Sentendone la mancanza, è convinto di avvertirne la presenza ovunque e, quando la vede, in forma femminile, fra le onde del mare, la segue. Solo in seguito si accorge che solamente la sua anima l’ha seguita, mentre il suo corpo è rimasto in terra, senza vita, ignorando le visioni avute in precedenza in cui lui e Kasday dovranno avere un figlio che porterà alla fine del Mondo.

Ricordate?


 

I
IL FIGLIO DEI MORTI

 

Kevihang aprì gli occhi, aranciati e luminosi, con le pupille sottili come fogli di carta, e guardò fuori. Era buio, ma fuori era sempre buio. Si rigirò nell’alto letto in cui stava sprofondando, a causa dell’eccessivo numero di coperte e cuscini, e sbadigliò, agitando lievemente le piccole orecchie a punta. Una risata fanciullesca gli comunicò che i suoi compagni di stanza erano già svegli.

Sbirciò distrattamente l’orologio e sospirò. Era prestissimo ma, del resto, gli altri due bambini con cui divideva la stanza avevano ottime ragioni per essere felici, svegli e pimpanti. Era un giorno importantissimo: giorno d’adozioni. L’orfanotrofio, in cui Kevihang viveva fin dalla nascita, apriva le sue porte al pubblico una volta al mese per dare la possibilità ai suoi piccoli ospiti di trovare una casa ed una famiglia. Ma per quel bambino dagli occhi aranciati quello era un giorno come tanti. Erano ormai diversi mesi che aveva abbandonato la speranza di lasciare quel luogo in compagnia di un papà e di una mamma. Per anni era stato trascinato fuori dalla sua cameretta dall’istitutrice per essere messo in fila, mano nella mano con altri bambini, ad essere ispezionato dalle coppie che desideravano avere un figlio. Mano nella mano, in quel rito così simile alla scelta dell’animale da uccidere per la festa di famiglia, con tutti quei commenti su quanto un bambino fosse alto o basso, magro o grasso, da fare disgusto all’abbandonato Kevihang. Animali pronti al macello, l’uno accanto all’altro, di fronte all’occhio critico di coppie esaminatrici.

Kevihang non aveva mai ricevuto un solo sguardo d’approvazione da parte di qualcuno, salvo dai due adulti che gestivano la struttura che lo ospitava. Lui era strano. Lui era diverso.

Sospirò di nuovo, raccogliendo i capelli blu scuro in una coda. Non erano lunghissimi, gli arrivavano fino alle spalle, ma tendevano a gonfiarsi ed a coprirgli gli occhi. Coloro che gli facevano da insegnanti e tutori, insistevano perché tenesse almeno un ciuffo sul viso per coprire quel disegno. Era quel disegno la causa principale della sua mancata adozione. Il lato sinistro del suo volto era coperto dall’immagine di un teschio, di un mezzo teschio, la cui orbita corrispondeva quasi perfettamente con la cavità oculare del bambino. Il tutto era fissato, ricamato, con un sottile filo spinato o gambo di rosa che si arricciava sul suo mento e sulla fronte. Quella specie di tatuaggio, che sapeva di avere fin da quando aveva memoria, lo rendeva inquietante. Nessun genitore lo voleva e nessuna coppia lo avrebbe mai voluto. Lui era il “figlio dei morti”, colui che portava sul viso l’eterno respiro della fine della vita. Ma non era solo quel teschio a renderlo diverso. I suoi capelli, ad esempio, non erano di un colore unico, o con lievi riflessi, ma venivano bruscamente disturbati da due enormi ciuffi rossi, simili ad antenne, che non ne volevano sapere di stare in ordine. Stavano sempre in piedi, dritti, oppure ripiegati in avanti creando un semicerchio piuttosto ampio e, a detta di Kevihang, fastidioso. Quella massa blu scuro che portava in testa, spesso celava le sue due piccole corna scure, quasi nere ma con lievi riflessi magenta, che apparentemente lo facevano rientrare nella cerchia delle creature demoniache. Ma quelle due corna erano l’unica cosa “demoniaca” che il piccolo possedeva. Non aveva ali, cosa che suscitava parecchia ironia ed ilarità fra i suoi “colleghi” d’orfanotrofio. Di certo, però, non erano tanto le sue ali mancate a far nascere le più crudeli derisioni quanto la sua coda. A Kevihang, dopotutto, piaceva, ma quella coda era morbida, affusolata, lunga e ricoperta da un soffice pelo rossiccio. Era la coda di un gatto, o di una scimmia, ma non quella di un demone!

Lui era “Kevihang: il figlio dei morti”, “Kevihang: il coda morbida” e “Kevihang: il senz’ali”. Il bambino si vedeva semplicemente come “Kevihang: il senza famiglia”.

La cosa lo rattristava e lo irritava, ogni giorno di più. Era convinto che perfino sua madre si fosse spaventata al momento della sua nascita, e che per questo fosse stato abbandonato. Frustrato, solo ed abbattuto, faceva sempre più fatica a nascondere la sua rabbia ed il suo rancore, ma anche quella mattina scese dal letto con un mezzo sorriso, cercando di essere gioviale con i suoi compagni di stanza, che avrebbe potuto non rivedere più. Se, la fuori, fossero stati scelti da qualcuno, non sarebbero più tornati. Nessuno mai tornava in quel luogo, una volta che aveva la possibilità di lasciarlo. Non perché si stesse male, ma perché era carico di solitudine e ricordi che si cercava di cancellare per sempre.

