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Autore: Celtica    30/04/2016    4 recensioni
Storia scritta a quattro mani con NatalieRiver182.
Avere una coscienza ed essere avvocato sono due cose che spesso divergono. Massimo si trova a dover difendere Vittorio, pur credendolo colpevole. Si tratta di truffa, aggressione e minacce. Eppure, non tutto è come sembra…
“Ma non poteva permettersi di ammettere i propri crimini, non se a difenderlo c’era lui…”
“Massimo annuì, assecondandolo.
Bugie, pensò, solo bugie.
Eppure decise di iniziare a fargli domande come se fosse stato innocente.”
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo uno

Questa storia è stata scritta a quattro mani con NatalieRiver182,
i meriti e le colpe di questa storia sono tanto suoi quanto miei…

Scritta per la sfida "Una storia, quattro mani", indetta sul gruppo Facebook Efp famiglia: recensioni,consigli e discussioni

Con la consegna n. 6



PRIMO CAPITOLO


Pioveva.
Le gocce sui vetri del locale erano simili alle lacrime che vedeva abitualmente nel suo ufficio.
Massimo non era un sostenitore dei piagnistei, non era paziente e comprensivo, era solo un avvocato. E faceva il suo lavoro.
Rosanna prese a muovere il cucchiaino nella sua tazzina, guardando fuori dalla finestra. Una ruga le solcava la fronte, una ruga che altre donne avrebbero cercato di nascondere, mentre lei sembrava farne una bandiera.
Massimo si ritrovò i suoi occhi addosso mentre sorseggiava il suo caffè.
«Ti concentrerai solo su questo caso, vero?» mormorò lei mordendosi il labbro.
Sorresse il volto con la mano e il gomito appoggiato al tavolino. Un lampo illuminò l’azzurro del suo sguardo e Massimo si perse ad ammirarla.
«Sì.»
«E non vuoi dirmi perché?»
Il resto del locale era vuoto, ma lui si sentì come al centro di una folla. Si schiarì la gola mentre si guardava intorno. C’era solo il barista, qualche metro più avanti, intento a pulire il bancone.
«Ros… ho provato a spiegarti.»
«Hai provato…» ripeté lei schiudendo appena la bocca. La sua voce uscì suadente come quando erano soli, a casa sua… «E non ci sei riuscito» e tagliente come quando voleva ferirlo.
Massimo era abituato a essere al centro dell’attenzione, a sentirsi attaccato, quasi aggredito… eppure nessuno riusciva a fargli l’effetto di Rosanna. La tensione che provava quando era con lei poteva essere pari solo all’attesa della sentenza, quando il giudice chiede al convenuto di alzarsi in piedi.
Quando era incerto sul risultato, quando, da difensore, diventava un po’ vittima. Vittima del tempo, del giudizio, vittima più dell’indagato.
«Ros…»
«Niente Ros» lo interruppe lei scuotendo i bei capelli ricci.
Massimo ne ammirò il colore rosso e sfuggente, e ricordò una cliente che con lui aveva perso. L’unica con cui avesse mai perso una causa.
«Voglio sapere perché ti vuoi dedicare completamente a questo caso» continuò Rosanna, accarezzando la tovaglietta verde del tavolo. «Perché solo a questo?»
Massimo, l’avvocato, quello che non temeva giudice e giuria, quello pronto a trovare sempre un motivo per difendere i suoi clienti, si sentì un momento interdetto.
Dire o non dire?
Non sapeva quanto Rosanna sarebbe stata pronta ad accettare. Lei veniva da una famiglia per bene, e non aveva mai considerato innocenti gli indagati. Tutti gli indagati. Vittorio Brandi compreso.
«Ha compiuto troppi reati, Ros. Non mi va di lasciarlo.»
«Eppure sembri convinto di perdere…»
Rosanna lo conosceva bene. Forse anche troppo.
«Ha commerciato prodotti malfunzionanti…» disse Massimo abbassando lo sguardo sui bottoncini dorati della sua camicia. Era vestita in modo molto diverso da lui: il bianco degli abiti di lei era in perfetto contrasto con il suo completo grigio. «E ti risparmio il resto… Minacce, aggressione a pubblico ufficiale, pubblica intimidazione… Ha anche contraffatto questi prodotti, spacciandoli per Asam.»
Rosanna sorrise.
E fu il primo arcobaleno di quel giorno.

