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Autore: _Lady di inchiostro_    31/03/2017    1 recensioni
Secondo quanto si dice su Sibun, chi è affetto dalla Sindrome dell’Astronauta è convinto di poter percepire il dolore di un’altra persona anche se questa è distante anni luce. Di avere le stesse malattie, di ferirsi dove si ferisce l’altro, e di poterci comunicare attraverso i sogni. Questa persona è sempre un abitante del Pianeta Terra.
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Oikawa Tooru è un promettente pilota del pianeta Sibun, nel Sistema Trappist-1.
Da un paio di giorni, però, sogna di trovarsi in un posto bellissimo e con un’altra persona, Iwaizumi Hajime, un abitante del Pianeta Terra. Ma su Sibun, si dice che la Terra sia ostile e che la vita sia impossibile. Chiunque dica il contrario è considerato folle.
Cosa avrà intenzione di fare Oikawa?
E soprattutto, siamo proprio sicuri che sulla Terra si possa ancora vivere?
~
[Science Fic] [Soulmate AU!] [Un po’ di Interstellar, un po’ di Your Name] [Questa storia partecipa allo Sci-Fi Fest “Sci-Fi Enterprise – Non è mai troppo TARDIS!” di Torre di Carta e Fanwriter.it]
Genere: Angst, Generale, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa, Un po' tutti
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A quaranta anni luce di distanza'
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Iniziativa: Questa storia partecipa allo Sci-Fi Fest “Sci-Fi Enterprise – Non è mai troppo TARDIS!” di Torre di Carta e Fanwriter.it 
Numero Parole: 7835 
Prompt/Traccia: Countdown
Note della piratessa spaziale (?): per ulterioti informazioni, vi consiglio di leggere le note finali. Grazie della vostra attenzione! <3 


 



 
Capitolo terzo
~

Atto primo







La mattina dopo, Hajime riusciva già a muovere le braccia e a mettersi seduto, ma muovere le gambe era ancora fuori discussione. Questo stava a significare, però, che la medicina su quel dannatissimo pianeta faceva veramente dei miracoli. Se lui stava così, allora voleva dire che anche Oikawa si era ripreso. Ripensò a quello che era successo tra loro due, sembrava fossero passati pochi secondi, e non sapeva se sentirsi un completo scemo mentre desiderava ardentemente averlo al suo fianco, in quel momento.
Iwaizumi si passò un dito sulle labbra, prima di fare leva sulle braccia, appoggiandosi poi sullo schienale del letto. Produsse un sospiro basso, mordicchiandosi l’interno della guancia nel tentativo di sentire meno male in tutto il resto del corpo.
«Oh mio dio, Hajime!» Suo padre aveva aperto la porta e vedendolo seduto in quel modo, non poté non esprimere la sua enorme gioia. «Stai meglio? Riesci a muoverti?»
«Dalla vita in giù a malapena…» disse con una smorfia. «Ma per il resto sì… riesco a muovermi.»
«Meno male!»
L’uomo rimase in piedi a fissarlo, nella mano destra teneva un piatto con una fetta di quello che doveva essere pane integrale, e Hajime giurò di avergli già visto quell’espressione addolorata sul volto. Aveva lo stesso sguardo perso nel vuoto quando sua madre era in fin di vita. Lui non l’aveva vista quando era oramai ridotta in condizioni pessime, poteva solo sentirla tossire da dietro la porta; ma suo padre sì, l’aveva vista, e poteva solo immaginare quanto fosse stato difficile per lui lasciarla andare. Quando si ama una persona si è disposti a fare qualsiasi cosa, persino chiedere alla morte di prendere la propria vita in cambio di quella dell’altro.
Lui e suo padre si assomigliavano parecchio. Poteva non sembrare così, ma era la verità, erano sempre stati dei tipo un po’ chiusi in se stessi, riuscivano a comunicare solo tra loro. Suo padre era diventato più aperto da quando sua moglie non c’era più, perché era sempre stata lei quella che socializzava con gli altri e che sorrideva sempre.
Suo padre aveva un modo tutto suo di mostrarsi forte e, allo stesso tempo, di ricordarla; ma proprio perché erano fin troppo simili, Hajime sapeva benissimo cosa stava provando. Aveva perso la sua sorellina acquisita, e aveva rischiato di perdere un’altra persona altrettanto importante.
«Papà, tutto bene?» chiese.
L’uomo parve riscuotersi. «Sì, scusami… Ti ho portato qualcosa da mangiare.»
«Non ho fame, grazie.»
Gli sorrise a stento, posando il piatto sul comodino e recandosi verso la porta. Si fermò sull’uscio, stringendo tra le dita lo stipite in legno. «Posso sapere che cosa hai?»
Il ragazzo parve confuso. «Che intendi?»
«Parlo della tua malattia – interruppe il figlio prima che ricominciasse a parlare –, e non mi riferisco alla paralisi.»
Hajime sentì un brivido lungo tutta la schiena, non sapendo se prenderlo come un buon presentimento per la sua guarigione, o come un segnale d’allarme. Scostò lo sguardo da quello del padre e fece un grugnito.
«Come lo sai…?»
«Sono tuo padre. Mi credi così cieco da non accorgermi che c’è qualcosa che non va in te, che sei spesso stanco e che mangi a malapena?» Valeva lo stesso discorso di prima: se Hajime conosceva abbastanza bene il padre, allora anche lui conosceva bene il figlio. E poi…
«Lo sai perché insistevo tanto sulla questione del cibo? Perché tua madre aveva cominciato così prima che si ammalasse… Poi cominciò a tossire sangue.»
Un altro brivido, questa volta sulle spalle. Teneva la testa bassa, mentre suo padre si sedeva con cautela sul bordo del letto.
«È la stessa malattia…?» gli chiese, gli occhi adesso lucidi.
Hajime alzò lo sguardo. «Sì, è la stessa malattia della mamma…»
Una cosa che Hajime non si sarebbe di certo aspettato era che suo padre lo abbracciasse. Non strinse troppo, si limitò solo ad avvicinarlo a sé, e lui non riusciva proprio a ricambiare la presa. Era troppo sconvolto. Voleva piangere, ma decise di trattenersi.
L’uomo lo lasciò andare poco dopo, sorridendogli, e passandogli una mano sulla spalla. E fu in quel preciso momento, con quell’immagine davanti, che Iwaizumi si impose di mantenere un’ennesima promessa.
Non l’avrebbe lasciato da solo. Non si meritava di soffrire ancora.
Nessuno doveva soffrire ancora.
«Papà – cominciò –, ti prometto che ce ne andremo da questo pianeta.»
L’uomo non capì perché il figlio gli avesse detto così, e per un attimo corrucciò la fronte. La pelle d’oca venne dopo.
Quello sguardo così determinato, sul volto di suo figlio, non lo vedeva da quando era solo un bambino.






