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Autore: Celtica    02/04/2016    6 recensioni
| Storia pubblicata su Amazon: Myricae - il giorno che ti ho perso |
Un cane, quando viene abbandonato, si sente in colpa.
Pensa di essere stato lui, di aver sbagliato, di aver agito male. Cerca il padrone perduto, lo aspetta, lo desidera e lo teme.
Davanti a lui può esserci la fine, o un nuovo inizio.
Esattamente come nella vita di Marta, la ragazza che l'ha abbandonato, e di Tobia e Luna, due amanti dei cani.
Lui è il filo conduttore che li lega.
Storia in pausa, ma ancora per poco.
Genere: Angst, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Cap 3
nn


Terzo capitolo

Quando tornava mio padre sentivo le voci…
Dimenticavo i miei giochi e correvo lì.
Mi nascondevo nell'ombra del grande giardino
E lo sfidavo a cercarmi: io sono qui.

Non so più il sapore che ha
Quella speranza che sentivo nascere in me.
Non so più se mi manca di più
Quella carezza della sera
O quella voglia di avventura…
Voglia di andare via, di là.

(Quella carezza della sera, New Trolls)


È strano trovarsi in una casa diversa.
Non riconosce il suo odore, non c’è niente di lui in quella stanza. Quando la porta si è aperta, ha pensato che li avrebbe trovati ad aspettarlo. Che sarebbero stati lì per lui.

Invece, al posto di Marta e Mamma, ha fiutato altre cose.

Il suo olfatto è stato attratto dal gatto, quell’animale che ora lo fissa spaventato dalla cima di un mobile. Ha deviato verso la cucina, dove alcune voci avevano già dato segno della loro presenza, giusto un istante prima che lui potesse captare il pollo arrosto.
Per ultimo, ha avvicinato il muso alla felce che lo separa dal lungo tappeto liso. C’è una macchia nel centro: riesce a sentire l’odore di logoro.

Irrigidisce le orecchie, mentre una vocina acuta arriva dalla cucina.
«Mamma! È tornata la mamma!»
Lui sgrana gli occhi quando la vede.

Non è la sua Marta, non le somiglia neanche.

È bassa, può giusto guardarla negli occhi, e grida, grida più di quanto non abbiano mai fatto in casa sua. Porta le orecchie indietro e china la testa, i muscoli si irrigidiscono mentre la segue con lo sguardo. Non perde un solo movimento.

«Basta» sussurra la donna alla bambina. Lui deve voltare il capo per poterle guardare. «Lo spaventi così. Torna di là, io arrivo.»

Gli basta vederla sparire oltre la soglia illuminata per rilassarsi. Tira fuori la lingua per l’ansia, ma la donna non capisce; pensa che lui sia felice.

«Non posso tenerti…» ripete, accucciandosi di fronte. Ha un sorriso triste. «Davvero, non posso…»

Lui reclina il muso, come a chiedersi cos’abbia. Il respiro si ferma di colpo prima di tornare normale. Ma lei insiste, lei, proprio, non capisce.

«So che vorresti restare, ma non puoi.»
«Lilli! Vieni qui!»
Un’altra voce, più rigida, da uomo, la richiama. E la donna si alza, obbediente. Gli sfiora un orecchio prima di lasciarlo solo.

Lui si guarda intorno, non è casa sua, ma tante cose gliela ricordano.
Ricorda quando aspettava in giardino il ritorno del suo padrone, ricorda le rincorse con Marta, che finivano sempre con lei aggrappata al suo collo, ricorda le scale. Ricorda il momento in cui la sua compagna lo salutava in cima all’ultimo gradino, prima di andare a dormire.

«Ti farei entrare…» gli ripeteva. «Ma papà non vuole.»

E arrivava la carezza, quella dolce, ultima carezza prima del sonno.
Quella carezza che lo spingeva a chiudere gli occhi, quella carezza che lo faceva sentire amato, che riusciva a fargli dimenticare ogni gioco, ogni desiderio di correre libero in un prato.

Tutto svaniva quando Marta seguiva il suo profilo con le dita. Ogni cosa perdeva importanza perché c’era lei, quel suo premere il pelo, girare intorno all’orecchio e raggiungere la guancia.
Persino l’odore di fumo che circondava Marta svaniva.

