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Autore: unannosenzapioggia    09/03/2017    1 recensioni
I am lost for words / The silence burns so much it hurts
[derek hale x female!oc]
Genere: Introspettivo, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Derek Hale, Isaac Lahey, Nuovo personaggio, Stiles Stilinski
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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salve a tutti! 
per l'ultima volta, ho l'occasione di scrivere questo spazio autore: sono tristissima per la fine di questa storia, ma felice che Derek Hale abbia ottenuto la felicità che ho sempre pensato si meritasse.

per cui sarò brevissima: mi limito a ringraziarvi per aver letto questa storia e per aver apprezzato i personaggi - in particolar modo, Emma e Derek
ho in programma, inoltre, di scrivere una raccolta di missing moments, ma sarò molto più lenta negli aggiornamenti

vi ricordo che la storia è regolarmente aggiornata anche su Wattpad (link in bio)

adesso vi lascio e vi auguro (un'ultima) buona lettura!
un bacio,
Giulia

 


CAPITOLO VENTI: FIND MY WAY BACK
 
Emma alzò finalmente lo sguardo dalle scartoffie appoggiate sul tavolo di fronte a lei. Era una giornata tranquilla, una di quelle che, sin dall’inizio, non mette fretta: il sole pallido di settembre entrava dalla grande finestra del loft, diviso in raggi di luce grandi e larghi, che si riflettevano sul pavimento. La ragazza si guardò intorno rilassata e si crogiolò in quel silenzio, che, molto raramente, aveva l’occasione di vivere.
In quei cinque anni appena trascorsi da quando era tornata a Beacon Hills, c’erano stati ben pochi momenti di tranquillità: erano stati felici, dinamici, movimentati, stressanti, ma mai calmi. O silenziosi.
Si riappropriò della penna, rimasta nascosta sotto un foglio, e riprese a leggere. Per quanto fosse faticoso e, molto spesso, rischioso, le piaceva fare l’avvocato. Non era mai stato il lavoro dei suoi sogni, ma come Derek aveva affermato riguardo all’essere un agente di polizia, anche lei, ad un certo punto, aveva sentito il bisogno di trovare un mestiere che le permettesse di aiutare gli altri.
Così, l’idea di frequentare la facoltà di giurisprudenza era arrivata un po’ all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno. Ancora ricordava bene quel momento: stava discutendo con Malia riguardo alle domande accolte o meno dalle varie Università, quando il dépliant della facoltà di legge le capitò fra le mani, interessandola fin da subito.
I suoi genitori pensarono sin dal primo momento che fosse un rischio frequentare corsi relativi a materie e argomenti a cui lei non si era mai interessata, ma Derek fu l’unico ad incoraggiarla davvero e a convincere i signori Grimes che fosse la scelta migliore per lei.
Quel pensiero la riportò immediatamente a quando aveva fatto conoscere al ragazzo i suoi genitori: era stato, probabilmente, il momento più imbarazzante della sua vita, visto che Derek non aveva mai conosciuto la famiglia di una delle sue fidanzate e non era certamente abituato ad una situazione del genere. Il tutto, però, era andato a buon fine: sua madre lo adorava essenzialmente perché era un bel ragazzo sia dal punto di vista fisico («Emma, tesoro, adesso tuo padre non mi sembra più così bello come credevo»), che caratteriale; mentre a suo padre piaceva così tanto perché la rendeva felice e la faceva sorridere di continuo. E perché – cosa altrettanto fondamentale – tifavano per la stessa squadra di baseball.
Sorrise al pensiero, scuotendo la testa divertita, mentre sottolineava con un evidenziatore giallo una frase importante riguardo ad un caso su cui stava lavorando.
Alzò la testa di scatto, quando sentì un paio di chiavi girare nella toppa della porta. La prima cosa che vide fu Derek stretto nella sua infallibile giacca di pelle nera, ormai vecchia e rovinata: teneva in una mano le chiavi dell’auto ed il cellulare; nell’altra la piccola mano di Oliver che strascicava dietro di sé, con apparente fatica, un coniglietto azzurro di pezza. Il bambino entrò in casa correndo, non appena vide la madre, e gli mostrò il giocattolo.
«Mamma, guarda!» esclamò, mentre gli occhi verdi come lo smeraldo si illuminavano felici. Emma si accucciò per essere alla sua altezza ed in un secondo momento, lo prese in braccio «La nonna me l’ha aggiustato!»
«Ha fatto davvero un bel lavoro» ammise la ragazza con sincera ammirazione. Guardò il ragazzo divertita e mise giù il bambino, che già stava scalpitando per poter andare a giocare.
«Togliti la giacca, scimmietta» gli ricordò Derek, passandogli una mano tra i capelli corvini «E le scarpe»
Il bambino annuì, perso nelle proprie fantasie ed i due ragazzi lo guardarono allontanarsi, mentre trotterellava e canticchiava, mangiandosi di tanto in tanto le parole, per via del ciuccio che teneva tra i denti.
Emma ridacchiò, divertita per poi rivolgere la sua attenzione a Derek, il quale aveva una strana espressione stampata sul volto. Sembrava stesse cercando la risposta ad un enigma impossibile. Ad un tratto, come se niente fosse, tornò in sé.
«Tutto bene?»
Non si preoccupava più così tanto, come aveva fatto in passato. In quei cinque anni, non si erano presentati problemi catastrofici o creature sovrannaturali di nessun genere, per cui tutto il branco aveva imparato a vivere nella normalità della vita quotidiana. Persino Derek – che non aveva mai vissuto una vita tranquilla – aveva pian piano allentato la tensione, aveva capito come poter vivere normalmente senza esser costretti a restare vigili ventiquattr’ore su ventiquattro. E’ vero che, con l’arrivo di Oliver, comportamenti e atteggiamenti vari di preoccupazione ed ansia si erano fatti più forti, ma Emma era convinta che fosse una semplice e naturale reazione all’idea di avere e dover crescere un figlio.