Il giorno dopo la gara erano venute le persone più disparate: oltre al suo team – che aveva praticamente piantato le tende dentro la sua stanza d’ospedale – gli avevano fatto visita anche i membri della scuderia Karasuno e qualcuno della scuderia della Shitorizawa.
Oikawa fu costretto a dover ringraziare sia Kageyama sia Ushijima, anche se a detta di quest’ultimo era stato il più giovane a fare tutto, e Hinata Shoyo non aveva fatto altro che metterlo in imbarazzo, raccontando com’era andata.
A quanto pare, Tobio si era accorto della navicella mezza distrutta solo quando era sulla linea di traguardo; avrebbe voluto svoltare, e tornare indietro, ma a quel punto la navicella di Wakatoshi gli sarebbe finita contro, per cui fu costretto a frenare di lato, frantumando metà navicella. Aveva detto al suo senpai che, per quanto fosse suo nemico, non gli avrebbe mai augurato una morte come quella, e Oikawa fu sinceramente colpito.
Ushijima si era fermato più avanti, invece, anche lui capendo immediatamente quanto era successo e aiutando Kageyama a forzare lo sportello inceppato. Tutto questo, aveva un che di eroico e pittoresco, e si chiese se la gente non avesse finito per ingigantire la cosa. O forse avrebbe voluto essere lui al posto di quei due trogloditi.
La situazione quasi degenerò quando quel piccoletto accennò alla questione sul fatto che lui avesse la Sindrome, e tutti si girarono a guardarlo. Per la prima volta nella sua vita, ringraziò quella parvenza di buon senso che aveva Tobio-chan, che bloccò subito la parlantina del compagno.
La mattinata passò velocemente, e anche alcuni membri del suo team cominciarono ad andarsene; gli unici a rimanere furono Makki e Mattsun, un altro della squadra dei piloti. Aveva bisogno di parlare con loro. Non perché non si fidasse degli altri, ma perché quei due li conosceva da più tempo.
«Ho bisogno che mi facciate un favore…» disse, serio.
«Wait, time out» Makki fece il gesto prima di ricominciare a parlare. «L’ultima volta che ti ho visto così serio è stato prima della gara… Si può sapere che succede?»
Oikawa non avrebbe voluto evitare di rispondere alla domanda, ma bisognava dare tempo al tempo. Ogni cosa avrebbe avuto la sua spiegazione.
«Mattsun, dentro la tasca della mia giacca c’è un biglietto, puoi prenderlo?» disse, indicandogli il divanetto con i suoi vestiti che avevano di fronte.
Per fortuna che adesso riuscisse a sollevare le braccia e che potesse stare appoggiato a due morbidi cuscini, questo poteva solo significare che il Siero stava funzionando e che gli impulsi mandati dal suo cervello non venissero totalmente ignorati.
Il ragazzo si alzò dalla sedia, trovando poi il bigliettino. Glielo stava passando, ma Oikawa gli disse di leggere quello che c’era scritto.
«K-2SO.» Ci rifletté un attimo. «È il numero di una Nave Passeggeri?»
«Sì. La sto rimodernando di nascosto.»
«Rimodernando?» Makki pareva sempre più perplesso.
«Nell’altra tasca – disse, continuando a rivolgersi a Matsukawa – c’è un taccuino. Se lo apri, capirai perché lo sto facendo.»
L’altro fece quanto gli era stato detto, rimanendo comunque perplesso. Sfogliò un paio di pagine con un’espressione annoiata, finché non sbiancò. Takahiro si alzò un secondo dopo, sporgendosi per intravedere anche lui quello che stava leggendo, e la sua espressione era la stessa dell’amico. Entrambi alzarono la testa, in contemporanea, fissandolo sconvolti.
Oikawa non sapeva se mettersi a ridere o se temere che chiamassero qualcuno da un momento all’altro. Quelle pagine, contenevano tutti gli appunti che aveva riportato dai fascicoli della sorella di Ukai-san.
«No no» disse Makki, sedendosi di nuovo – prima che le gambe cominciassero a cedere – e avvicinando la sedia al lettino. «Non puoi dirmi che tu hai…»
«Sì, ce l’ho… Ma non per questo sono diverso dal solito!» Spostò lo sguardo su entrambi i compagni. «Ci sono seriamente degli abitanti sulla Terra.»
«Vi prego, ditemi che non sta succedendo veramente…» continuò l’altro, abbandonandosi con la testa all’indietro e passandosi la mano sul viso, come a volersi svegliare da un brutto sogno. Mattsun, invece, non spiccò una parola, troppo intento ad osservare Tooru, quasi studiandolo.
«Sentite – continuò il pilota – ho scelto di dirvelo perché so che posso fidarmi ciecamente. Un’altra persona, al vostro posto, sarebbe già andata a urlarlo ai quattro venti! Siete i migliori in questo campo, vi chiedo solo di credermi!» La voce gli uscì un po’ strozzata, ma non importava in quel momento.
I due rimasero in silenzio, non sapendo cosa dire, Hanamaki che si massaggiava il collo e sbuffava, Matsukawa che ogni tanto dava un’occhiata a quello che c’era scritto.
«Credevo che capitasse solo alle donne…» aggiunse poi. «Anche mia zia l’ha avuta. È morta prima che si venisse a sapere.»
Oikawa sbatté gli occhietti: non si era mai aperto così, non fino a quel punto, e probabilmente scendere nei dettagli era troppo per lui. Francamente, non se la sentiva di chiedergli come fossero andate le dinamiche.
«Questa persona è importante per te? Intendo quella dei sogni.»
«Issei non gli crederai sul serio!» Makki era a conoscenza di quella storia sulla sua famiglia già da parecchio tempo, ma non credeva che l’avesse toccato fino a quel punto.
Oikawa ripensò immediatamente a quanto era successo in sogno quella notte, al marchi che Iwa-chan gli aveva lasciato sul collo e che tutti gli avevano chiesto cosa diavolo fossero. Poté sentire ancora lo sfarfallio allo stomaco mentre lo stava baciando, e avrebbe voluto farlo ancora.
«Sì» disse, quasi come se ne fosse reso conto solo ora.
L’amico lo guardò un attimo, mordicchiandosi poi il labbro inferiore. Gettò il taccuino sul letto. «Cosa vuoi che facciamo?»
«Issei!»
Oikawa lo ringraziò mentalmente per non averlo lasciato a marcire. «Ho rivestito la Nave dello stesso materiale che si usa per le Navi dei Ricercatori. A quanto pare, la temperatura sulla Terra è molto più alta, perciò c’era bisogno di un rivestimento protettivo, e quello delle navi che usiamo per viaggiare da un modo a un altro mi sembrava perfetto. Bisogna solo finire di rivestirla. E ho fatto qualche modifica interna, dovete solo vedere se vanno bene…»
Ci fu un attimo di silenzio, poi Issei si rivolse all’amico ancora sconvolto per tutte quelle informazioni improvvise. «Allora, Takahiro, tu sei dei nostri?»
Guardò prima l’uno e poi l’altro, capendo immediatamente perché avesse accettato di aiutarlo: c’era qualcosa di diverso in Oikawa, qualcosa che non sapeva distinguere né riconoscere, ma non era di certo qualcosa di negativo. E per la prima volta nella sua vita, si ritrovò a dubitare su quanto si dicesse su questa Sindrome.
«Mi pare di non avere scelta» disse, alzandosi in piedi e allargando le braccia. «E poi, non è la prima volta che assecondiamo le tue pazzie!»
Tooru sorrise, guardandoli entrambi con estrema gratitudine. «Grazie…» 