Bastava chiudere gli occhi…

«Tieni» mormora Lilli, tornando dalla cucina con un piatto di carta. Riconosce subito di cosa si tratta: pollo. Si passa la lingua sul naso prima di tirarsi a sedere come gli è stato insegnato. «Ti porto anche l’acqua adesso.»

Non resta a guardarla mentre se ne va, si china sul cibo, pronto a mangiarlo. Ma gli basta un’annusata per tirarsi indietro.
Come può mangiare?
Loro non sono con lui. Sono da qualche parte, lontani, a chiedersi dove sia finito, perché ora non stia mangiando insieme a loro. No, non può mangiare.

Volta il capo al piatto, pensando a quando Marta gli allungava qualche avanzo; era bello stare accucciato ai suoi piedi, aspettare, guardarla pregandola di dargli qualcosa.
E qualcosa arrivava sempre.

«Ecco l’acqua» Lilli fa per tornare in cucina, ma poi si volta e lo guarda. «Mangio e comincio subito a fare un giro di telefonate. Vediamo se sei scappato.»

Ha un’espressione incerta mentre lo lascia, come se non credesse nemmeno lei al fatto che possa averlo fatto…
Ci ha pensato, questo sì. Ha avuto voglia di allontanarsi da Marta, durante il giro al parco. Ma non è mai successo. Ha desiderato la libertà, ma non ha mai lottato per averla.

Perché avrebbe dovuto?
Aveva qualcuno che lo amava.

Ora, però, è solo. Lilli è stata buona con lui, ma Lilli non è Marta, non è Mamma, non è il suo padrone. Lilli è solo la donna che dovrà riportarlo da loro, di questo è certo.
Passa gli istanti successivi sdraiato sul tappeto consumato, lasciandosi studiare dal gatto sopra il mobile. Restano a guardarsi finché quello strano esserino bianco e nero non decide di soffiare. Soffia contro di lui, come se fosse di troppo, come se stesse occupando un posto che non è il suo.

Poi salta giù e corre in cucina.

Lui lo ignora, ma sa, sa che se Marta fosse con lui, se ora tutta la famiglia fosse riunita, passerebbe i momenti successivi a inseguirlo. Correrebbe dietro al gatto per tutta la casa, ignorando le grida, così come le ha ignorate il giorno in cui Marta ha lasciato entrare un randagio.
È stato divertente, per un po’. Ma poi il suo padrone ha lanciato il gatto fuori dalla porta… Ricorda il pianto di Marta, e ricorda il suo senso di colpa. Senso di colpa per averlo inseguito, per non aver capito che non era desiderato in casa.

Ma ora è lui l’estraneo.

Gli occhi verdi del gatto spuntano dietro la colonna della cucina, e lo fissano come Marta aveva osservato, disgustata, la mela marcia che lui aveva preso in giardino.
Lo aveva sgridato, quel giorno.

«Pronto?»
La voce di Lilli corre dritta dentro il suo orecchio, anche se non può vederla. Ignora il gatto e sbuffa, posando la testa sulle zampe anteriori.

«Sandra, ciao! Scusa l’ora, ma ho trovato un cane per… Sì, sì, proprio lì. No, io stavo tornando, a dire il vero… Ah, sì… È… Com’è? Ecco, è grosso. Non saprei dirti la razza. Lo so, lo so che non ti sto aiutando! Aspetta, è… ha il muso nero e il corpo marrone chiaro, è magro ed è come se avesse una ruga sulla fronte… Gli occhi! Ha degli occhi bellissimi. Sono scuri, ma non marroni come quelli degli altri cani, sono… No, no, sono… Non saprei, quasi grigi.»

La vede un istante, mentre sembra accertarsi che lui sia ancora lì.

«Sandra, non so dirti come sono le orecchie!» Scuote la mano davanti a lui, e solleva gli occhi al soffitto. «Sì, sono attaccate alte, sono lisce e larghe. Ah, un segugio dici. Non ne ho idea, Sandra.»

Lilli gesticola davanti a lui, tanto da farlo sbuffare ancora. Dov’è Marta? Perché non è lì con lui? Perché non viene a prenderlo…

«Va bene, sì, chiedi in giro. Ma certo! Ti mando la foto! Subito, cara. Falla girare, tu hai i contatti giusti.»

