Terzo
capitolo
Quando
tornava mio padre sentivo le voci…
Dimenticavo i miei giochi e correvo lì.
Mi nascondevo nell'ombra del grande giardino
E lo sfidavo a cercarmi: io sono qui.
Non so più il sapore che ha
Quella speranza che sentivo nascere in me.
Non so più se mi manca di più
Quella carezza della sera
O quella voglia di avventura…
Voglia di andare via, di là.
(Quella
carezza della sera, New Trolls)
È
strano trovarsi in una casa diversa.
Non
riconosce il suo odore, non c’è niente di lui in
quella stanza. Quando la porta
si è aperta, ha pensato che li avrebbe trovati ad
aspettarlo. Che sarebbero
stati lì per lui.
Invece,
al posto di Marta e Mamma, ha fiutato altre cose.
Il
suo olfatto è stato attratto dal gatto,
quell’animale che ora lo fissa spaventato
dalla cima di un mobile. Ha deviato verso la cucina, dove alcune voci
avevano
già dato segno della loro presenza, giusto un istante prima
che lui potesse
captare il pollo arrosto.
Per
ultimo, ha avvicinato il muso alla felce che lo separa dal lungo
tappeto liso.
C’è una macchia nel centro: riesce a sentire
l’odore di logoro.
Irrigidisce
le orecchie, mentre una vocina acuta arriva dalla cucina.
«Mamma!
È tornata la mamma!»
Lui
sgrana gli occhi quando la vede.
Non
è la sua Marta, non le somiglia neanche.
È
bassa, può giusto guardarla negli occhi, e grida, grida
più di quanto non
abbiano mai fatto in casa sua. Porta le orecchie indietro e china la
testa, i
muscoli si irrigidiscono mentre la segue con lo sguardo. Non perde un
solo
movimento.
«Basta»
sussurra la donna alla bambina. Lui deve voltare il capo per poterle
guardare.
«Lo spaventi così. Torna di là, io
arrivo.»
Gli
basta vederla sparire oltre la soglia illuminata per rilassarsi. Tira
fuori la
lingua per l’ansia, ma la donna non capisce; pensa che lui
sia felice.
«Non
posso tenerti…» ripete, accucciandosi di fronte.
Ha un sorriso triste.
«Davvero, non posso…»
Lui
reclina il muso, come a chiedersi cos’abbia. Il respiro si
ferma di colpo prima
di tornare normale. Ma lei insiste, lei, proprio, non capisce.
«So
che vorresti restare, ma non puoi.»
«Lilli!
Vieni qui!»
Un’altra
voce, più rigida, da uomo, la richiama. E la donna si alza,
obbediente. Gli
sfiora un orecchio prima di lasciarlo solo.
Lui
si guarda intorno, non è casa sua, ma tante cose gliela
ricordano.
Ricorda
quando aspettava in giardino il ritorno del suo padrone, ricorda le
rincorse
con Marta, che finivano sempre con lei aggrappata al suo collo, ricorda
le
scale. Ricorda il momento in cui la sua compagna lo salutava in cima
all’ultimo
gradino, prima di andare a dormire.
«Ti farei entrare…»
gli ripeteva. «Ma papà
non vuole.»
E
arrivava la carezza, quella dolce, ultima carezza prima del sonno.
Quella
carezza che lo spingeva a chiudere gli occhi, quella carezza che lo
faceva sentire
amato, che riusciva a fargli dimenticare ogni gioco, ogni desiderio di
correre
libero in un prato.
Tutto
svaniva quando Marta seguiva il suo profilo con le dita. Ogni cosa
perdeva
importanza perché c’era lei, quel suo premere il
pelo, girare intorno all’orecchio
e raggiungere la guancia.
Persino
l’odore di fumo che circondava Marta svaniva.
Bastava
chiudere gli occhi…
«Tieni»
mormora Lilli, tornando dalla cucina con un piatto di carta. Riconosce
subito
di cosa si tratta: pollo. Si passa la lingua sul naso prima di tirarsi
a sedere
come gli è stato insegnato. «Ti porto anche
l’acqua adesso.»
Non
resta a guardarla mentre se ne va, si china sul cibo, pronto a
mangiarlo. Ma
gli basta un’annusata per tirarsi indietro.
Come
può mangiare?