*




 
Una settimana dopo…






Capitava che lo scenario dei loro sogni, adesso, cambiasse. Potevano trovarsi sulle sponde del lago, o sempre sul margine del cratere, eppure questa volta si trovarono in una stanza. Non quella nera dell’incubo dell’altra volta, ma una qualunque stanza da letto di un ragazzo qualunque.
La stanza di Tooru.
«Benvenuto nella mia reggia!» disse, seduto sul bordo del letto, anche lui stupito di trovarsi lì. Fuori dalla finestra che illuminava la stanza, si poteva ancora vedere il lago.
Iwaizumi si guardò attorno, studiando l’ambiente, dal letto, all’armadio, ai vari modellini di navicelle esposti dentro una teca, ai disegni. Si pose davanti alla scrivania, osservando quei fogli appesi al muro. Avevano dei colori brillanti, stonavano su quelle pareti bianche.
«Li hai fatti tu?» chiese, indicandoli con la testa. Adesso, si muoveva quasi perfettamente, anche se aveva un po’ di difficoltà a camminare. Il castano annuì. «Non sapevo sapessi disegnare…»
«Sì, beh, non sono niente di che – poi vide il modo con cui Iwa-chan stava osservando le navicelle, curioso e affascinato in egual misura – quella bianca e celeste è la mia!»
Aveva un bel design, pensò Hajime, e si rese conto che l’idea umana di un’odissea spaziale non si sarebbe realizzata mai; per quanto ci provassero, non sarebbero mai riusciti a inventare navicelle come quelle, neanche se il pianeta fosse stato nelle condizioni adatte. Spostò poi lo sguardo su un altro plico di fogli posato sulla scrivania, facendo scivolare i disegni di lato ad uno ad uno. Aveva persino riprodotto quel bellissimo paesaggio alla perfezione, e Hajime provò una leggera punta d’invidia.
Qualcos’altro, però, catturò la sua attenzione. «E questo che sarebbe?»
Oikawa vide sventolarsi davanti agli occhi il disegno di un omino stilizzato di Iwa-chan, con un buffo balloon in cui diceva: “Puzzo”. Il ragazzo non pareva per nulla divertito dalla cosa. «Mi annoiavo…» disse, facendo fuoriuscire il labbro inferiore, e Iwaizumi alzò gli occhi al cielo.
Stava per risistemare tutto, quando un altro disegno destò il suo interesse; anzi, per essere più precisi, il suo stupore.
Era un suo ritratto. Non una versione stilizzata, ma un vero e proprio disegno che lo rappresentava di profilo, gli occhi colmi di meraviglia. Oikawa aveva catturato perfettamente il momento in cui aveva visto per la prima volta quello spettacolo. Il suo cuore batteva a mille, saltando persino qualche battito, e avvampò. Un altro disegno, posto sotto, gli diede il colpo di grazia.
Aveva appurato che Oikawa avesse una fervida immaginazione e che fosse molto intuitivo, ma non fino a quel punto. Lui gli aveva dato una descrizione approssimata, ma lui era riuscito a riprodurre fedelmente Haruka.
Gli aveva parlato di quando la faceva divertire sollevandola da terra, schiena contro schiena, e lui aveva disegnato proprio quella scena. Entrambi ridevano. Passò le dita sul volto della ragazzina e sorrise.
«Ti piace?» Oikawa capì subito quale disegno avesse preso, e si sentì un po’ il colpa per averlo realizzato.
L’alto annuì, sorridendo. Gli pizzicavano gli occhi.
Rimasero a fissarsi per un tempo indefinito, poi Oikawa si alzò dal letto, cercando di smorzare la tensione. «La Nave è quasi pronta, Makki e Mattsun stanno facendo un ottimo lavoro, mi tengono sempre aggiornati» Indicò un disegno posto un po’ più lontano dagli altri e che rappresentava una navicella più grande delle altre. «Avrà quelle dimensioni, pensi che ce la farà ad atterrare alla base?»
«Sì, presumo di sì.»
Avevano passato l’ultima settimana a capire quali fossero le coordinate giuste, senza avere altre informazioni se non la loro memoria e la possibilità di poter cambiare posto a proprio piacimento nei sogni. Oikawa aveva avuto il piacere di passare una notte nella biblioteca di Tokyo, e Iwaizumi di dare un’occhiata al famoso archivio.
«Quanti passeggeri ci saranno?»
«Pochi. Nessuno crede alla storia che io e Jun abbiamo scritto su Internet…» disse, indurendo la mascella. Avrebbero ritentato, non si sarebbero arresi così facilmente. «In ogni caso, dovremmo entrarci.»
«Perfetto, allora siamo quasi pronti!» trillò Oikawa.
Tutto stava procedendo anche meglio del previsto.
«Bene, adesso cosa vuoi fare?» Avevano ancora un po’ di tempo prima che la luce svanisse.
Tooru non gli rispose, si limitò solo a fare un ghigno famelico, dopodiché cominciò a baciarlo senza alcun preavviso. Oramai era quasi una routine, e Hajime doveva ammettere che anche lui non riusciva a farne a meno. Questa volta, però, c’era qualcosa di diverso: Oikawa sembrava quasi affamato, come se non gli bastasse mai. Lo spinse verso di sé, e il castano produsse un verso di piacere, le loro lingue oramai completamente intrecciate.
Il resto, per entrambi, fu troppo veloce anche solo per registrarlo. L’uno spogliò l’altro, senza che le loro bocche si lasciassero, a meno che non fosse necessario. Ogni tanto le gambe cedevano, ma in quel momento era l’ultimo dei loro pensieri. Iwaizumi lo spinse sul letto, e per la prima volta poté ammirare quel corpo che aveva sempre visto nascosto sotto strati di vestiti. Era quasi certo che avesse un bel fisico, ma non era solo questo.
Tooru era bello. Anche così, anche con le guance rosse e i capelli scomposti, a Iwa-chan piaceva. Non glielo avrebbe detto mai, ma il pilota era abbastanza intelligente da capirlo da solo. E poi, anche per lui valeva la stessa cosa.
«Iwa-chan…» gemette, sentendo la mano dell’altro che si insinuava dentro le sue mutande, mentre continuava a martoriargli il collo con baci e morsi.
Lui prese l’iniziativa, liberando il ragazzo dalla stoffa, e poté quasi sentire l’altro sospirare per il sollievo, il viso ancora nascosto sul suo collo.
Lo stavano facendo, stavano per varcare una soglia da cui poi non sarebbero più tornati.
«La prossima volta, assicuriamoci di fare sesso nel mondo reale!» scherzò Hajime, respirando a tentoni.
Avevano le mani sul membro dell’altro, e massaggiavano con movimenti lenti, trattenendo i gemiti.
«Iwa-chan…» lo chiamò, capendo di essere arrivato oramai al limite.
Si guardarono negli occhi, e quelli di Oikawa si inumidirono non solo per via del piacere, ma anche perché qualcosa aveva appena preso strada nella sua mente. La paura. La paura che Iwa-chan non riuscisse ad arrivare vivo su Sibun. Perché anche se lui faceva finita di niente, sapeva che stava sempre peggio.
«Ti prego, non morire…»
Hajime lo fissò, serissimo, dandogli un bacio prima sulla fronte e poi sulle labbra. Per quanto fosse stato meno passionale degli altri, per Oikawa valeva anche di più. 
«Te lo prometto» disse, baciandogli poi gli zigomi inumiditi.
Il primo a venire fu Iwaizumi stesso, e poco dopo fu Oikawa. Rimasero distesi uno sopra all’altro, a fissarsi negli occhi, come se fosse l’ultima occasione per potersi rivedere. Poi, tutto si oscurò improvvisamente.