Lilli lo raggiunge e si china davanti a lui. Gli punta il telefono contro, ed è una fitta di nostalgia quella che lui sente. Quel gesto gli ha ricordato Marta…

«Ecco, ci sei?» continua Lilli, tamburellando le dita sul telefono. «Te l’ho appena mandata. Ce la fai a farmi sapere entro… Ah, ah va bene. Domani mattina? Non saprei… Preferirei farlo restare qui, ti dispiace? Sì, non mi va l’idea di farlo girare come una trottola. Se trovi i padroni chiamami.»

Lui si lascia andare sul tappeto, si gira di lato, sdraiandosi con la pancia all’aria. Marta lo accarezzava sempre quando si metteva in quella posizione… Marta.
Ma ora Marta non è con lui.

                                                            ┌

Lasciate entrare il cane coperto di fango, si può lavare il cane e si può lavare il fango…

Ma quelli che non amano né il cane né il fango...

Quelli no, non si possono lavare.

(Jacques Prevert)

                                                          ┘

Solleva il polso per guardare l’ora: già dieci minuti di ritardo.
I treni non sono mai puntuali, trova a ripetersi. Ma Luna è nervosa e vorrebbe solo tornare a casa sua. È sola, ed è davvero molto tempo che non aspettava in stazione senza Tobia. Troppo tempo.

Si sente ancora arrabbiata con lui, per il modo in cui sta cercando di ignorarla, proprio come faceva quando la sapeva fuori con un ragazzo.
Luna sbuffa e si porta una ciocca ribelle dietro l’orecchio.
Quanto tempo è passato da quando se n’è accorta? Eppure Tobia non ha mai detto una parola, ha sempre comunicato il suo mondo attraverso sguardi e gesti. E silenzi.

C’è un po’ di gente intorno a lei, gente impaziente di prendere il treno, gente che batte i piedi sul cemento e volta la testa verso la galleria.
Ma il treno non è stato annunciato, non deve arrivare.

«Vai via adesso?» le ha chiesto quella stessa mattina, mentre Luna preparava la borsa. «Non aspetti stasera?»
Era uguale a chiederle: non mi aspetti?

No, avrebbe voluto rispondere Luna. Svegliati, Tobia. È anche ora.
Ma sa che lui non avrebbe capito, o, forse, che l’avrebbe ignorata, chiudendosi nei suoi silenzi, chinando lo sguardo al pavimento in cotto, e lasciandola andare via.

Come ha sempre fatto.

La verità è che Luna lo provoca apposta, gli mente apposta, come quando ha detto di essere come una sorella per lui… Non era vero. Ma lei si aspettava una reazione, si aspettava che Tobia si arrabbiasse, che le gridasse contro.
Invece è rimasto in silenzio con i suoi occhi spalancati.
Luna sa di averlo ferito, ma cos’altro avrebbe dovuto fare? Tobia non sembra capire. Tobia vive in un mondo tutto suo. E, questo, Luna non riesce ad accettarlo.

Qualcuno la spinge quando l’altoparlante annuncia l’arrivo del treno. È il nervosismo dell’attesa, l’impazienza derivata dal ritardo. Ma Luna si volta comunque a guardare chi è dietro di lei, e lo fa male, usando i suoi occhi ambrati come una lama.

«Ehi» mormora stringendo i denti.

Chi è dietro di lei, una donna magra, ben vestita e completamente truccata, non risponde, si limita a lasciarle un po’ di spazio. Un po’ di respiro. Ma poi Luna si accorge del motivo per cui le è finita addosso. E, cosa peggiore, la sente.

«Speriamo che non salga» dice la donna a voce bassissima, guardando un cane. «Dovrebbero proibirlo.»

Luna resta in silenzio, ma la vampata di calore che sta crescendo in lei raggiunge le sue orecchie. Saranno diventate rosse, ne è sicura, è stato Tobia a farglielo notare un giorno di tanti anni prima: si imporporano sempre quando è arrabbiata.
Infila le mani nelle tasche dei pantaloni di lino chiaro e aspetta, aspetta che le passi. Sa che rispondere sarebbe inutile, servirebbe solo a litigare.