«Sì, è solo che-» Derek sospirò, cercando di concentrarsi. Era tornato in sé, eppure sembrava ancora inseguito da questo dubbio a cui non riusciva a dare risposta «Sento un battito in più»
«Che vuoi dire che senti un battito?» la ragazza corrugò la fronte «Percepisci i nostri: il mio, il tuo e quello di Oliver»
«E un altro» aggiunse.
Emma stava per replicare, quando il bambino entrò nella stanza, correndo verso il centro – stracolmo di giocattoli – per sedersi a terra e riprendere quello che aveva interrotto prima di uscire.
«E’ qui, in questa stanza» riprese Derek «Con noi»
«Non è possibile» commentò «Ci siamo solo noi qui»
«Lo so, è che-» s’interruppe, finalmente con la soluzione davanti agli occhi «Oddio
«Che c’è?»
Il volto del ragazzo si aprì in un sorriso troppo felice per essere vero ed i suoi occhi si riempirono di lacrime di gioia, scintillando come diamanti. Emma lo guardò, senza capire, continuando a vagare nella propria ignoranza, chiedendosi cosa stesse succedendo. L’ultima volta che aveva visto Derek in quelle condizioni – seppure più spaventato – era stato quando gli aveva detto di essere incinta di Oliver. Quel momento era ancora impresso nella sua mente: aveva solo ventitré anni, l’università appena finita ed un lavoro da trovare. Era stata per giorni senza dire niente a nessuno, tanto meno a lui, ma alla fine si era fatta coraggio: come avrebbe fatto senza l’aiuto di Derek?
«Emma, sei incinta»
Le parole, stracolme di gioia e stupore, del ragazzo le arrivarono ovattate e rimbombarono in tutta la stanza. Solo Oliver continuò la propria routine di gioco senza minimamente accorgersi di quello che stesse accadendo intorno a lui.
Sul volto della ragazza, comparve un timido sorriso, quasi di incredulità, che in un secondo momento si trasformò in pura e semplice felicità: quei due bambini non erano mai stati programmati, eppure era arrivati lo stesso e avrebbero portato comunque allegria. Saltellò sul posto, come una bambina, nonostante i suoi ventisei anni.
Si lanciò letteralmente verso Derek, abbracciandolo. Il ragazzo scoppiò a ridere, prendendole poi il viso tra le mani per baciarla. Quel bacio era diverso da tutti gli altri: era dolce come il miele, salato come le lacrime che entrambi stavano versando e sapeva di bambino, di tenerezza e amore. Era un bacio unico ed Emma l’avrebbe ricordato per sempre.
Il ragazzo interruppe il contatto e la guardò «Adesso dovremmo dirlo ad Oliver, no?»
Annuì, prendendolo per mano, per avviarsi al centro della stanza: si sedettero a terra vicino al bambino ed Emma lo prese in braccio, stritolandolo in un abbraccio.
«Scimmietta, che dici? Ti piacerebbe avere un fratellino o una sorellina?»
Oliver socchiuse lievemente gli occhi, guardandoli senza capire. Poi si voltò verso sua madre e scosse la testa «No, non lo voglio»
Derek ridacchiò, per niente sorpreso da quella risposta. Era stato l’unico maschio in mezzo ad una marea di donne e per quanto il destino non avesse dato lui la possibilità di crescere con le sue sorelle, ricordava quanto fosse faticoso e per niente divertente passare le giornate con fratelli e sorelle maggiori. Per cui capiva benissimo il bambino, ma se fosse stato per lui, avrebbe voluto avere minimo cinque figli, perché una grande famiglia era quello che aveva sempre desiderato. Aveva impiegato un po’ di tempo per capirlo, ma alla fine c’era riuscito.
«Come no?!» esclamò Emma, guardando Oliver che continuava a scuotere la testa contrariato «Immagina se tu avessi una sorellina»
«Mi piacerebbe avere una bambina» se ne uscì Derek «Potremmo chiamarla-»
«Talia» lo interruppe lei.
Il ragazzo rimase per qualche secondo in silenzio, mentre quel nome arrivava alla sua mente e richiamava ricordi ormai lontani e quasi dimenticati. Talia era il nome di sua madre, il nome della famiglia e di quella vita che aveva perso ingiustamente e troppo presto; Talia era il modo più innocente possibile per collegarsi di nuovo al passato, per avere qualcosa da raccontare ai propri figli una volta cresciuti; era ciò che gli aveva regalato Emma e lo aveva reso felice. Era ciò da cui era iniziato tutto.
Di nuovo, le lacrime erano pronte, proprio dietro le ciglia scure e lunghe, a scendere come fiumi sulle sue guance, ma cercò di resistere. Distolse lo sguardo dagli occhi soddisfatti – e sicuri di aver colto nel segno – di Emma e per qualche secondo osservò Oliver giocare con i suoi peluche. Tirò su con il naso e sorrise, scuotendo la testa.
Rivolse di nuovo i suoi occhi alla ragazza e si concentrò qualche secondo sul minuscolo battito cardiaco che proveniva dal suo corpo: sembrava così lento, basso, indifeso, eppure sapeva che sarebbe stato forte, proprio come il fratello.
Pensò di nuovo a sua madre e al fatto che non lo avrebbe mai visto felice, che non avrebbe mai incontrato Emma e mai conosciuto i suoi figli: si sentì strano, come se gli mancasse un pezzo.
Non pensava quasi mai a lei, ma quel nome continuava a rimbombargli nella mente e lo intristì rendersi conto che non sarebbe mai più stata accanto a lui.
La ragazza sembrò accorgersi del suo strano silenzio e gli si avvicinò, appoggiando la propria testa sulla sua spalla e stringendosi a lui. Derek sorrise, abbracciandola a sua volta: tutto era così perfetto da sembrare finto. Se c’era una cosa di cui entrambi avevano paura era che quella loro piccola bolla quotidiana di felicità potesse scoppiare da un momento all’altro, che quel sole che illuminava costantemente le loro giornate potesse esser sostituito da un forte temporale. Si ripetevano continuamente di essere al sicuro – ed effettivamente lo erano – ma la paura rimaneva e, nonostante tutto, ogni tanto si faceva sentire. Come in quel momento, con un altro bambino in arrivo.
Il ragazzo sospirò e lasciò un bacio leggero sulla fronte di Emma «Che Talia sia»
 