   




Aprì gli occhi di scatto, realizzando solo in quel momento che sua sorella lo stesse scuotendo.
«Oikawa, svegliati» sussurrava, e lui si mise seduto a stento.
«Hoshi, che diavolo succede...?» chiese, la sua mente ancora proiettata all’interno del sogno, con gli occhi di Iwa-chan puntati nei suoi.
Aveva il collo rosso, probabilmente di lì a poco sarebbe spuntato qualche livido. Non aveva tanta importanza, in fondo.
La ragazza dapprima non rispose, teneva la sguardo fisso su qualcos'altro, anche qualcosa le diceva che sarebbe stato il caso di smetterla di fissare con insistenza. «Perché hai la mano dentro i pantaloni...?»
Oikawa spalancò gli occhi, poi tirò fuori la mano in questione, chiudendola poi a pugno. «Ecco...»
«Ho cambiato idea, non sono sicura di volerlo sapere!» lo interruppe, e il ragazzo le fu grato mentalmente. Sarebbe stato un po' complicato da spiegare.
«Si può sapere perché mi hai svegliato – Oikawa guardò l'orologio – alle cinque e mezza del mattino?»
Di solito, era lui che svegliava la gente nel cuore della notte, e adesso capiva perché rispondessero tutti bruscamente alle sue domande esistenziali.
«É una cosa urgente, riguarda i tuoi amici!»
«I miei amici...?» Oikawa non capiva.
«Sì, Issei e Takahiro. Li hanno scovati poco fa al Deposito, mentre lavoravano su una Nave Passeggeri.»
Era nel panico. Oramai stava guarendo, sarebbe uscito da lì tra due giorni, o forse l'indomani stesso, e a quel punto avrebbe pensato lui alla navicella, partendo poi di nascosto. Era stato lui a dirgli che potevano lavorarci solo la notte, facendo attenzione ai custodi, ma forse i ragazzi non avevano calcolato abbastanza il tempo, arrivando fino a quell'orario.
«Quando è successo?» chiese immediatamente.
«Giusto una quindicina di minuti fa. C'era anche papà sul luogo. A quanto pare, quei due ragazzi hanno la Sindrome...»
Oikawa cominciò a sudare freddo. «Cosa...?»
«Hanno trovato un taccuino con degli appunti che riguardavano il Pianeta Terra» continuò Hoshi. «E sai bene cosa significa...»
Un taccuino. Il suo taccuino.
Mattsun e Makki erano finiti nei guai per colpa sua. E sapeva che avrebbero preferito farsi torturare piuttosto che accusarlo per salvarsi la pellaccia. Hoshi stava per posargli una mano sulla spalla, come a volerlo rassicurare – era normale che fosse sconvolto, i suoi due migliori amici erano stati accusati di una cosa gravissima –, quando suo fratello scostò le coperte. Voleva scendere dal letto. 
«Devo andare a parlare con papà...» disse, le gambe che tremolavano leggermente. Poteva stare in piedi, ma per camminare ci voleva uno sforzo maggiore.
«Cosa?» Hoshi parve confusa. «Tooru, sei ancora sotto osservazione, non puoi andartene così!»
«Dove li stavano portando...?» chiese, ignorando quello che gli era stato appena detto.
«Faranno una sorta di processo prima di rinchiuderli, per la questione della Nave...» Scosse la testa. «Senti, capisco che per te è dura da accettare, ma...»
«Quel taccuino è mio, Hoshi.»
Gli occhi color ambra della ragazza si fecero più grandi, guardando il fratello come se fosse un fantasma. Oikawa, però, non abbassò la testa.
«A quella Nave ci stavo lavorando io» ammise. «Ho chiesto a Makki e Mattsun di lavorarci finché non mi fossi ripreso.»
Hoshi deglutì con forza. Non aveva il coraggio di toccarlo, ma fu lui a prenderle la mano. «Ti prego Hoshi... Non posso lasciare che vengano accusati al posto mio!»
Tooru parlò quasi in lacrime, ma il suo sguardo non sembrava disperato. Era determinato, fiero. Hoshi non l'aveva mai visto così.
Aveva intuito da tempo che c'era qualcosa di diverso in lui, ma credeva che fosse dovuto al fatto che stesse male. Eppure, nonostante quella tosse strana, i medici avevano detto che non aveva nulla.
Ora, capiva che erano altri i pensieri che popolavano la mente di Tooru. Deglutì ancora, pentendosi immediatamente di quello che stava per fare, mettendo da parte la sua razionalità da scienziata, per seguire quello che gli diceva il cuore.
Si mise in piedi, mostrando a suo fratello la schiena. «Sono pur sempre tua sorella maggiore, non ti permetterei mai di andare a zonzo in queste condizioni!» disse, e anche se Oikawa non poteva vederla, sapeva che stava sorridendo. «Coraggio, ti porto io!»
Era una cosa che facevano quando erano piccoli, per gioco, e per un attimo Tooru provò un po' di nostalgia.
Sorrise, facendo poi quello che gli aveva detto la sorella, ed entrambi schizzarono fuori. 
Neanche diede retta a quello che urlavano le infermiere alla sue spalle, mentre Hoshi gli intimava: «Mi devi un favore, sappilo!»
E per quanto la situazione fosse disperata, Oikawa non poté non ridere.