Loro
non sono con lui. Sono da qualche parte, lontani, a chiedersi dove sia
finito,
perché ora non stia mangiando insieme a loro. No, non
può mangiare.
Volta
il capo al piatto, pensando a quando Marta gli allungava qualche
avanzo; era
bello stare accucciato ai suoi piedi, aspettare, guardarla pregandola
di dargli
qualcosa.
E
qualcosa arrivava sempre.
«Ecco
l’acqua» Lilli fa per tornare in cucina, ma poi si
volta e lo guarda. «Mangio e
comincio subito a fare un giro di telefonate. Vediamo se sei
scappato.»
Ha
un’espressione incerta mentre lo lascia, come se non credesse
nemmeno lei al
fatto che possa averlo fatto…
Ci
ha pensato, questo sì. Ha avuto voglia di allontanarsi da
Marta, durante il
giro al parco. Ma non è mai successo. Ha desiderato la
libertà, ma non ha mai
lottato per averla.
Perché
avrebbe dovuto?
Aveva
qualcuno che lo amava.
Ora,
però, è solo. Lilli è stata buona con
lui, ma Lilli non è Marta, non è Mamma,
non è il suo padrone. Lilli è solo la donna che
dovrà riportarlo da loro, di
questo è certo.
Passa
gli istanti successivi sdraiato sul tappeto consumato, lasciandosi
studiare dal
gatto sopra il mobile. Restano a guardarsi finché quello
strano esserino bianco
e nero non decide di soffiare. Soffia contro di lui, come se fosse di
troppo,
come se stesse occupando un posto che non è il suo.
Poi
salta giù e corre in cucina.
Lui
lo ignora, ma sa, sa che se Marta fosse con lui, se ora tutta la
famiglia fosse
riunita, passerebbe i momenti successivi a inseguirlo. Correrebbe
dietro al
gatto per tutta la casa, ignorando le grida, così come le ha
ignorate il giorno
in cui Marta ha lasciato entrare un randagio.
È
stato divertente, per un po’. Ma poi il suo padrone ha
lanciato il gatto fuori
dalla porta… Ricorda il pianto di Marta, e ricorda il suo
senso di colpa. Senso
di colpa per averlo inseguito, per non aver capito che non era
desiderato in
casa.
Ma
ora è lui l’estraneo.
Gli
occhi verdi del gatto spuntano dietro la colonna della cucina, e lo
fissano
come Marta aveva osservato, disgustata, la mela marcia che lui aveva
preso in giardino.
Lo
aveva sgridato, quel giorno.
«Pronto?»
La
voce di Lilli corre dritta dentro il suo orecchio, anche se non
può vederla.
Ignora il gatto e sbuffa, posando la testa sulle zampe anteriori.
«Sandra,
ciao! Scusa l’ora, ma ho trovato un cane per…
Sì,
sì, proprio lì. No, io stavo
tornando, a dire il vero… Ah, sì…
È…
Com’è? Ecco, è grosso. Non saprei dirti
la
razza. Lo so, lo so che non ti sto aiutando! Aspetta,
è…
ha il muso nero e il
corpo marrone chiaro, è magro ed è come se avesse
una
ruga sulla fronte… Gli
occhi! Ha degli occhi bellissimi. Sono scuri, ma non marroni come
quelli degli
altri cani, sono… No, no, sono… Non saprei, quasi
grigi.»
La
vede un istante, mentre sembra accertarsi che lui sia ancora
lì.
«Sandra,
non so dirti come sono le orecchie!» Scuote la mano davanti a
lui, e solleva
gli occhi al soffitto. «Sì, sono attaccate alte,
sono lisce e larghe. Ah, un
segugio dici. Non ne ho idea, Sandra.»
Lilli
gesticola davanti a lui, tanto da farlo sbuffare ancora.
Dov’è Marta? Perché
non è lì con lui? Perché non viene a
prenderlo…
«Va
bene, sì, chiedi in giro. Ma certo! Ti mando la foto!
Subito, cara. Falla
girare, tu hai i contatti giusti.»
Lilli
lo raggiunge e si china davanti a lui. Gli punta il telefono contro, ed
è una
fitta di nostalgia quella che lui sente. Quel gesto gli ha ricordato
Marta…
«Ecco,
ci sei?» continua Lilli, tamburellando le dita sul telefono.
«Te l’ho appena
mandata. Ce la fai a farmi sapere entro… Ah, ah va bene.