Ma poi commette un errore…

Quando il treno arriva, Luna commette l’errore di voltare lo sguardo intorno a sé e lo nota: quasi nessuno vorrebbe il cane a bordo.
La padrona del boxer sembra saperlo già. Resta ferma ad aspettare che siano saliti tutti prima di avvicinarsi alla linea gialla. Non cerca le persone, i loro visi, ha gli occhi fissi sul treno.
E Luna prova tanta pena per lei.
Quando è il suo turno di affrontare il gradino si volta e le sorride.

«Prego, andate prima voi.»
Quel voi sembra rendere felice la donna. Le passa davanti facendo un cenno con la testa, mentre il cane la annusa scodinzolando.
Luna li raggiunge nel vagone e li segue, sedendo accanto a loro. È allora che prende ad accarezzare il cane.

«Come si chiama?»
«Fenrir» risponde la donna allentando la presa sul guinzaglio. «Ho preso un biglietto anche per lui.»

Luna annuisce, pensando al giorno in cui ha deciso di convincere Tobia a prendere un cane: viaggiavano in treno in quel momento. E Tobia aveva abbassato gli occhi, confuso.

«Certo, altrimenti non avrebbe potuto portarlo.»
«Però non sembra che per la gente sia cambiato qualcosa…» confida la donna, arricciando con delusione le labbra. «Hanno fatto tante leggi, eppure continuano a essere… Non saprei come definirlo…»

Luna cerca i suoi occhi e pensa, pensa a quando ha affrontato un discorso simile con Tobia.
«Razzisti» termina Luna al posto suo.

Il treno sta ripartendo e lei accompagna una ciocca dietro l’orecchio che, come al solito, rimane incastrata nell’anello. Luna aspetta, sapendo che presto qualcuno la libererà, ma poi si rende conto.

Tobia non è con lei.

«Termine perfetto. Razzisti. Sono proprio razzisti» riprende la donna mentre i finestrini vengono oscurati dal buio della galleria. «Dico sempre ai miei studenti che devono capire, accettare le cose, che ci sono tanti modi per cambiare opinione. Ma non serve…»

Luna libera la ciocca, cercando di non dare peso a quella mancanza che sente dentro. Non è il momento, si dice. Eppure… eppure il cuore prende a battere un po’ più forte.

«Cosa insegna?» chiede poi, per distrarsi, mentre la donna gratta Fenrir dietro le orecchie.
«Italiano in un liceo.»

Luna sgrana gli occhi, sorridendo.
«Io amo leggere. Studio Economia, ma sono appassionata di letteratura e poesia. Passo i pomeriggi a studiare per poi poter trascorrere la lezione a leggere poesie… Non con tutte le materie, ovvio.»

C’è il mare alla loro sinistra, sembra quasi che il treno debba finirci dentro da un momento all’altro. Ma è solo la costa… E i sassi che si affacciano sull’acqua rendono tutto più eccitante.

«Come ti chiami?»
«Luna. E lei?»
«Ludovica. Stai tornando a casa?»


Luna sorride: casa le è mancata. Le manca ogni istante che passa lontano, ed è un amore grande quanto quello che prova per i cani.

«Sì, ci voleva.»
Ludovica sta per rispondere, forse sta per dirle cosa va a fare nel ponente. Ma un vecchio la interrompe, passando vicino ai loro sedili.

«Li portano proprio dappertutto…» dice. Lo fa scuotendo la testa, mentre le persone intorno si voltano a guardare Fenrir.
Ma Fenrir è tranquillo, non sembra rendersi conto di non essere voluto. Ed è questo a far scattare Luna.

«Mi scusi,» comincia, voltandosi con un sorriso al vecchio. Tutti gli occhi sono puntati su di lei, sente di tremare, eppure riesce ad apparire tranquilla. «le dà fastidio il cane?»
Lo dice con una tale dolcezza che il vecchio si ritrova costretto a fermarsi, abbassando il capo sul corridoio.

«Una volta non si potevano portare…»
«La legge è cambiata. Adesso si possono portare, si può vivere con loro ovunque. Non esistono più condomini che possano proibirlo… È la legge.»

Il vecchio borbotta qualcosa su peli e sporcizia, e Luna si porta una mano alla fronte.
«Lei di che anno è, mi scusi?»
«Prego?»