Suo padre si trovava a casa. Oikawa non aveva idea di come avessero fatto ad arrivare vivi, senza che nessuno li fermasse prima. Avevano percorso mezza città in quelle condizioni, lui che sembrava un pazzo scappato dal manicomio e sua sorella col rischio che collassasse di punto in bianco. Era riuscita ad evadere la sicurezza dell'ospedale, muovendosi tra le vie più scondite, e quando raggiunsero il vialetto di casa tirarono entrambi un sospiro di sollievo. Trovarono il padre seduto davanti al tavolo da pranzo laccato di bianco.
«Papà, devo parlarti...» disse Oikawa, cercando di immagazzinare tutta l'aria possibile nei polmoni, mentre sua sorella lo faceva scendere e lo aiutava a reggersi.
Non continuò a parlare. Il respiro gli si mozzò di nuovo, e lo stesso valse per sua sorella. L'uomo teneva tra le mani il suo taccuino, e lo rigirava con un'espressione che andava dall'annoiato al furioso.
«Questa è la tua scrittura, vero?» chiese, sventolandolo in direzione del ragazzo.
Non ebbe bisogno di risposte, fece schioccare la lingua e si alzò in piedi, abbandonando il taccuino sul tavolo.
Oikawa riuscì a far staccare la lingua dal palato e parlò. «Allora, se lo sai, perché non fai scagionare Makki e Mattsun?»
L'uomo fece una risata sprezzante. «Stai scherzando? Tu sei sotto la mia tutela, ti rendi conto della figuraccia colossale che farei se si venisse a sapere questa storia?»
«Non m'importa, i miei amici non c'entrano niente!» urlò. «Sono io che li ho coinvolti in questa storia!»
L'uomo fece un sorriso amaro. «Lo sai... Tuo padre mi aveva esplicitamente chiesto di dirti la verità sul Pianeta Terra quando saresti stato più grande. Non avrei mai pensato che lo venissi a scoprire così...»
Ebbe la sensazione che Hoshi tremasse leggermente. Lui rimase di sale, non capendo quello che volesse dire, fino a quando... 
«Tu lo sapevi...»
Il sorriso dell'uomo si allargò. «É un segreto che alcuni di noi si portano nella tomba, ma per qualche strana ragione altri sentono il bisogno di ereditare questo fardello ai proprio figli... Così voleva fare tuo padre.»
Non l'aveva mai conosciuto il suo vero padre. Sua madre si era risposata quando lui aveva solo un anno. Rokuro, oltre ad essere anche lui vedovo e con una bambina già grande, era anche un ottimo amico di suo padre. Erano stati due grandi Ricercatori, una squadra. Il suo vero padre era morto in una missione cui Rokuro non prese parte. Per questa ragione si era offerto di mantenere sia sua madre sia suo figlio, a patto che si sposassero.
«Che cosa sai?» gli chiese, scandendo bene le parole e assottigliando lo sguardo.
Avrebbe voluto ucciderlo. Anni e anni di bugie, e milioni di persone erano state accusate di follia, quando quella storia, in realtà era vera.
Si teneva solo nascosta per... perché?
«So che tu hai la stessa dote che avevano un tempo gli abitanti di Sibun. Quella di poter vedere quando un popolo, anche lontano, aveva bisogno di aiuto, attraverso i sogni.» S'interruppe, alzando lo sguardo su un Oikawa sempre più sconvolto. «So che per questo motivo siamo andati ad esplorare la Terra, perché loro invocavano queste “divinità” per chiedere aiuto. So che eravamo molto più tecnologici di loro, le vedi quelle?» Indicò le Piramidi. «Ci sono anche sulla Terra, e sono una nostra invenzione. So che, nonostante risolvessimo i loro problemi, loro continuavano a chiamarci, finché non abbiamo deciso di stabilirci lì. Ci siamo integrati, abbiamo abbandonato Sibun, e abbiamo imparato la loro lingua, mentre la nostra Lingua Muta fu usata molti anni dopo per far comunicare chi non sentiva...»
Girò attorno a Oikawa e sua figlia. «Abbiamo abbandonato quel pianeta tempo prima, quando l'uomo fece strage di milioni di vite, tra cui alcune dei nostri uomini migliori. Era il 1945, te ne rendi conto? Quanto tempo...» Si passò una mano sugli occhi. «Alcuni sono rimasti, e ogni tanto mandavano segnali per indurci a ritornare. Com'è che li chiamano quegli idioti? Ah sì, Cerchi nel Grano! Non sanno neanche che nella nostra cultura rappresentano la speranza, l’amore, e altri sentimenti vari.»
Dopo aver fatto il giro della stanza, tornò davanti a Oikawa, che cercava di assimilare tutte quelle informazioni come se fosse una spugna, la sua mentre che lavorava per trasformarle in consapevolezza. Aveva appena scoperto la verità dall'uomo che l'aveva praticamente cresciuto.
Trattenne le lacrime facendo profondi respiri. «C'è qualcos'altro che devo sapere?»
L'altro alzò le spalle. «Sogni un'altra persona?» Oikawa non fece niente, ma l'uomo intuì che fosse così. «Probabilmente avrà qualche discendente che proviene da Sibun, per riuscire a fare questa cosa... Oh, e se senti il dolore che prova l’altro, probabilmente è perché questa persona ha davvero bisogno di un aiuto disperato. Almeno, funzionava così un tempo, non so se le cose sono cambiate. Capita troppo spesso nell’ultimo periodo.»
Oikawa era quasi tentato di sputargli in faccia. «E quindi?»
«Quindi niente. Ti ho detto tutto quello che dovevi sapere.»
«E tu credi seriamente che io rimarrò con le mani in mano aspettando che quella gente muoia?» Puntò il dito verso il corridoio, come a voler indicare l’enorme spazio che c’era fuori dalla casa. «Noi abbiamo mezzo pianeta disabitato, potrebbero benissimo vivere lì, o su Cnosso e Festo!»
«Sono degli esseri rozzi, Tooru!» urlò Rokuro. «L’unica cosa di decente che ci hanno insegnato è stato l'uso della parola, le loro stupidissime lingue! Per il resto, siamo noi che abbiamo costruito il loro mondo, noi gli abbiamo insegnato a usare dei simboli per scrivere, i nostri uomini sono i loro migliori scienziati! È un bene se spariscono dall'Universo! Abbiamo fatto tanto per vivere in pace, loro finirebbero per distruggerci!»
Il castano scosse la testa. «No, ti sbagli… Non sono tutti così…»
Lo analizzò come se fosse un reperto proveniente da un altro pianeta. «Ti sei affezionato a quella ragazza...»
«Ragazzo.» Questo lo lasciò sorpreso. «E sì, sono innamorato di lui. Farò di tutto per portarlo qui, assieme a più gente possibile!»
«Smettila di fare l’eroe, Tooru. Guardati: sei in condizioni pessime... Non riusciresti a percorrere nemmeno venti metri nello spazio.»
Erano faccia a faccia, a due centimetri di distanza, e si fissavano come due animali pronti a sbranarsi.
Fu Oikawa a parlare, dicendo quello che, da diversi anni, maturava dentro di lui. «Il mio vero padre mi avrebbe sicuramente appoggiato...»
Il ceffone che gli arrivò in faccia non se l'aspettava, e sputò sangue dalla bocca.
Tanto, aveva cominciato ad abituarsi. Iwa-chan peggiorava sempre di più.
Ed era anche questo uno dei motivi per cui non poteva stare lì a perdere tempo. 
«Sei un ingrato...» sibilò l'altro. «Non ti permetterò di infangare la mia carriera...»
Se fosse stato in condizioni migliori, forse sarebbe riuscito a stenderlo con un pugno; ma era ancora parecchio debole, per cui fu facile fermarlo. Rigirò il braccio dietro la schiena, e Oikawa non riuscì a trattenersi dall'urlare, poi lo atterrò, dandogli una ginocchiata dietro la gamba.
Stava per continuare, quando Hoshi lo fermò, in lacrime. «Papà, ti prego, basta!»
Oikawa non poteva vederlo, ma riusciva a sentire i respiri dei due. Rokuro parlò poi alla casa. «Asimo!»
«Mi dica, padrone!»
«Non appena usciamo, chiudi tutte le porte a chiave. Tooru non deve fuggire!» Si girò verso la figlia. «Tu rimani lì?»
La ragazza fissò il fratello, disteso per terra, e incrociò il suo sguardo. Fu lui a farle cenno di andarsene.
Non dovevano essere coinvolte altre persone.
Seguì il padre, e Oikawa capì di essere realmente solo quando sentì la serratura scattare.







Hajime intuì che c'era qualcosa che non andava quando cominciò a sentire dolore al braccio.
Si era svegliato, quella mattina, con i residui dell'orgasmo ancora addosso, e come faceva da una settimana si era recato alla base spaziale, accompagnato dal padre.
Gli aveva confessato quello che lui e Jun stavano facendo, e se all'inizio era molto restio a crederci, alla fine si ritrovò ad accettare la cosa. Era ancora particolarmente scettico, ma spesso ripensava all'espressione di suo figlio, quella mattina, e si disse che doveva essere sicuramente vero se lui ci credeva così tanto. E lo stesso discorso, valeva per la famiglia di Haruka.
Per il resto, nessuno gli credeva, né gli scienziati della Jaxa, né la gente sui social; nemmeno gli uomini potenti credevano a quella storia, nonostante avessero una piccola possibilità di salvarsi.
Ancora una volta, Jun e Hajime furono sorpresi davanti al computer, e ancora una volta vennero cacciati via – e non dal padre di Jun.
Fu allora che cominciò a sentire dolore al braccio, quasi come se una mano invisibile glielo stesse spezzando, per poi spostarsi dietro il ginocchio.
Stava succedendo qualcosa. Stava succedendo qualcosa ad Oikawa.
Hajime non sapeva di che cosa occuparsi prima, se della sua malattia che non la smetteva di farlo tossire, o di quello che stava succedendo su Sibun.
E all'improvviso, si rese conto che loro, lui e Oikawa, stavano lottando contro il tempo.
Era un conto alla rovescia. E stava per scadere.