Domani mattina? Non
saprei… Preferirei farlo restare qui, ti dispiace?
Sì, non mi va l’idea di
farlo girare come una trottola. Se trovi i padroni chiamami.»
Lui
si lascia andare sul tappeto, si gira di lato, sdraiandosi con la
pancia
all’aria. Marta lo accarezzava sempre quando si metteva in
quella posizione…
Marta.
Ma
ora Marta non è con lui.
┌
Lasciate entrare il
cane coperto di fango, si può
lavare il cane e si può lavare il fango…
Ma quelli che non
amano né il cane né il fango...
Quelli no, non si
possono lavare.
(Jacques Prevert)
┘
Solleva
il polso per guardare l’ora: già dieci minuti di
ritardo.
I
treni non sono mai puntuali, trova a ripetersi. Ma Luna è
nervosa e vorrebbe
solo tornare a casa sua. È sola, ed è davvero
molto tempo che non aspettava in
stazione senza Tobia. Troppo tempo.
Si
sente ancora arrabbiata con lui, per il modo in cui sta cercando di
ignorarla,
proprio come faceva quando la sapeva fuori con un ragazzo.
Luna
sbuffa e si porta una ciocca ribelle dietro l’orecchio.
Quanto
tempo è passato da quando se n’è
accorta? Eppure Tobia non ha mai detto una
parola, ha sempre comunicato il suo mondo attraverso sguardi e gesti. E
silenzi.
C’è
un po’ di gente intorno a lei, gente impaziente di prendere
il treno, gente che
batte i piedi sul cemento e volta la testa verso la galleria.
Ma
il treno non è stato annunciato, non deve arrivare.
«Vai
via adesso?» le
ha chiesto quella stessa mattina, mentre Luna preparava la borsa. «Non aspetti stasera?»
Era
uguale a chiederle: non mi aspetti?
No,
avrebbe voluto rispondere Luna. Svegliati,
Tobia. È anche ora.
Ma
sa che lui non avrebbe capito, o, forse, che l’avrebbe
ignorata, chiudendosi
nei suoi silenzi, chinando lo sguardo al pavimento in cotto, e
lasciandola
andare via.
Come
ha sempre fatto.
La
verità è che Luna lo provoca apposta, gli mente
apposta, come quando ha detto
di essere come una sorella per lui… Non era vero. Ma lei si
aspettava una
reazione, si aspettava che Tobia si arrabbiasse, che le gridasse contro.
Invece
è rimasto in silenzio con i suoi occhi spalancati.
Luna
sa di averlo ferito, ma cos’altro avrebbe dovuto fare? Tobia
non sembra capire.
Tobia vive in un mondo tutto suo. E, questo, Luna non riesce ad
accettarlo.
Qualcuno
la spinge quando l’altoparlante annuncia l’arrivo
del treno. È il nervosismo
dell’attesa, l’impazienza derivata dal ritardo. Ma
Luna si volta comunque a
guardare chi è dietro di lei, e lo fa male, usando i suoi
occhi ambrati come
una lama.
«Ehi»
mormora stringendo i denti.
Chi
è dietro di lei, una donna magra, ben vestita e
completamente truccata, non
risponde, si limita a lasciarle un po’ di spazio. Un
po’ di respiro. Ma poi
Luna si accorge del
motivo per cui le è finita addosso. E, cosa peggiore, la sente.
«Speriamo
che non salga» dice la donna a voce bassissima, guardando un
cane. «Dovrebbero
proibirlo.»
Luna
resta in silenzio, ma la vampata di calore che sta crescendo in lei
raggiunge
le sue orecchie. Saranno diventate rosse, ne è sicura,
è stato Tobia a farglielo
notare un giorno di tanti anni prima: si imporporano sempre quando
è
arrabbiata.
Infila
le mani nelle tasche dei pantaloni di lino chiaro e aspetta, aspetta
che le
passi. Sa che rispondere sarebbe inutile, servirebbe solo a litigare.
Ma
poi commette un errore…
Quando
il treno arriva, Luna commette l’errore di voltare lo sguardo
intorno a sé e lo
nota: quasi nessuno vorrebbe il cane a bordo.
La
padrona del boxer sembra saperlo già. Resta ferma ad
aspettare che siano saliti
tutti prima di avvicinarsi alla linea gialla. Non cerca le persone, i
loro
visi, ha gli occhi fissi sul treno.