nn

L’uomo era in cella, in attesa del processo che avrebbe decretato la sorte della sua libertà, con il sorriso mellifluo e viscido di chi era convinto di avere in pugno la situazione: in fondo, era nelle abili mani di Massimo Spina, il quale gli aveva comunicato di essere alla ricerca di alcune prove in grado di scagionarlo.
Con Massimo si era sempre dichiarato innocente, aveva finto meglio di un attore teatrale, ingannando quel pover uomo che pensava di agire per la giustizia. Al pensiero, il sorriso sulle labbra di Vittorio si allargò.

Giustizia? borbottò tra sé e sé. Ma dove! Non esiste una giustizia unica per tutti. Coloro che la evocano sono degli illusi convinti dell’esistenza di un Dio.
Si accarezzava la barba ispida che non aveva avuto modo di radere, mentre rifletteva su quanto sciocche potessero essere le persone, mettendosi contro qualcuno chiaramente più forte.
Non che si ritenesse superiore a loro, tutt’altro! Credeva solo di essere più furbo.
Aveva sempre appoggiato i potenti, senza far nulla che potesse infastidirli, ma al tempo stesso li disprezzava, poiché credevano di poter far tutto il loro comodo, come se non gl’importasse di nessun altro.
Nemmeno a lui interessava, perciò non aveva provato alcun rimorso in seguito a quella che era stata una delle più clamorose truffe dell’anno.
Aveva ordito tutto nei minimi dettagli, e dopo aver venduto a prezzi esorbitanti quello scadente marchingegno, destinato a distruggersi entro una settimana, sarebbe dovuto partire per il Messico, dove avrebbe fatto perdere le proprie tracce.
Purtroppo, aveva sottovalutato l’intelletto di uno degli acquirenti, il quale l’aveva denunciato per truffa dopo solo due giorni dall’acquisto. Vittorio si era chiesto se non fosse stato uno di quei tipi che si divertono a smontare macchine, bilance, orologi e robot da cucina per vedere come fossero all’interno.
Fatto stava che un certo Antonio Biagi si era reso conto che mancavano dei pezzi, che quell’affare meccanico non serviva di fatto a nulla e che era inesorabilmente destinato a rompersi.
Pochi giorni dopo erano giunte altre denunce, che l’avevano fatto arrestare e costretto a passare due settimane in cella in attesa del giusto processo. Non avrebbe mai ammesso nulla, col cavolo che l’avrebbe fatto!
Negare, negare e negare, fino alla fine.
Fingere di essere stato incastrato, di non averne mai saputo nulla.
Dire che era stata tutta opera dei “superiori”, che lui credesse di lavorare onestamente.
Ammise di aver un po’ esagerato con la recita del povero innocente che si trovava a combattere contro gli aguzzini che volevano distruggerlo: minacciare l’ufficiale di denunciarlo per diffamazione, così come aveva fatto con l’accusa, non era stata una grande idea.
Ingoiato l’errore, tornò a ripetersi che non poteva finire in carcere, in un mormorio simile alla litania. Suonava ironico, dato che quella dove si trovava era niente di meno che una cella puzzolente, spoglia e terribilmente noiosa.
Ma non poteva permettersi di ammettere i propri crimini, non se a difenderlo c’era lui…