 




Atto secondo
 




Un paio d’ore dopo…






Strinse il palmo a pugno, sentendo le dita viscide per via del sangue. Le unghia si conficcarono nella carne, i denti mordevano il labbro inferiore. Si sentiva debole, e non solo fisicamente parlando. Era lì, rannicchiato contro i cassetti della cucina, e non poteva fare niente.
Non poteva fare niente per salvare Hanamaki e Matsukawa.
Non poteva fare niente per salvare Iwa-chan.
Provò ad addormentarsi, nel disperato tentativo di avvertirlo, ma non riusciva a prendere sonno, era troppo agitato. Poteva tentare di manomettere i comandi per far apparire la porta, ma a parte le posate, non aveva alcuno strumento utile per aprire il quadro di comando.
Nascose il viso tra le ginocchia, reprimendo un singhiozzo.
Iwa-chan stava sempre peggio, lo poteva sentire ogni volta che respirava. E la sola idea che sarebbe rimasto rinchiuso dentro la sua stessa casa, sentendo piano piano la sua vita che si spegneva, gli dava i brividi. Gli aveva promesso che sarebbe rimasto vivo… ma Oikawa avrebbe fatto di tutto per aiutarlo a mantenere la promessa?
Strofinò la fronte contro il tessuto della tuta, lasciandosi andare un respiro strozzato. «Hajime…» mormorò, biascicando, e i gli occhi verdi del ragazzo gli apparvero davanti, assieme al suo lieve sorriso. Oikawa non riuscì a trattenere le lacrime. «Perdonami…»
E all’improvviso, sentì il classico rumore della porta che appariva sulla parete. Alzò la testa di scatto, e per un attimo credeva di avere le visioni: la porta era lì. Si alzò in piedi, con l’intento di aprirla, quando sentì dei rumori bassi e pesanti che provenivano dal corridoio. Erano passi.
Aprì il cassetto alle sue spalle, rovistando tra le posate, e le sue dita sfiorarono la lama di un coltello. Non era troppo tagliente, ma era quasi certo che sarebbe riuscito a ferire Rokuro con quello. Solo che, ad aprire la porta, non fu l’uomo in questione…
«Cazzo, Hoshi!» disse Tooru, gettando via il coltello che teneva in mano.
La ragazza lo guardò per qualche istante, gli occhi lucidi, prima di dirigersi verso di lui per abbracciarlo. Strinse forte la presa. «Stai bene…?»
Non rispose. «Cosa ci fai qui? Non dovresti essere con…» Stava per dire “papà”, ma si morse la lingua subito dopo, frustato.
La sorella gli spostò un ciuffo dall’occhio, per poi fargli l’occhiolino. «Gli ho detto che ho dimenticato il Documento di Identificazione in ufficio, senza quello non mi fanno entrare alla Piramide!»
«E come diavolo hai fatto a entrare?» Credeva che Rokuro avesse bloccato tutte le porte, solo lui poteva disattivarle.
«Ho manomesso Asimo» Oikawa sgranò lo sguardo. «Ero piccola, ma ricordo di averlo visto fare a tuo padre una volta… Diceva che sembrava perfetto, ma che invece anche la miglior macchina ha le sue piccole falle…»
Le braccia del giovane erano lungo i fianchi, e non sapeva come reagire a quell’affermazione. Lui non l’aveva conosciuto, sua madre sembrava averlo dimenticato, e Rokuro si era rivelato un essere infimo e crudele.
L’unica che ancora lo ricordava era proprio Hoshi.
«Lui è sempre stato gentile con me…» disse, flebilmente. «Non ero sua figlia, eppure mi ha sempre trattato meglio di come facesse mio padre…»
Fece un piccolo sorriso, prendendo poi il viso del pilota tra le mani. «Ascoltami, non me ne frega un cazzo di quello che ha detto mio padre… E non m’interessa se la gente ti prenderà per pazzo, io sono pur sempre tua sorella e ti credo!»
Hoshi non era realmente sua sorella, non condividevano per niente lo stesso sangue. Avrebbe potuto infischiarsene di lui, e invece era lì, voleva lasciarsi coinvolgere, pur sapendo quali fossero le conseguenze.
Gli abitanti di Sibun hanno sempre pensato che è logico essere più legato ad una persona della propria famiglia, con il proprio stesso sangue. Quella volta, però, Hoshi si disse che non c’era nulla di sbagliato in quello che stava facendo.
Aveva scelto Oikawa. E per lei rimaneva sempre il fratellino che aveva visto crescere.
Lo stesso che aveva abbracciato di nuovo e che, adesso, stava piangendo contro la sua spalla.