E
Luna prova tanta pena per lei.
Quando
è il suo turno di affrontare il gradino si volta e le
sorride.
«Prego,
andate prima voi.»
Quel
voi sembra rendere felice la donna.
Le passa davanti facendo un cenno con la testa, mentre il cane la
annusa
scodinzolando.
Luna
li raggiunge nel vagone e li segue, sedendo accanto a loro.
È allora che prende
ad accarezzare il cane.
«Come
si chiama?»
«Fenrir»
risponde la donna allentando la presa sul guinzaglio. «Ho
preso un biglietto
anche per lui.»
Luna
annuisce, pensando al giorno in cui ha deciso di convincere Tobia a
prendere un
cane: viaggiavano in treno in quel momento. E Tobia aveva abbassato gli
occhi,
confuso.
«Certo,
altrimenti non avrebbe potuto portarlo.»
«Però
non sembra che per la gente sia cambiato
qualcosa…» confida la donna,
arricciando con delusione le labbra. «Hanno fatto tante
leggi, eppure
continuano a essere… Non saprei come
definirlo…»
Luna
cerca i suoi occhi e pensa, pensa a quando ha affrontato un discorso
simile con
Tobia.
«Razzisti»
termina Luna al posto suo.
Il
treno sta ripartendo e lei accompagna una ciocca dietro
l’orecchio che, come al
solito, rimane incastrata nell’anello. Luna aspetta, sapendo
che
presto qualcuno la libererà, ma poi si rende conto.
Tobia
non è con lei.
«Termine
perfetto. Razzisti. Sono proprio razzisti» riprende la donna
mentre i
finestrini vengono oscurati dal buio della galleria. «Dico
sempre ai miei
studenti che devono capire, accettare le cose, che ci sono tanti modi
per
cambiare opinione. Ma non serve…»
Luna
libera la ciocca, cercando di non dare peso a quella mancanza che sente
dentro.
Non è il momento, si dice. Eppure… eppure il
cuore prende a battere un po’ più
forte.
«Cosa
insegna?» chiede poi, per distrarsi, mentre la donna gratta
Fenrir dietro le
orecchie.
«Italiano
in un liceo.»
Luna
sgrana gli occhi, sorridendo.
«Io
amo leggere. Studio Economia, ma sono appassionata di letteratura e
poesia.
Passo i pomeriggi a studiare per poi poter trascorrere la lezione a
leggere
poesie… Non con tutte le materie, ovvio.»
C’è
il mare alla loro sinistra, sembra quasi che il treno debba finirci
dentro da
un momento all’altro. Ma è solo la
costa… E i sassi che si affacciano sull’acqua
rendono tutto più eccitante.
«Come
ti chiami?»
«Luna.
E lei?»
«Ludovica.
Stai tornando a casa?»
Luna
sorride: casa le è mancata. Le manca ogni istante che passa
lontano, ed è un
amore grande quanto quello che prova per i cani.
«Sì,
ci voleva.»
Ludovica
sta per rispondere, forse sta per dirle cosa va a fare nel ponente. Ma
un
vecchio la interrompe, passando vicino ai loro sedili.
«Li
portano proprio dappertutto…» dice. Lo fa
scuotendo la testa, mentre le persone
intorno si voltano a guardare Fenrir.
Ma
Fenrir è tranquillo, non sembra rendersi conto di non essere
voluto. Ed è
questo a far scattare Luna.
«Mi
scusi,» comincia, voltandosi con un sorriso al vecchio. Tutti
gli occhi sono
puntati su di lei, sente di tremare, eppure riesce ad apparire
tranquilla. «le
dà fastidio il cane?»
Lo
dice con una tale dolcezza che il vecchio si ritrova costretto a
fermarsi,
abbassando il capo sul corridoio.
«Una
volta non si potevano portare…»
«La
legge è cambiata. Adesso si possono portare, si
può vivere con loro ovunque.
Non esistono più condomini che possano proibirlo…
È la legge.»
Il
vecchio borbotta qualcosa su peli e sporcizia, e Luna si porta una mano
alla
fronte.
«Lei
di che anno è, mi scusi?»
«Prego?»