nn

Le mura del carcere sembravano colorare di grigio il centro della città.
C’erano alberi intorno, e palazzi, e strade.
Massimo pensò che non era la prima volta che attraversava quel suo piccolo mondo per difendere qualcuno di colpevole. Perché Vittorio Brandi, il suo cliente, era colpevole.
Lo aveva sempre saputo, ancora prima di venire chiamato a difenderlo.
Attraversò le strisce pedonali di fronte al cancello di ferro, pronto a incontrarlo. Sistemò una mano in tasca per darsi un tono, come faceva sempre quando doveva vederlo.
Si chiese quanto era giusto proteggerlo, nonostante i motivi che aveva, quei motivi che non aveva ancora trovato il coraggio di svelare a Rosanna…
Forse, si disse, se fosse stato un altro si sarebbe semplicemente rifiutato di difenderlo.
Mostrò i documenti alle guardie, che lo conoscevano, e si avviò all’interno dell’edificio, attraversando diversi corridoi prima di trovarsi nella stanza dei colloqui. Era un posto che non gli piaceva, ma a cui aveva fatto l’abitudine.
Aspettò il detenuto cominciando a sedersi, dando le spalle alla finestra alta e stretta che illuminava appena il muro di fronte. C’era solo un tavolo in quel posto. E due sedie.
Quando la porta si aprì, Massimo passò due dita sugli occhi, come a calmarsi. Ma era calmo, non aveva motivo di essere agitato.
Allora cos’era quel senso di inadeguatezza che sembrava avvolgerlo?
«Avvocato Spina…» lo salutò la guardia, prima di chiudere la porta alle spalle del detenuto.
Era basso, con la faccia cortese di chi è sempre pronto a sorriderti, le spalle strette e le braccia corte di chi non è in grado di difendersi. Ma era tutto falso, Massimo lo sapeva.
Vittorio era tutto fuorché cortese, un matto che dava i numeri senza preavviso, arrivando alle mani. Quando cercava di nascondere la rabbia, sul suo volto si formava una fossetta, vicino alle labbra.
Era il suo segnale. E Massimo lo conosceva.
Il suo cliente raggiunse la sedia di fronte a lui con estrema lentezza, come se non avesse nessuna fretta di parlargli. Eppure era lui quello che rischiava.
Massimo seguì la mano di Vittorio, liscia e pulita, quasi da donna, mentre raggiungeva lo schienale per tirarlo verso di sé.
«Eccoti, avvocato…» esordì Vittorio, portandosi le dita alle labbra come se stesse fumando una sigaretta.
Era uno dei suoi vizi, Massimo lo ricordava bene.
«I capi d’accusa sono tanti, troppi» rispose lui, ignorando il suo commento. «Come vogliamo procedere?»
«Sei tu che hai studiato legge.»
Massimo guardò i capelli radi di Vittorio e ringraziò il cielo di non essere come lui. Almeno lui li aveva, i capelli. Lo pensò per distrarsi, per evitare di rispondere a quei commenti che lo irritavano tanto. Poi fece un lungo sospiro e finse di trovarsi con un cliente qualunque, un cliente innocente.
Almeno fino a prova contraria.
«Possiamo mettere di mezzo psicologi, dire che ci sono stati problemi durante l’infanzia…»
«Ammettilo, tu vuoi proprio farmi apparire come un down!» accennò una risata, come a voler porre la conversazione sullo scherzo. Ma era serio, lo sapeva benissimo.
«Oppure,» proseguì Massimo, come se non fosse stato interrotto, lanciando un’occhiata di sbieco alla porta. «possiamo dire che non si sapeva nulla del malfunzionamento e che l’attacco d’ira è stato causato dall’idea di essere stato raggirato…»
«Attacco d’ira? Come parli, avvocato.»
«Ciò che capita quando si arriva a minacciare e aggredire. Ciò che è successo…»
Vittorio si torse le mani e spostò lo sguardo altrove, innervosendosi al ricordo dell’accaduto.
Fu questione di un attimo, prima che riprendesse la solita espressione pacifica e sardonica, con l’unica aggiunta di un’innocente fossetta.
«Massimo, cerca di capire. Ti assicuro che non volevo fare una scenata simile, mi sono sentito messo sotto torchio e accusa, tra l’altro ingiustamente!»
Massimo annuì, assecondandolo.