Hoshi aveva uno scooter, in garage. Non lo usava da quando aveva sedici anni e una volta aveva rischiato di avere un brutto incidente, ma ricordava ancora come funzionasse. Riuscì a metterlo in moto, Oikawa seduto dietro di lei, e sorvolarono la città a tutta velocità, sospesi nel vuoto. Il castano tenne lo sguardo fisso sulla Piramide più grande, la sede del Consiglio. Era lì che si sarebbe tenuto il processo. Fortunatamente, l’intera popolazione era andata ad assistere e nessuno si accorse di loro.
«Quanto manca?» chiese, urlando per sovrastare il vento.
«È cominciato da quindici minuti!»
Erano ancora parecchio distanti, ma Oikawa poté accorgersi degli uomini posti davanti all’entrata, armati. Di solito, il plotone veniva posto all’interno, e solo qualche uomo si trovava a controllare la situazione all’esterno, poiché tutta la popolazione si trovava dentro. Probabilmente, quegli uomini erano stati piazzati lì sotto le direttive di suo padre.
«Come facciamo a evitarli?»
«Se tu ti tieni forte – e nel dirlo, aumentò la velocità al massimo –, lo capirai!»
Il ragazzo spostò lo sguardo dal manubrio dello scooter, alla sorella, all’entrata della Piramide; capì quali fossero le sue intenzioni quando si trovava a venti metri dalla porta a vetri, per fortuna spalancata.
«No no no!» disse, mettendosi in piedi e tenendosi alla sorella. Era abituato ad urti peggiori, ma di solito non c’erano dei soldati armati pronti a fare fuoco. Di certo, neanche loro si aspettavano di vedere uno scooter fiondarsi direttamente dentro l’edificio.
Rotolarono per terra, il marchingegno che era finito contro la statua in bronzo che rappresentava le fattezze di Sibun, distruggendosi. Oikawa si massaggiò il gomito, e per un attimo ci vide doppio. Quasi sicuramente, Hajime si stava chiedendo che cosa diavolo stesse facendo per essere maltrattato in questo modo. Tossì, con l’impulso di scacciare via la polvere che si era sollevata da terra. Come al solito, sputò sangue.
Cercò di non pensarci, per adesso, sua sorella che si era posta di fronte a lui e lo stava guardando, mentre i soldati puntavano le armi contro di loro. «Faccia a terra! Ora!»
«Ce la fai…?» chiese la ragazza sottovoce.
«Lo sai che ho la pellaccia dura.»
«Bene, perché ti chiedo di darmi una mano» Gli passò una pistola laser, di quelle usate per tramortire, non per uccidere. «So che non ti piace sparare, ma…»
«Ho detto faccia a terra!»
A Oikawa era già capitato di tenere un’arma come quella in mano: aveva quattordici anni, un momento cruciale per i giovani di Sibun, perché è in quel momento che loro decidono che cosa faranno nel loro futuro. Ovviamente, Rokuro voleva che lui seguisse le sue orme, e per farlo avrebbe dovuto imparare a difendersi. Aveva scelto di seguire un’altra strada rispetto a quella di Ricercatore, ma quei pomeriggi passati ad allenarsi a sparare gli tornavano utili, adesso.
Sparò un colpo verso l’uomo che si stava avvicinando a loro, un raggio blu che lo colpì, trapassandolo tutto e facendolo cadere riverso a terra. Fece lo stesso con un altro paio di uomini che si trovavano nel suo campo visivo, schivando i colpi con una precisione magistrale, la stessa che metteva quando faceva curvare la sua navicella. Era uno scontro ad armi pari, sebbene quelli avessero dalla loro la superiorità numerica. La strategia militare, però, insegna che è la tecnica quella che conta.
«Oikawa, vai!» gli disse Hoshi, dopo che si erano nascosti dietro la statua. Erano rimasti gli ultimi tre uomini, e Hoshi aveva persino guadagnato una pistola in più. «Qua ci penso io!»
Era la cosa più assurda che avesse mai vissuto nella sua vita, in confronto correre su pista era una bazzecola. Osservò la sorella, i capelli castani come i suoi scompigliati, la coda mezza storta e il viso rosso. Aveva il fiatone.
Dovevano avere qualche buona stella che li proteggeva, non c’era altra spiegazione. Annuì, aspettando un attimo prima di uscire allo scoperto. Ebbe solo il tempo di prendere il fucile di un uomo riverso per terra, saldato per bene alla schiena, prima di sparire alla vista degli altri soldati, troppo concentrati ad occuparsi di Hoshi. Aveva quasi rischiato che un colpo lo prendesse alla tempia.
Corse per i corridoi piccoli e angusti, e gli mancava quasi il respiro, le fibre muscolari tiravano, le gambe si muovevano quasi per inerzia, ma lui sentiva dolore ugualmente. Guardò appena il fucile che teneva in mano: ecco, quello serviva seriamente a uccidere. Sperò che non decidessero di usarlo sulla sorella.
Gli ci volle una vita prima di trovare la Sala delle Riunioni.
Aprì l’enorme portone con una spinta, e neanche si era reso conto di aver cominciato a urlare. «Fermi!»
L’aria sembrò rarefarsi all’improvviso, tutta la popolazione di Sibun era in piedi e lo stavano fissando. Doveva avere l’aspetto di un carcerato appena fuggito di galera, perché avevano tutti quanti delle espressioni di puro orrore nei loro volti. Persino i suoi compagni lo stavano guardando come se fosse impazzito del tutto – e forse un po’ lo era. Issei e Takahiro, invece, sembravano più stupiti di vederlo lì che di altro.
Avvertì il rumore di una pistola alla sua destra, e Oikawa si girò di scatto, il fucile già puntato su un paio di soldati, rendendosi conto di essere circondato. Spostò lo sguardo dall’arma, ai volti delle guardie, alla platea, rendendosi conto che sì, in quelle condizioni sembrava davvero un malato mentale.
«Non voglio farvi del male!» disse, lasciando poi il fucile. «Voglio solo che fermiate il processo!»
«Oikawa Tooru, l’è forse andato di volta il cervello?» Il Presidente, un uomo anziano e smilzo, si alzò in piedi, spostando poi lo sguardo su Rokuro, alla sua destra. Lo stava fulminando con lo sguardo.
Il castano si accorse anche della presenza di Tobio tra i giudici, ma del resto era uno dei privilegi che veniva riservato a chi diventava campione, la possibilità di presiedere nel Consiglio almeno per un anno.
«Il taccuino che è stato trovato è di mia proprietà. Ho scritto io quelle cose.»
Diverse esclamazioni di stupore si levarono per l’intera stanza circolare, alcuni bisbigliarono, altri non riuscirono a proferire parola.
«Che storia è mai questa?» A parlare fu il proprietario della scuderia Shitorizawa, Washijo Tanji, anche lui membro del consiglio. «Rokuro, ci vuoi spiegare?»
«Non so di cosa stia parlando…» rispose l’uomo, e Oikawa gli lanciò uno sguardo di fuoco.
In realtà, non era certo che bastasse un’entrata in scena efficace per convincere la gente a credergli. Probabilmente, aveva lavorato troppo con la fantasia, ma non era questo il punto. Doveva trovare un modo, veloce e istantaneo, per far sì che scagionassero Makki e Mattsun e che gli permettesse di raggiungere la Terra il più velocemente possibile. Il viaggio sarebbe stato comunque lungo, ma non poteva stare ancora a oziare.
Sbatté gli occhi quando si rese conto che dietro il Consiglio – che era seduto a un tavolo di marmo – era apparso un enorme schermo. In casi come quelli, cioè durante un processo, veniva usato per mostrare le prove schiaccianti che incriminavano l’accusato; forse l’avrebbero usato dopo per dimostrare la colpevolezza dei due ragazzi, ma non era per quello che era stato azionato.
Qualcuno aveva mandato in onda il video che riprendeva lui e Rokuro mentre discutevano. Asimo, del resto, aveva delle telecamere ovunque, in casa.
Oikawa trattenne il fiato, mentre accanto a sé si palesò sua sorella, e teneva per il collo un soldato, probabilmente colui che l’aveva aiutata a mettere in moto lo schermo e il video. Si rese conto che anche gli altri avevano smesso di respirare, chi per incredulità, chi per paura. E questo, valeva sicuramente per i membri del Consiglio.
Quando il video finì, Hoshi non poté mancare dal rivolgersi a Rokuro con un: «Game over, papà!»
Adesso, c’era il mutismo più totale – tranne forse per un commento detto da Satori Tendo: “Ma tu guarda la sorella di Oikawa!”
Quei milioni di occhi che aveva puntati addosso, adesso erano tutti rivolti verso gli uomini del Consiglio; e soprattutto, verso Rokuro. Gli stessi soldati non fecero niente, anche loro troppo provati, mentre i due fratelli scendevano le scale, dirigendosi verso i due giovani seduti davanti al banco degli imputati, i polsi e le caviglie incatenate con manette fluorescenti. Mandavano delle scariche elettriche ogni volta che il detenuto si ribellasse.
«Mi dispiace tanto, ragazzi…» sussurrò loro, ma quelli lo rassicurarono dicendo che non aveva alcuna importanza.
Solo allora, sentirono la risata sprezzante di Rokuro, e Oikawa alzò lentamente lo sguardo verso di lui. «Non vorrete seriamente credere a quel video, vero?» disse, indicando poi il giovane pilota. «È chiaro che abbia utilizzato un trucco per sabotarmi!»
«Bugiardo!» urlò.
«Lui mi odia.» Si alzò in piedi e fece in modo che la sua voce sovrastasse quella dell’altro. «Io l’ho cresciuto, ed è questa la gratitudine che mostra!»
Rokuro era bravo con le parole, era bravo a impietosire la gente. Forse la gente stava cominciando a credere a quello che aveva visto, ma l’espressione da uomo sconfitto e deluso vinceva su tutto. Oikawa non poteva permettersi di perdere contro di lui. Ne valeva la vita di Iwa-chan.
«Io credo a Oikawa-san»
Per un attimo, credette che a parlare fosse stata sua sorella, o i suoi due amici lì accanto, ma no, la voce proveniva da dietro. Ci mise un po’ per rendersi conto di chi si fosse appena alzato, quella zazzera assurda e di colore arancione che spiccava come non mai alla luce artificiale. Quel piccoletto tutto matto lo stava guardando negli occhi e gli sorrideva, e Oikawa non riusciva proprio a ricambiare, profondamente turbato. Sapeva che Hinata Shoyo credeva alla sua storia e a quella di Ukai-san, ma non avrebbe mai pensato che potesse dirlo davanti a tutta la popolazione di Sibun. I suoi compagni lo stavano guardando come se avesse appena confessato un omicidio.
Una seconda voce, questa volta proveniente dal gruppo del Consiglio, si levò alta in quella stanza, e Oikawa fu più sconvolto di prima: Kageyama si era alzato in piedi. «Anch’io gli credo.»
Fissò gli occhi blu del suo kohai e rivale, incapace di fare alcunché.
Bastò il gesto del Campione per far traboccare il vaso: i primi ad alzarsi, furono i membri dell’Aoba Johsai e della Karasuno, ma in un attimo, si alzarono anche tutti i restanti membri delle altre scuderie. Erano tantissimi.
Oikawa si ritrovò a boccheggiare. Non era affatto quello che si aspettava.
«Questo è oltraggioso!» urlò il Presidente, sbattendo poi una mano sul ripiano.
«Perché non glielo lasciate dimostrare?» parlò Ukai senior, e tutti si voltarono a guardarlo. «Se siete così sicuri che stia sbagliando, perché non lo fate andare sulla Terra per fargli vedere quanto, in realtà, abbiate ragione?»
I membri del Consiglio erano con le spalle al muro. La gente li stava fissando con diffidenza, anche chi non si era alzato in piedi, ancora titubante. Perché di certo, quegli uomini avevano senz’altro qualcosa da nascondere.
Il Presidente digrignò i denti. «E sia – s’interruppe un attimo –, ma non sarà Oikawa Tooru a partire.»
Il castano credette di aver sentito male.
No. Doveva essere lui a partire. Iwa-chan lo stava aspettando.
«Sei entrato qui dentro minacciando alcuni dei miei uomini. E francamente, sono quasi sicuro di sapere come sei entrato qui…» L’uomo fece un mezzo ghigno. «Di conseguenza, devi essere tenuto sotto osservazione. A partire al tuo posto saranno… Hinata Shoyo e Kageyama Tobio, visto che ti hanno sostenuto così tanto!»
I due ragazzi si irrigidirono, e lo stesso valse per Oikawa.
«Se muore il nostro campione in missione, ne subirai direttamente le conseguenze. Queste sono le condizioni, accetti?»
Oikawa non avrebbe voluto fare un patto di quel tipo con un uomo del genere, ma non aveva altra scelta. Le lancette del tempo ticchettavano incessantemente.
Lanciò un ultima occhiata a Kageyama, prima di affermare un: «Accetto!»