***
 
Talia era diversa dalle altre bambine: era sveglia, vivace, impulsiva, energetica, simpatica, sarcastica e sempre con la battuta pronta. Se non fosse stato per la fortissima somiglianza fisica con Emma, la gente l’avrebbe scambiata per la figlia di Stiles.
Aveva tre anni, i capelli castani legati in un paio di codini, due occhi azzurri come il mare d’inverno ed un amore sfrenato per gli orsacchiotti di pezza, la cioccolata calda e, soprattutto, suo padre.
Mentre Oliver era fisicamente la copia in miniatura di Derek, Talia gli somigliava caratterialmente: oltre ad essere ironica e costantemente sorridente, molto spesso era permalosa, scontrosa, talvolta silenziosa. In più, da quando aveva visto il padre roteare gli occhi infastidito, aveva imparato a farlo anche lei e non c’era giorno in cui non lo imitasse.
Vista la sua indole impulsiva e lupina, aveva circa tre anni e mezzo, quando tornò per la prima volta dall’asilo con una sbucciatura sul ginocchio, piena di sangue.
«Papà, ma mi ascolti?!» esclamò infastidita, mentre Derek la metteva seduta sul tavolo della cucina, in cerca di un modo per disinfettarle la ferita. Il ragazzo annuì, raggiante, pronto ad ascoltare ogni sua parola.
La verità era che stravedesse per lei: non aveva un figlio preferito, questo era ovvio, ma è risaputo che le bambine vadano molto più d’accordo con i padri e i bambini con le madri. Dal primo momento che l’aveva vista in ospedale era come se si fosse innamorato per la seconda volta, e mano a mano che la vedeva crescere, l’amava ancora di più. Era semplicemente Talia, la sua Talia, ma a lui bastava quello. Era completamente impazzito, e tutti – Stiles compreso – lo prendevano in giro per il modo in cui si comportava in sua presenza: non era più scorbutico, non si arrabbiava mai, l’ascoltava sempre, le leggeva favole e guardava con lei i suoi cartoni animati preferiti; le raccontava antiche leggende sui lupi e quando vedeva quanto pendesse dalle sue labbra non poteva che sentirsi fiero della persona che stava diventando; mangiavano il gelato insieme, facevano il bagno insieme e molto spesso si addormentavano insieme sul divano, con un libro appoggiato sul petto.
Però sapeva essere anche un padre severo: non la viziava ed non sopportava chi lo facesse. Molto spesso Emma tendeva a cedere di fronte a qualche richiesta dei bambini e lui sbuffava sempre perché «troppa cioccolata fa male!», «troppa tv fa male!» oppure «troppo Stiles fa male, Emma!». La ragazza annuiva d’accordo, per poi tornare a guardare i bambini e a far loro l’occhiolino, affinchè non si preoccupassero: Derek voleva essere severo, ma non avrebbe saputo dir di no nemmeno ad una semplicissima domanda, se richiesta dai suoi bambini.
«Papà, allora!» la voce di Talia lo riportò alla realtà. Le aveva sfilato le scarpe e aveva arrotolato i jeans della bambina sopra al ginocchio, nonostante – nell’impatto – si fossero strappati, lasciando in bella vista un buco abbastanza grande, incrostato di sangue.
«Certo che ti ascolto» affermò sicuro, mentre recuperava un po’ di disinfettante «Piuttosto dimmi cosa hai fatto per farti così male»
«Tess dice che io e Jude non possiamo stare insieme! E’ gelosa perché lui sta con me e non con lei!» piagnucolò «Quindi abbiamo fatto a botte»
Derek alzò lo sguardo serio su di lei «Cos’è questa storia di te e Jude?»
«Papà, siamo fidanzati, non capisci?»
Il ragazzo alzò un sopracciglio «Da quando, scusa?»
«Da ieri, ma ti giuro che la nostra è una cosa seria: ci sposeremo presto»
Represse un sorriso, tornando a concentrarsi sul ginocchio della bambina. Se avesse dovuto scegliere un possibile spasimante per lei, di sicuro non avrebbe considerato gli Stilinski. Jude era il figlio di Stiles e Malia e per quanto entrambi fossero suoi amici, quel bambino era la copia esatta di Stiles: ogni volta che lo vedeva era come ricordare il padre da ragazzino, con i suoi commenti sarcastici, le sue battutine impertinenti, la pelle pallida, i nei, la timidezza, la goffaggine ed il sorriso sempre stampato sul volto. Scosse la testa, tornando alla realtà: ripulì la ferita, applicandovi un cerotto bello grande e spostò di nuovo il suo sguardo su Talia, intenta ad infilarsi in bocca il ciuccio.
«Questo, però, non ti autorizza a picchiare gli altri, bambolina» la rimproverò, senza sforzarsi più di tanto «Non farlo più, va bene? La prossima volta non la passerai tanto liscia»
La prese in braccio, rimettendola a terra ed in quel preciso momento, Emma ed Oliver entrarono in casa. La bambina corse immediatamente dal fratello, per salutarlo. Il suo modo di dimostrare affetto era insolito e bizzarro – cominciava a saltellargli intorno e ad intonare una canzoncina di cui soltanto lei sapeva le parole – ma ad Oliver sembrava far sempre piacere, per cui la lasciava fare. Stranamente e diversamente dalla normalità, tra i due c’erano sempre stati buoni rapporti: la differenza d’età non era poi così tanta ed i loro genitori li avevano sempre abituati a passare il più tempo possibile insieme. Emma, però, era convinta che, crescendo, le loro differenze – sotto vari punti di vista – sarebbero diventate naturalmente più forti e visibili e li avrebbero portati ad allontanarsi.
Derek si avvicinò alla ragazza, prendendole il viso tra le mani e baciandola dolcemente.
«Sono distrutta» mormorò Emma, mentre le loro labbra ancora si sfioravano. Il ragazzo superò la sua bocca, per poi muoversi verso il basso lasciandole qualche bacio veloce sul collo. Chiuse gli occhi per qualche secondo, dimenticandosi persino dei bambini, e si godé le labbra morbide e calde di Derek muoversi sulla sua pelle sensibile.
«Che ne dici se-» s’interruppe per baciarla di nuovo «Portassimo i bambini in piscina e poi tornassimo qui per starcene da soli per un po’?»
«Potremmo fare un bagno» disse Emma, con la mente già completamente da un’altra parte. Con il lavoro ed i bambini, era praticamente impossibile avere un minuto per sé.
«Oppure anche qualcos’altro» la interruppe Derek, malizioso.
«Anche entrambi, volendo»
Il ragazzo rise e la baciò di nuovo «Mhmh, perché no»
 