E così Kevihang, bambino infelice, sperava un giorno di trovare comunque la sua via e di poter sostituire tutte quelle ore di mancati abbracci con tanti sorrisi ed amore. Se non l’amore di qualcun altro, almeno l’amore per se stesso. Lui si odiava. Odiava il suo viso, quel disegno raccapricciante, quella coda, quei piedi a punta ed esageratamente grandi, quelle due antenne rosse fatte di capelli ribelli e quelle due ali mancate. Odiava tutto di se stesso. E non capiva a che razza potesse appartenere.

L’orfanotrofio si trovava in uno dei pianeti ribattezzati “neutri”, cioè quelli in cui risiedevano Angeli, Demoni e Dèi, assieme ad altre creature, senza particolari gerarchie o problemi. Ormai quasi tutti i pianeti, nei vari Universi e Multiversi, erano neutri o misti, tranne qualche eccezione. Questo perché, a seguito della grande guerra fra Alti e Celesti, non c’erano stati altri conflitti e non era più necessario che ogni creatura avesse il suo spazio e la sua posizione gerarchica. Kevihang non sapeva in che categoria inserirsi, a differenza di tutti gli altri bambini che conosceva e che collocava benissimo chiunque in una di queste. Lui cos’era? Non era un angelo, aveva le corna! Non era un demone, aveva la coda morbida! E di sicuro non era un Dio. Sanguemisto? E fra che specie? Non lo capiva. Ma una cosa la sapeva: lui possedeva la magia. E non una magia debole ed a malapena percepibile bensì una forza che a volte faticava a controllare e che escludeva la sua appartenenza alle creature senza forza magica che popolavano molti pianeti.

Lui non era niente ed allo stesso tempo era tutto.

La cosa lo faceva a volte sorridere ed a volte piangere, altra caratteristica che lo separava dai demoni, ma era più che consapevole di essere tremendamente testardo e che nulla gli avrebbe impedito di raggiungere il suo scopo: scoprire chi fossero i suoi veri genitori. Non sapeva nulla di loro, non era sicuro che fossero ancora in vita e da dove venissero, se lo avevano abbandonato di proposito oppure per scelta, se lo amavano anche solo un poco o se erano fuggiti da lui. Non sapeva nulla. Ciò che sapeva era che era stato trovato sotto l’albero delle lacrime, uno dei pochi che ancora mostrava i suoi fiori al cielo, avvolto proprio da uno di quegli enormi fiori rosso sangue a riflessi azzurri. Non aveva indizi su cui lavorare, ma aveva un piano. In quell’orfanotrofio si studiava ed in una delle lezioni si era parlato della biblioteca del Principe Mihael, in cui erano riposti, si diceva, tutti i libri dei Mondi. Era la biblioteca del Dio delle Letterature e delle Lingue, Vereheveil, e si diceva che in quel luogo si potessero trovare tutte le risposte. Kevihang, piuttosto ottimista oltre che testardo, aveva congeniato un complesso piano di “fuga” che poteva permettergli di raggiungere il palazzo del Principe e trovare la sua risposta.

In ogni caso, anche se tutto ciò che aveva in mente si fosse rivelato un fallimento totale, era più che intenzionato a non tornare all’orfanotrofio. I maestri erano gentili ed il posto era carino, ma era stanco di essere preso in giro e voleva guardare oltre, oltre quel piccolo cancelletto, che dava su quello che una volta era un rigoglioso giardino a detta degli adulti, oltre quella sconfinata distesa di ghiaccio e neve che riusciva a scorgere dalla finestra e che era l’unica cosa che aveva visto da anni, oltre la sua condizione d’orfano e di figlio di nessuno.

Convinto come non mai, si coprì per bene con un pesante mantello, approfittando del fatto che i suoi compagni di stanza ed i tutori erano tutti impegnati con le coppie in visita alla struttura, ed uscì dalla finestra, con in spalla un piccolo zaino. Un profondo respiro, caldo e sicuro, e poi si lanciò in quel mondo freddo, inospitale e sconosciuto. Sfidando il buio ed il pericolo, si allontanò a passi svelti mentre la neve già ricopriva le sue orme. Si avviò verso la piazza del paese, sicuro di sapere dove trovare un passaggio per il Mondo dei Demoni, il mondo del Principe, dove stava la biblioteca che conteneva le sue tanto desiderate risposte. Alzando il cappuccio, per nascondere il teschio sul suo volto, si fece guidare dall’istinto e, senza paura, chiese ad un grosso demone se sapeva come poter raggiungere il regno del suo popolo. Il demone gli sorrise e, porgendogli la mano, gli offrì un passaggio. Kevihang, di risposta, sfoggiò un sottile ghigno, mostrando un piccolo dentino a punta, e allungò la manina verso quella dello sconosciuto, pronto a partire.


   
 
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