Bugie, pensò, solo bugie.
Eppure decise di iniziare a fargli domande come se fosse stato innocente.
«Adesso rispondimi sinceramente» era più una formula d’introduzione che una vera richiesta, dato che sapeva benissimo che la risposta sarebbe stata solo un’altra falsità «Sapevi della truffa?»
L’uomo parve titubare un attimo, come combattuto. Restò in silenzio qualche istante, mentre quel barlume di onestà in lui gli sussurrava di dire la verità, per amor suo.
«No.»
Massimo trattenne un sospiro.
«In questo processo, io voglio che si dica solo la verità. È stato un, come dici tu, attacco d’ira, e non ne sapevo assolutamente niente!» Vittorio puntò gli occhi verdi sull’avvocato. «Devi credermi, almeno tu» aggiunse.
Quelle ultime parole erano intrinseche di una malinconia che il buonsenso avrebbe definito artificiale, ma che fecero dubitare un istante Massimo della colpevolezza del cliente.
Si disse che forse era meglio così, per giustificare quell’attimo quasi di debolezza: come poteva difenderlo, se nemmeno lui lo credeva innocente?
«Va bene, Vittorio» la voce inciampò su quel nome. «Diremo così, allora, ma le parole non bastano, Sai dirmi dove posso trovare una qualche prova?»
Vittorio parve infervorarsi, guardando il difensore. Tuttavia, trascorse nuovamente un altro momento in silenzio, forse meditando, prima di fornire a Massimo qualche informazione.
«Sì, certo che lo so. Scusami, stavo riflettendo un attimo per decidere se ciò che sto per dirti potesse avere un peso legale o meno.»
Massimo non poté evitare una risposta sagace.
«Non sei stato tu a dire che qui l’avvocato sono io?»
Entrambi accennarono un sorriso, un po’ triste, un po’ amaro.
«Sì, sei tu, e non ho alcuna intenzione di rubarti il ruolo. Solo, volevo evitare un secco “non conta niente” mentre parlavo.»
«Lo eviterai, ma ora su, dimmi, che l’orario delle visite sta per finire.»
L’uomo cercò un attimo le parole, scegliendo con cura con quali fosse meglio iniziare.
«Come sai, ho acquistato quelle macchine Asum per conto di alcuni, perdonami l’epiteto forse troppo vago, ricconi, che mi dissero di voler aprire un’azienda di rivendita, insomma, una specie di amazon ma non su internet.»
Quella lunga introduzione non fece altro che innervosire Massimo, che si chiedeva dove volesse arrivare.
«Ecco, io non ho mai toccato né visto quelle macchine. La ricerca di impronte su uno qualsiasi di quegli affari potrà confermarlo.»
L’avvocato aprì bocca, ma Vittorio lo costrinse a richiuderla interrompendolo prima ancora che iniziasse a parlare.
«So cosa stai per dire. No, non avrei potuto pagare nessuno che lo facesse al posto mio, innanzitutto perché non avrei avuto soldi sufficienti, poi perché sono apparecchi delicati, e per aprirli e smontarli serve uno strumento apposito di cui ignoro addirittura il nome, so soltanto che costa davvero tanto ed è difficile da usare.»
Massimo alzò un sopracciglio, chiedendosi come mai allora qualcuno fosse riuscito ad aprirla e a scoprire l’inganno; si rispose che certi smanettoni hanno davvero di tutto in casa, per soddisfare la loro curiosità.
O forse, semplicemente, lo faceva di mestiere.
Oppure, ancora, suo fratello gli stava mentendo…
«Va bene, vedrò di lavorarci su e pensarci a casa, in modo da verificare che questa prova non abbia falle. Con tutte queste denunce alle spalle, non possiamo permetterci di farci smontare qualcosa, lo capisci, no?»
Vittorio annuì, gettando un’occhiata all’orologio. Massimo si alzò, sistemò i pantaloni e la giacca e rimise a posto la sedia.
«Domani ti farò sapere. Buona giornata e arrivederci.»
Fu in quel momento che Vittorio disse qualcosa che Massimo avrebbe preferito non facesse.
Vittorio non aveva idea del perché desiderasse salutarlo in un modo del genere. Non aveva idea nemmeno del perché il sorriso pacato sul suo viso si fosse tramutato in un ghigno divertito, solo nella penombra della stanza mal illuminata. Sapeva solo che avrebbe ottenuto certamente una reazione, in quel modo, e non il solito modo indifferente da avvocato, freddo e realista.
«Allora a domani, fratellino.»
Massimo, che ormai gli dava le spalle, a un passo dalla porta si raggelò, rimanendo pietrificato sul posto.
Un secondo, due, tre, quattro, cinque. Cinque secondi durante i quali l’avvocato sarebbe voluto sparire dalla faccia della Terra.
Vittorio sorrideva, ma lui non si voltò.
«Sì» fu l’unica risposta, prima di poggiare il palmo sulla maniglia e abbandonare la stanza.


nn
   
 
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