***
 
«Papà» lo chiamarono, sussurrando i bambini.
Era una notte fonda di luna piena. Il ragazzo non aveva più bisogno, ormai da tempo, di rimanere sveglio e controllare il proprio istinto lupino, ma l’influenza di quella palla bianca che spiccava nel cielo nero gli dava comunque fastidio. Quelle erano notti che lo facevano dormire male, oppure persino troppo e la mattina finiva per sentirsi più confuso del solito, che lo rendevano più facilmente irritabile e scontroso.
«Papà» la piccola voce di Talia risuonò nella stanza. Derek, convinto di star sognando, si mosse sotto le coperte, rigirandosi un paio di volte. Circondò il cuscino con entrambe le braccia e biascicò un incomprensibile «Tornate a letto»
Gli sembrò di sentire Oliver sbuffare: lo ignorò e si voltò dalla parte opposta. Era sicuro che Emma stesse dormendo e visto il silenzio di nuovo caduto nella stanza, pensò che anche i bambini fossero tornati in camera loro.
«Papà, c’è qualcuno in camera nostra»
A queste parole, sbarrò gli occhi, tirandosi su di colpo. Per via di quel movimento improvviso, anche la ragazza si svegliò e sebbene fosse più lenta nei movimenti, si mise seduta sul letto.
«Che succede?» chiese, poi guardò i bambini «Che ci fate svegli a quest’ora?»
«Abbiamo sentito dei rumori» spiegò Oliver «C’è qualcosa che si muove in camera nostra. Fa rumore e… Paura»
Emma aggrottò la fronte e guardò Derek, il quale stava cercando di capire se quella fosse l’ennesima scusa per non dormire nella loro stanza e trovare un modo per convincerli a dormire tutti insieme. Ma Oliver, con il linguaggio fin troppo forbito per un bambino di sei anni, stava dicendo la verità.
Ricambiò lo sguardo preoccupato di Emma: non voleva credere alle parole dei bambini. Sicuramente si stavano sbagliando, avevano decisamente sognato tutto, ma per ristabilire la quiete famigliare, decise comunque di alzarsi per controllare.
«Restate qui con la mamma» disse, rassicurando con un’occhiata la ragazza. Non c’era niente di cui preoccuparsi, non doveva esserci niente di cui preoccuparsi «E non muovetevi»
Uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Da quando si erano trasferiti nella casa nel bosco – quella in cui aveva vissuto fino alla morte dei suoi genitori – quell’edificio era stato come un labirinto per lui. Aveva lasciato il loft a malincuore, ma capiva che avessero avuto bisogno di più spazio e, per quanto quella casa facesse riaffiorare ricordi dolorosi, era il posto giusto per crescere una famiglia. Nonostante questo – e non l’aveva mai detto a nessuno, nemmeno ad Emma – talvolta, specialmente di notte ed in silenzio, camminare tra quelle stanze lo spaventava a morte. Era come se si stesse muovendo in un labirinto senza via d’uscita; gli sembrava di sentire la voce di sua madre seguirlo come un’ombra e di vederla dietro a qualche porta, intenta ad osservare la vita che si stava costruendo. Da una parte, era un bel pensiero quello di credere che sua madre lo stesse, in un modo o in un altro, proteggendo da lassù, senza farsi mai sentire, ma dall’altro lo inquietava. Sapeva che non avrebbe mai superato la sua morte, che quella non era semplicemente una persona, ma sua madre, però aveva comunque imparato a conviverci.
Senza far cigolare troppo il parquet del pavimento, entrò in punta di piedi nella camera dei bambini. Era convinto avessero sognato tutto, ma Oliver non stava mentendo e lui si fidava ciecamente del suo giudizio.
I suoi occhi si accesero di rosso in modo da scrutare meglio la stanza: preferì non accendere la luce in modo da non spaventare chiunque o qualunque cosa fosse lì. Tirò fuori gli artigli e si mise ad aspettare.
Dopo un paio di minuti di silenzio, udì qualcosa muoversi. Era un rumore fastidioso, ma quasi piccolo, lontano, innocuo. Si interrompeva di tanto in tanto, per poi riprendere. Era graffiante, acuto talvolta e sembrava provenire dal basso.