Domande? 
Perché questo prompt? Lo dico anche nella storia, il conto alla rovescia sta quasi per scadere, e sia Oikawa sia Iwaizumi stanno correndo contro il tempo; specialmente Oikawa, in questo caso, ma più avanti la situazione si farà interessante… ;)
Che cosa intendeva dire Mattsun? Faccio un piccolo riferimento all’isteria. Un tempo, si pensava che fosse una malattia tipica delle donne e che avesse a che fare con la loro indole passionale. Ovviamente, non è così, ma i casi con donne isteriche furono parecchie, e volevo fare lo stesso per la Sindrome, sono più le donne che gli uomini ad averla. Per quanto riguarda il passato oscuro del ragazzo… beh, il mio headcanon è che la zia sia stata eliminata da un suo familiare per non fare sapere in giro che avesse la malattia;
Oikawa sa disegnare? So che può stupirvi, ma mi piace l’idea di un Oikawa che abbia una vena artistico/musicale <3 
Non ci sono domande sulla parte NSFW… Ottimo, perché fa profondamente pena…
Cosa significa la questione di Rokuro? Spero si sia capito, ma Rokuro e il padre di Oikawa erano stati Ricercatori. Il padre del ragazzo, però, è morto in missione, e Rokuro ha ben deciso di sposare la madre di Oikawa quando lui era ancora piccolo. In realtà, nel mio scenario doveva essere il padre biologico, poi mi sono detta che sarebbe stato meglio far apparire il padre di Oikawa come una brava persona. E insomma, diamogliela una gioia! uu
Potresti rispiegare i rapporti che ci sono tra la Terra e Sibun? Allora, in pratica Sibun e la Terra sono nate all’incirca nello stesso periodo, solo che la popolazione del primo pianeta era molto più sviluppata a livello intellettivo. Gli abitanti avevano questa capacità di vedere la gente che chiedeva aiuto nei sogni, e in casi estremi sentivano persino il loro dolore. Prima la cosa era accentuata, adesso si è ridotta a una singola persona perché questa abilità è quasi scomparsa. Quando arrivano sulla Terra, siamo nel periodo dei Babilonesi circa, e anche se gli abitanti di Sibun torneranno sul loro pianeta, i terresti continueranno a chiamarli. Le Piramidi erano un indizio, perché sono stati loro ad aiutarli a costruirle (e questa idea deriva dalla teoria secondo cui le piramidi le abbiano costruite gli alieni…). Siccome, come ben sapete, l’uomo non ha mai finito di chiedere aiuto alle divinità – anche se loro non li consideravano divinità, solo un popolo venuto da lontano – allora gli abitanti di Sibun hanno deciso di stabilirsi sulla Terra per aiutarli. Finché non siamo arrivati alla Seconda Guerra Mondiale. Vi ricordate che nel precedente capitolo ho detto che su Sibun stranamente si parla il giapponese? Perché molti di loro erano stanziati lì quando le bombe nucleari sono state gettate su Hiroshima e Nagasaki. Alcuni Sibuiani (?) sono rimasti, ma continuavano a indurre i loro simili a tornare, disegnando dei simboli sul grano: da qui, i Cerchi nel Grano.
Che cosa è la Lingua Muta? Il nostro linguaggio dei segni. Nel mio immaginario, la gente di Sibun comunicava tra di loro in questa maniera. L’uomo gli ha insegnato a trasformare i suoni in parola, e loro a utilizzare dei simboli per scrivere. Sì, lo so, prima viene la parola e poi la scrittura, ma in questo caso per i Sibuinani era quello il loro linguaggio, comunicavano così. E loro mettevano per iscritto con dei simboli quello che minavano.
Ma lo scooter è volante? Sì, ragazzi, sì :’)
Qualche riferimento? K-2SO è il robot presente nello spin-off di Star Wars, Rogue One. Dovevo citarlo <3
Piccola curiosità: si è appena scoperto che tutto quello che si diceva su Trappist-1 è falso, di conseguenza metà della mia fic finisce dentro il gabinetto :’) Ma dopo l’iniziale depressione (qui per ulteriori informazioni), ho deciso di fregarmene e di continuare a scrivere. Vi avviso che il prossimo capitolo sarà l’ultimo ;)
Grazie a tutti quelli che stanno sostenendo questa storia, siete meravigliosi *w*
Vi abbraccio <3 
_Lady di inchiostro_
  
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