«Adesso siete tutti igienisti, ma lei dovrebbe sapere come vivevano le persone una volta. Non crede che sia esagerato tutto questo? Sono animali, non dico che siano persone, anzi trovo che sia sbagliato trattarli come tali, ma non crede…» Luna si alza in piedi e il tono di voce diventa alto e duro, mentre si rivolge a tutti i presenti. «Non credete tutti che sia assurdo?»

Fa una carezza a Fenrir prima di terminare e tornare a sedersi.
«Sapete una cosa? Vergognatevi. Vergognatevi tutti.»

                                                                ┌

Se hai un cane, hai un amico e più diventerai povero, migliore sarà quell’amico.

(Will Rogers)

                                                                                                                                                    ┘

Marta sbadiglia sul divano.
Sta aspettando da un quarto d’ora che Anna arrivi a casa sua. Fa sempre così, la sua amica.
Quando aveva ancora il suo cucciolo era diverso, però.
Marta restava in giardino a giocare con lui, a tirargli la palla, a farsi rincorrere. Finché non vedeva spuntare Anna in lontananza…

Cambiava tutto quando arrivava lei.

Doveva lasciare il cane fuori dalla porta, perché Anna non sopportava di averlo in casa. Era tutto diverso allora…
Marta sistema la coda di cavallo sui cuscini del divano e si sdraia. Dalla finestra dietro di lei entra la luce del sole. Ma da quando lui non c’è più, Marta ha passato poco tempo all’aria aperta.
Il citofono suona in quel momento, mentre ricorda i latrati del cane fuori dalla porta.

Le sembra ancora di sentirli.

«Ehi!» dice Anna abbracciandola. È vestita di nero, con i lunghi capelli lisci che sembrano sfumare verso il blu. «Come stai?»
Marta la lascia entrare e, senza farlo apposta, l’occhio corre alla scalinata dove lui la aspettava ogni sera. Non le manca, Marta lo sa, eppure non riesce a smettere di pensarci.
Ha passato troppo tempo con lui, è stato questo il problema.
Ma a sbagliare è stato il cane, perché era un animale, proprio come le ha spiegato suo padre.

«Prendi qualcosa?»

Anna le fa cenno di no mentre attraversa il corridoio per entrare nel salotto. C’è tanta luce lì, e il trucco che Anna ha in viso diventa inquietante quando si volta per sorriderle.

«Avete cambiato qualcosa?»

Marta le fa segno di sedersi prima di rispondere. Osserva la maglia larga di Anna, quelle pieghe che le nascondono i fianchi e, di nuovo, il muso del cane torna a farle visita.
Aveva anche lei una maglia simile… prima che lui la rompesse.

«Sì, mia madre ha voluto buttare via un po’ di roba. Sai, soliti cambiamenti… Diceva che era ora di cambiare.»

Anna si morde un’unghia e prende a guardarsi intorno. Marta sa che sta per arrivare un’altra domanda, che Anna le chiederà qualcosa del caminetto bianco, o del tappeto marrone, o quando si decideranno a cambiare il lampadario… Non le è mai piaciuto, e sembra volerglielo fare presente tutte le volte.

«State meglio, no?»

Marta la osserva senza capire. Siede al lato opposto del divano, con le ginocchia sul cuscino, e aspetta spiegazioni.

«Ora che vi siete liberati del cane… state meglio?»

Anna lascia che le ciocche scure le finiscano in faccia e si guarda il pollice prima di riprendere a morderlo. Marta, invece, rimane sgomenta. Forse è perché non la sente rispondere che Anna cambia argomento. È sempre così con lei: bisogna essere sempre pronti.

«Ma quando vi deciderete a cambiare lampadario? Sembra quello di mia nonna…»

Era solo un cane, eppure da lui Marta sapeva cosa aspettarsi.

                                                         ┌

Sua madre la aspetta in stazione.
Luna le va incontro, un po’ pentendosi di essere sola. Dovrebbe essere con Tobia ora.
«Com’è andata? Pronta per gli esami?» chiede sua madre. Non le lascia il tempo di rispondere…
«Abbiamo un ospite.»
Ma Luna non ha idea di chi stia parlando.

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nn

Note dell’autrice:

Arrivo in ritardissimo, mi dispiace… Per farmi perdonare non vi lascerò da leggere note! Mi limiterò a chiedervi scusa.
Celtica

   
 
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