Scosse la testa, cercando di capire cosa fosse ma non ci riuscì: così accese la luce e decise di affrontare il problema una volta per tutte.
A prima vista, non notò niente di strano: la stanza dei bambini era esattamente in ordine come quando l’aveva lasciata qualche ora prima, quando era andato lì per dar loro la buonanotte.
Poi quel rumore si fece di nuovo sentire: durò più del normale, così Derek cercò di seguirlo, in modo da capire da dove provenisse. Giunse fino al letto di Oliver: alzò il cuscino, le lenzuola, la coperta, ma niente. Così, per esserne sicuri, si piegò in avanti, infilando letteralmente la testa sotto il letto, capendo finalmente che cosa avesse creato tutto quel baccano.
Dalla parte opposta – quella adiacente al muro – incastrato tra una zampa del letto e la parete bianca, c’era un gattino piccolo e spaventato, dal manto color caramello che tremava come una foglia. Con le sue zampe, aveva rovinato tutto l’intonaco del muro, alla ricerca di qualcuno che si accorgesse di lui: chissà come era entrato lì dentro.
Si lasciò scappare un sorriso ed un sospiro rilassato ed allungò un braccio per prenderlo e portarlo con sé in camera. Si erano spaventati per un semplice gatto: da una parte, pensò fosse una cosa fin troppo ridicola, dall’altra ringraziò il Cielo che fosse un semplice cucciolo smarrito e non l’ennesima creatura mostruosa e omicida.
Non appena Talia lo vide rientrare in camera con quel gatto tra le dita, non dette al padre nemmeno il tempo di dire qualcosa e, dal letto su cui era seduta, allungò le braccia con la tacita, ma esaltata, richiesta di farsi passare quel cucciolo per stringerlo tra le sue mani.
Derek glielo passò, adagiandolo dolcemente sul letto «Fa piano, tesoro, è spaventato» e si infilò di nuovo sotto le coperte, vicino ad Emma, che sorrideva, finalmente tranquilla, di fronte a quella scena.
Oliver, diversamente da sua sorella, si avvicinò a quella piccola palla di pelo con scetticismo: non gli erano mai piaciuti più di tanto gli animali, però guardando quel gatto, da lontano, non gli sembrò così pericoloso. Allungò una mano per accarezzarlo e sorrise compiaciuto quando quel cucciolo si rilassò, si sentì al sicuro, sotto al suo tocco.
«Papà, possiamo tenerlo?» chiese Talia, pregandolo.
I due ragazzi si guardarono: la risposta sarebbe stata che no, non potevano tenerlo perché lavorare e star dietro a due bambini non era proprio una passeggiata. Non avevano bisogno di qualcun altro da tenere sotto controllo e di cui prendersi cura in ogni momento della giornata.
«Talia, potrebbe appartenere a qualcuno» le spiegò Emma, cercando di non darle immediatamente una risposta negativa: voleva che capisse «Non è nostro ed è giusto che stia con il suo padrone»
«Ma a me piace» si lamentò la bambina, mettendo il broncio.
«Non possiamo tenerlo fino a quando non troviamo il suo padrone?» domandò allora Oliver.
Derek ed Emma si guardarono, inizialmente contrariati – il ragazzo specialmente, visto che non gli piacevano per nulla i gatti – per poi cambiare espressione ed accettare quel compromesso.
«Va bene» sospirò Derek «Lo teniamo, ma quando verranno a riprenderselo, glielo restituiremo senza tante storie, intesi?»
«Adesso, però, a letto» intervenne Emma.
«Ma mamma!» si lamentò Oliver. Ormai Talia aveva completamente perso la testa per quel cucciolo e non si sarebbe accorta di niente. Si era completamente innamorata, aveva trovato il suo nuovo passatempo «Dobbiamo trovargli un nome!»
«Lo faremo domattina» replicò la ragazza «A letto!»
Oliver scosse la testa, alzandosi dal materasso e tirando per la manica del pigiama Talia, che stava continuando a cullare il gatto. Si chiusero la porta alle spalle e qualche secondo dopo, Derek li sentì entrare sotto le coperte e spegnere la luce.
«Adesso che abbiamo anche il gatto, cosa ci manca?» domandò il ragazzo, ironicamente.
Emma si accoccolò contro il suo petto e lo sentì accarezzarle i capelli «Una bella dormita, direi»
 