«Adesso
siete tutti igienisti, ma lei dovrebbe sapere come vivevano le persone
una
volta. Non crede che sia esagerato tutto questo? Sono animali, non dico
che
siano persone, anzi trovo che sia sbagliato trattarli come tali, ma non
crede…»
Luna si alza in piedi e il tono di voce diventa alto e duro, mentre si
rivolge
a tutti i presenti. «Non credete tutti che sia
assurdo?»
Fa
una carezza a Fenrir prima di terminare e tornare a sedersi.
«Sapete
una cosa? Vergognatevi. Vergognatevi tutti.»
┌
Se hai un cane, hai
un amico e più diventerai povero,
migliore sarà quell’amico.
(Will Rogers)
┘
Sta
aspettando da un quarto d’ora che Anna arrivi a casa sua. Fa
sempre così, la
sua amica.
Quando
aveva ancora il suo cucciolo era diverso, però.
Marta
restava in giardino a giocare con lui, a tirargli la palla, a farsi
rincorrere.
Finché non vedeva spuntare Anna in lontananza…
Cambiava
tutto quando arrivava lei.
Doveva
lasciare il cane fuori dalla porta, perché Anna non
sopportava di averlo in
casa. Era tutto diverso allora…
Marta
sistema la coda di cavallo sui cuscini del divano e si sdraia. Dalla
finestra
dietro di lei entra la luce del sole. Ma da quando lui non
c’è più, Marta ha
passato poco tempo all’aria aperta.
Il
citofono suona in quel momento, mentre ricorda i latrati del cane fuori
dalla
porta.
Le
sembra ancora di sentirli.
«Ehi!»
dice Anna abbracciandola. È vestita di nero, con i lunghi
capelli lisci che
sembrano sfumare verso il blu. «Come stai?»
Marta
la lascia entrare e, senza farlo apposta, l’occhio corre alla
scalinata dove
lui la aspettava ogni sera. Non le manca, Marta lo sa, eppure non
riesce a
smettere di pensarci.
Ha
passato troppo tempo con lui, è stato questo il problema.
Ma
a sbagliare è stato il cane, perché era un
animale, proprio come le ha spiegato
suo padre.
«Prendi
qualcosa?»
Anna
le fa cenno di no mentre attraversa il corridoio per entrare nel
salotto. C’è
tanta luce lì, e il trucco che Anna ha in viso diventa
inquietante quando si
volta per sorriderle.
«Avete
cambiato qualcosa?»
Marta
le fa segno di sedersi prima di rispondere. Osserva la maglia larga di
Anna,
quelle pieghe che le nascondono i fianchi e, di nuovo, il muso del cane
torna a
farle visita.
Aveva
anche lei una maglia simile… prima che lui la rompesse.
«Sì,
mia madre ha voluto buttare via un po’ di roba. Sai, soliti
cambiamenti… Diceva
che era ora di cambiare.»
Anna
si morde un’unghia e prende a guardarsi intorno. Marta sa che
sta per arrivare
un’altra domanda, che Anna le chiederà qualcosa
del caminetto bianco, o del
tappeto marrone, o quando si decideranno a cambiare il
lampadario… Non le è mai
piaciuto, e sembra volerglielo fare presente tutte le volte.
«State
meglio, no?»
Marta
la osserva senza capire. Siede al lato opposto del divano, con le
ginocchia sul
cuscino, e aspetta spiegazioni.
«Ora
che vi siete liberati del cane… state meglio?»
Anna
lascia che le ciocche scure le finiscano in faccia e si guarda il
pollice prima
di riprendere a morderlo. Marta, invece, rimane sgomenta. Forse
è perché non la
sente rispondere che Anna cambia argomento. È sempre
così con lei: bisogna
essere sempre pronti.
«Ma
quando vi deciderete a cambiare lampadario? Sembra quello di mia
nonna…»
Era
solo un cane, eppure da lui Marta sapeva cosa aspettarsi.
┌
Sua madre la aspetta
in stazione.
Luna le va incontro, un po’ pentendosi di essere sola.
Dovrebbe essere con Tobia ora.
«Com’è andata? Pronta per gli
esami?» chiede sua
madre. Non le lascia il tempo di rispondere…
«Abbiamo un ospite.»
Ma Luna non ha idea di chi stia parlando.
┘
Note dell’autrice:
Arrivo
in ritardissimo, mi dispiace… Per farmi perdonare non vi
lascerò da leggere
note! Mi limiterò a chiedervi scusa.
Celtica