Nei giorni successivi, Sebastian – così Talia ed Oliver avevano deciso di chiamarlo, visto il loro grande amore per La Sirenetta, e il suo color rossastro che richiamava alla mente quello del granchio omonimo – fu il protagonista indiscusso dei divertimenti dei due bambini. Nessuno venne a riprenderselo: Derek chiese persino in giro e fece attaccare in centrale qualche volantino, ma nessuno altro bambino o nessun anziano – mancante della compagnia di una animale – si presentò per riappropriarsi di ciò che aveva perso. Visto ciò, lentamente quella piccola palla di pelo divenne, senza e senza no decisivi, parte della famiglia: Sebastian dormiva con i bambini, perché altrimenti non riusciva ad addormentarsi; lui e Talia bevevano il latte insieme al mattino e con Oliver si divertivano a tirare e recuperare una piccola palla di stoffa che Sebastian finiva per mordicchiare fino a strappare del tutto. Ed ogni volta, la madre di Emma era costretta a lavarla e cucirla come nuova. Alla fine, i ragazzi avevano deciso di tenerlo perché non se la sentivano di abbandonarlo a sé stesso, a destinarlo a qualcuno che probabilmente non gli avrebbe voluto abbastanza bene e non si sarebbe preso cura di lui.
Con questo pensiero ben preciso in mente, Derek entrò nella clinica di Deaton, seguito dai suoi piccoli cuccioli – Sebastian compreso. Erano lì per la sua prima visita: visto che avevano preso la decisione di tenerlo con loro permanentemente, aveva bisogno di un bel controllo.
Quando fu all’interno, vi trovò con grande sorpresa Isaac, intento a leggere qualche giornale nella sala d’attesa.
«Hey» lo salutò Derek, tenendo d’occhio Talia, affinchè non entrasse nello studio del dottore senza bussare «Che ci fai qui?»
Isaac prese la bambina in braccio e la stritolò in un abbraccio ricco di baci e solletico «Come stai, bambolina
Suo padre non era l’unico a chiamarla così: lo facevano tutti nel branco, perché era l’unica femmina della famiglia. Scott, Stiles e Lydia avevano avuto dei figli maschi, mentre Isaac era ancora ben lontano dal pensare ad avere bambini.
La bambina cominciò a ridere a crepapelle ed il ragazzo si rivolse a Derek «Ho portato Nelson a togliere la fasciatura alla zampa: grazie a Dio, abbiamo superato anche questa»
L’amico stava per replicare, quando la porta dello studio si aprì di scatto ed un cane alto, grosso e, purtroppo, vecchio, se ne uscì, trascinandosi lentamente, seguito subito dopo da Deaton.
«Ecco fatto!» esclamò, salutando Derek con un sorriso. Poi tornò a guardare Isaac, consegnandogli il guinzaglio del cane «Niente movimenti bruschi o troppo veloci, intesi?»
Il ragazzo annuì, ringraziandolo ed uscendo seguito dal suo fedele compagno. Il dottore si rivolse, poi, ai suoi nuovi ospiti. Guardò Talia, Oliver, poi il suo sguardo cadde sul piccolo batuffolo color caramello che il bambino teneva con cura tra le braccia.
«Cosa posso fare per voi?» chiese loro, accucciandosi, in modo da essere alla loro altezza e poterli guardare negli occhi: a loro faceva sempre piacere.
«Devi curarlo» parlò la bambina, quasi preoccupata.
«Talia» la riprese suo padre.
Sbuffò, facendo muovere i codini «Puoi curarlo, per favore?»
«Non deve esser curato» intervenne Oliver, con aria di superiorità «Abbiamo solo bisogno di sapere se sta bene»
Deaton rise e si alzò, dicendo loro di seguirli all’interno dello studio: una volta dentro, prese Sebastian, che si arrampicò tra le sue dita, impaurito, mentre Talia volle a tutti i costi esser presa in braccio dal padre, in modo da avere tutta la situazione sotto controllo, ma soprattutto ancorarsi alle spalle del ragazzo, in quanto quel posto non le stava molto simpatico. Deaton le piaceva, perché le dava sempre una caramella, ma quella stanza era a dir poco spaventosa.
L’uomo controllò molto velocemente il piccolo gatto, confermando poi a Derek che non avesse alcun problema, alcuna malattia e che avrebbero potuto ospitarlo in casa senza preoccupazioni.
A quelle parole, Talia ed Oliver esultarono dalla gioia e si fecero restituire immediatamente Sebastian per poterlo stritolare più del normale: era sano come un pesce, per cui adesso era all’altezza di qualsiasi tipo di gioia e di divertimento. Il dottore scoppiò in una fragorosa risata di fronte a quella reazione e fu molto soddisfatto di averli fatti felici: guardò Derek e notò che avesse la stessa espressione, stampata sul volto. Un’espressione serena, tranquilla, di pura e semplice adorazione per i propri bambini: se c’era qualcuno che avesse mai desiderato la felicità di quel ragazzo, era stato lui. L’avevo visto perdere i suoi genitori in una situazione che superava la normale tragicità della vita, l’aveva visto crescere solo, senza amore, amicizia, senza cura, senza un punto di riferimento; l’aveva visto non fidarsi di nessuno, tanto meno di se stesso, l’aveva visto arrabbiarsi, perdere la pazienza, odiarsi; l’aveva visto soffocare i propri demoni, fino ad annegare completamente, fino a lasciarsi andare. Eppure un giorno, era arrivata Emma e la vita aveva ripreso a scorrere, il sole aveva ricominciato a splendere nel cielo. Glielo leggeva negli occhi verdi che brillavano come lo smeraldo, nel modo di fare, nei sorrisi e nell’atteggiamento rilassato che aveva ormai da anni. Deaton pensava che Derek si meritasse tutto quello che aveva ottenuto e molto di più: meritava Oliver, Talia ed Emma; meritava di vivere felice, di sentirsi amato e di avere la forza per combattere per coloro che lo amavano e si erano impegnati così tanto per curare tutte le ferite che aveva riportato; meritava di essere padre e di imparare a farlo, sbagliando; meritava di sentirsi a sicuro, di vedere crescere i propri figli e di sperare per loro il futuro che non aveva avuto lui.
«Grazie, Deaton» la voce del bambino lo riportò alla realtà.
Gli sorrise compiaciuto «E’ sempre un piacere, Oliver»
Guardò Derek dire ad entrambi di avviarsi in macchina, li avrebbe raggiunti a momenti. Quando fu sicuro che fossero fuori, si rivolse al dottore.
«Quanto ti devo?» chiese.
«Niente, l’ho fatto con piacere» rispose l’uomo «E poi, non è stato nulla di che»
«Bhè, allora… Grazie»
Gli strinse una mano, perché quando mai Derek Hale aveva mostrato affetto verso qualcuno, ad eccezione di Emma, e si avviò alla porta.
Quando fu sul punto di uscire, Deaton lo richiamò: il ragazzo si voltò verso di lui, senza capire cosa volesse «Sei felice»
Derek corrugò la fronte, poi sorrise «Sì»
L’uomo annuì soddisfatto, come se già conoscesse la risposta. Anzi, lui già ne era a conoscenza da tempo e non aveva bisogno di conferme «La mia non era una domanda»
 
***
 
Non c’era notte in cui non si presentasse qualche problema; non c’era notte in cui almeno uno dei due bambini non si presentasse in camera dei propri genitori, pronti a reclamare qualcosa o a lamentarsi semplicemente di non riuscire a dormire. Quella notte toccò ad Oliver.
Per fortuna, non era una notte di luna piena e si potrebbe dire che il bambino avesse scelto la serata giusta per svegliare, per l’ennesima volta, i propri genitori: Derek, per esempio, tendeva ad essere molto più tranquillo ed accondiscendente in momenti come quelli.
Il bambino scese dal letto, inciampando quasi nel pantalone troppo lungo del pigiama; sgattaiolò fuori dalla camera, cercando di non far cigolare la porta, per non svegliare Talia, e si inoltrò nel corridoio buio. Nonostante la totale assenza di luce, riusciva comunque a vedere qualcosa: si era sempre chiesto come riuscisse a fare una cosa del genere, ma non aveva mai ottenuto risposta. Sapeva che suo padre avesse qualcosa di speciale e sapeva anche che un giorno sarebbe stato esattamente come lui, quindi tendeva a ricollegare tutte le sue stranezze fisiche e psicologiche a questo: forse un giorno, avrebbe capito meglio.
Una volta arrivato di fronte alla camera dei genitori, entrò dentro in punta di piedi e fece il giro del letto, fin a ritrovarsi davanti al viso profondamente addormentato di Derek. Allungò una mano, appoggiandola sulla spalla del padre, per svegliarlo.
«Papà» piagnucolò «Svegliati»
Il ragazzo si mosse lievemente, per poi aprire lentamente gli occhi e guardare il bambino.
Quando intravide i suoi occhi lucidi e velati di lacrime, si sedette di scatto sul letto, prendendolo in braccio e facendolo sedere sulle sue gambe.
«Che succede?» sussurrò per non svegliare Emma «Stai male?»
Oliver annuì «Mi fa male qui» si lamentò, indicando un punto confuso, all’interno della sua bocca. Derek non riuscì a scorgere niente, così lo prese di nuovo in braccio e si recò in bagno dove, dopo aver acceso la luce, lo posizionò in piedi sul bancone vicino al lavandino e davanti allo specchio.
«Apri bocca» gli disse.
Osservò per un secondo la dentatura, ancora da latte, del bambino e sorrise quando individuò il problema: uno dei denti stava dondolando, ma avendo ancora la radice ancorata alla gengiva, non riusciva a staccarsi e gli provocava dolore.
«Amore, hai un dentino che dondola» lo informò Derek, sorridendo intenerito di fronte allo sguardo sconvolto e assonnato del bambino «Dobbiamo toglierlo»
Oliver scosse la testa deciso «No, non voglio»
Non si fermò nemmeno ad ascoltare le parole del figlio: non avrebbe sentito dolore e probabilmente – anche se la sua parte lupina rimaneva ancora nascosta – sarebbe guarito in fretta, per cui lo fece sedere, gli fece aprir bocca e tra una lamentela, una lacrima e qualche calcio nell’addome da parte di Oliver che non riusciva più a resistere al dolore, riuscì a staccare il piccolo dente.
Quando tornò a guardare il bambino, notò immediatamente gli occhi arrossati da qualche lacrima e il labbro inferiore macchiato da qualche goccia di sangue.
Afferrò immediatamente un fazzoletto e lo pulì «Sei stato bravissimo» affermò fiero «Una vera scimmietta»
Oliver annuì, senza replicare e per un po’ rimasero in silenzio, ad aspettare che la piccola ferita sulla gengiva smettesse di sanguinare.
In quel momento, un’Emma assonnata fece capolino dalla porta, appoggiandosi alla parete bianca e fredda del bagno.
«Che è successo?» mormorò, stropicciandosi gli occhi.
Derek le sorrise, per poi guardare Oliver che lo pregò silenziosamente di non dirle di aver pianto per una stupidaggine del genere: era uno dei bambini più orgogliosi al mondo, uno dei più silenziosi, uno di quelli che, se aveva qualche problema, preferiva tenersi tutto dentro pur di non gravare sugli altri. Derek lo amava anche per questo, perché riusciva a vedere se stesso da piccolo in suo figlio, e non poteva che esserne felice.
Lo prese in braccio e si rivolse alla ragazza «Niente di che, cose da uomini»
Fece per tornare in camera, quando anche Talia apparve all’improvviso sulla soglia della porta, con il suo orsacchiotto di pezza tra le mani «Che fate?»
«Niente, bambolina» la riprese Emma «E’ l’ora di dormire, questa»
Talia sbuffò, uscendo dalla stanza e correndo verso il letto dei genitori. Vi salì sopra e s’intrufolò come un cucciolo sotto le coperte «Possiamo dormire qui?»
Emma stava quasi per dire di no, quando anche Oliver si mostrò d’accordo con la sorella. Derek, vista la situazione ed il bambino quasi addormentato sulla spalla, decise di fare un’eccezione. Lo mise giù e gli disse di infilarsi sotto le lenzuola.
Si rivolse, poi, alla ragazza rimasta in silenzio dietro di lui. Si avvicinò a lei, spingendola indietro, fino a toccare la parete con le spalle.
«Puoi dirmi cosa è successo con Oliver?» domandò di nuovo lei. Incrociò le braccia al petto ed il ragazzo sorrise, perché quel gesto gli ricordò tutte le volte che aveva voluto sapere qualcosa, ma lui, per qualche motivo, non aveva potuto dirglielo.
«E’ un segreto, però» sussurrò Derek «Gli è caduto il primo dente»
Emma scosse la testa divertita e, prima ancora che potesse replicare, sentì le labbra del ragazzo premere dolcemente sulle sue: si ancorò alla sua maglietta, stringendola tra le mani, e sentì le gambe tremare quando le mani di Derek si chiusero salde intorno al suo viso, tirandola più vicina a sé.
«Mmmh, dovremmo svegliarci più spesso nel bel mezzo della notte, se è questo quello che mi aspetta» mormorò la ragazza, con la bocca che sfiorava ancora quella dell’altro.
«Ti potrebbe aspettare anche qualcosa di meglio» replicò lui, spostando le labbra in modo da lasciarle dei baci caldi lungo tutto il collo. Emma riversò la testa all’indietro, chiudendo gli occhi, e ricercò un contatto più forte con il corpo di Derek, tanto che lui fu costretto a fermarsi per non esser costretto a fare qualcosa di troppo azzardato.
«Non possiamo, amore» sussurrò «Ci sono i bambini, di là»
«Ho un’idea, allora» propose la ragazza «Uno di questi weekend, potremmo lasciarli ai miei genitori e passare un paio di giorni tranquilli al loft, oppure da qualche altra parte… Così, tanto per recuperare un po’»
«Direi che è un’ottima idea» rispose Derek.
Emma stava per rispondere, quando sentirono le voci dei bambini provenire dalla loro camera «Mamma, ho sete!» gridò Oliver.
La ragazza sbuffò, guardando Derek, che sorrideva divertito, e fece per incamminarsi, ma lui la fermò «Torna a letto, vado io»
La superò, uscendo dalla stanza, per poi scendere quasi di corsa le scale. Il piano di sotto era completamente buio e silenzioso, ma si risparmiò di accendere la luce: sarebbe riuscito comunque a vedere, ma soprattutto a non andare a sbattere contro qualcosa. Arrivò in cucina, accese finalmente la luce sopra il lavandino e, dopo aver afferrato un bicchiere, lo riempì d’acqua. Fece per uscire, quando si ricordò che, una volta arrivato di sopra, anche a Talia sarebbe venuta sicuramente sete. Per cui, fece marcia indietro e riempì un secondo bicchiere.
Spense la luce e tornò di sopra: quando entrò in camera, però, li trovò tutti malamente addormentati tra le lenzuola. Oliver prendeva tutta la sua parte e abbracciava il cuscino, Talia accoccolata contro il petto della madre con una gamba sotto le coperte ed una no ed Emma che dormiva sul bordo del letto, per lasciare più spazio ai bambini. Si chiese come avessero fatto a riaddormentarsi così velocemente, ma il sonno pesava talmente tanto sui suoi occhi, che nel momento in cui se lo chiese, decise anche che la risposta sarebbe stata superflua.
Per un momento, si fermò a guardare la sua famiglia e per un momento, un piccolissimo momento, pensò a quanto ne fosse fiero. Nella sua vita, non aveva mai ricevuto niente, nessuno gli aveva mai regalato alcuna cosa e aveva sempre dovuto combattere fin quasi alla morte, anche solo per ottenere qualche sciocchezza. Ma quelle tre persone che adesso dormivano nel suo letto… Quelle erano state un dono che qualcuno – se mai fosse esistito – aveva deciso di fargli, e lui non l’avrebbe mai ringraziato abbastanza. Emma era stata l’unico modo per tornare a respirare dopo anni d’apnea, era stata la sua rinascita, l’unico mezzo per capire sé stesso, per apprezzarsi e accettarsi per quello che fosse. Emma era l’unica persona che avesse mai amato in vita sua, l’unica (oltre ai suoi figli, ovviamente) per cui sarebbe morto, senza dubbi, senza incertezze, senza batter ciglio. Oliver e Talia avevano coronato il sogno di formare quella famiglia normale, quotidiana che lui non aveva mai avuto o, meglio, che gli era stata portata via troppo presto. Si ricordava ancora la prima volta che Emma era rimasta incinta e per quanto fosse stata forte la paura della ragazza, lui, per la prima volta, si era sentito al sicuro, si era sentito all’altezza della situazione. Quei due bambini erano stati la sua salvezza e non avrebbe lasciato che nessuno facesse loro del male.
Si rese conto che tutta la sua vita e la sua felicità fossero racchiuse in quella stanza, dentro quel letto e sotto quelle coperte, che fossero fatte di pelle, ossa, sentimenti, sorrisi, pianti, litigi, baci, scherzi; che niente e nessuno le avrebbe mai sostituite; che avrebbe combattuto con le unghie e con i denti per proteggerle.
Gli tornarono alla mente le parole di Deaton, il tono con cui le aveva pronunciate. Lui sapeva, aveva capito, anzi lo aveva sempre saputo. Sin dalla notte della morte dei loro genitori, quell’uomo aveva capito che lui ed Emma sarebbero stati destinati a vivere insieme felici, a condividere dolori e gioie, a combattere pur di non perdere l’altro.
Quella frase così semplice, eppure forte continuava a rimbombargli in testa: «Sei felice». Riusciva sentire la cadenza ed il suono della voce di Deaton, il sorriso soddisfatto che aleggiava sul suo volto.
Scosse la testa e si intrufolò sotto le coperte, spostando Oliver, senza svegliarlo. Si sdraiò e abbracciò il bambino; poi rivolse lo sguardo all’oscurità, senza preoccuparsi di far brillare gli occhi rossi per poter vedere il soffitto, attraverso tutto quel buio.
Inspirò lentamente e quando l’odore dei suoi bambini fu la prima cosa che lo colpì come un pugno in faccia, finalmente capì.
Erano felici, lui era felice.

 
  
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