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Autore: Milla Chan    08/09/2017    3 recensioni
Aveva maturato uno strano sentimento nei confronti degli umani. Non c’era più paura, ma non c’era nessuna rabbia, solo un misto di disgusto e indifferenza. Quella situazione, però, non gli pesava quanto i suoi genitori pensavano che avrebbe dovuto; o almeno così sembrava. Kenma passava gran parte delle sue giornate a giocare ai videogiochi, e quando sua madre gli chiedeva se avesse qualcosa da raccontarle, passandogli la mano tra i capelli scuri, lui la guardava con una sorta di senso di colpa negli occhi.
[KuroKen + altre coppie secondarie] [Tokyo Ghoul!AU, ma non è necessario seguire l'opera]
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Koutaro Bokuto, Kozune Kenma, Tetsurou Kuroo, Tooru Oikawa, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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I would but find what's there to find, love or deceit
 
Tooru tagliava gli steli dei narcisi autunnali e canticchiava a bocca chiusa. Iwaizumi era seduto a qualche metro da lui, il gomito sul bancone di marmo e la mano chiusa a pugno a sorreggergli la guancia.
L’inverno era alle porte. Era una giornata tranquilla ed entrambi erano rilassati, in quel freddo pomeriggio di dicembre.
Hajime lo guardava e aspettava che finisse, perché subito dopo l’avrebbe trascinato sul divano e si sarebbero avvolti entrambi in una coperta. Sapeva già cosa sarebbe successo: Tooru si sarebbe lamentato di avere i piedi scoperti, Hajime si sarebbe rifiutato di cedergli anche solo un centimetro in più di coperta, e Tooru avrebbe cominciato a lagnarsi ad alta voce strusciando la testa contro la sua spalla e punendolo appoggiandogli i piedi gelidi sulle gambe. In un certo senso, Hajime non vedeva l’ora. Gli piaceva passare insieme a lui momenti del genere, in cui si godeva la bellezza della quotidianità, dello stare al caldo con l’unica persona capace di farlo parlare per ore senza che se ne accorgesse e con la quale stare in silenzio non provocava alcun tipo di imbarazzo.
Inspirò e assottigliò lo sguardo: in quel momento avrebbe voluto dire a Tooru di smetterla di fare quella faccia scema, ma non ne aveva il coraggio, perché in realtà gli piaceva. I suoi occhi marroni brillavano di riguardo per quei fiori pallidi, le dita si muovevano attente e placide. Hajime si chiese con imbarazzo quale fosse stato il punto esatto della sua esistenza in cui aveva iniziato a guardarlo con quel filtro così sdolcinatamente romantico, quando i suoi pensieri avessero iniziato a farsi melensi e, forse, a volte, sconvenienti.

-Mi passeresti il telefono?- gli chiese Oikawa, un attimo prima di posare le cesoie e pulirsi la mano sul grembiule.
L’altro ragazzo si riscosse, fece scivolare il cellulare sul marmo e Oikawa lo afferrò al volo. Iwaizumi tornò a fissare il negozio davanti a sé, una mano davanti alla bocca.
I colori dei preziosi fiori che sbocciavano col freddo erano tenui e le foglie che scendevano dai vasi appesi al soffitto ricordavano le farfalle che si intrufolavano nel negozio di primavera.
Iwaizumi non si era mai interessato ai fiori prima dell’incontro con Oikawa e non gli era mai capitato di ritrovarsi ad ammirarne la bellezza. Dopo così tanti anni in quell’ambiente, però, ci si era affezionato, aveva imparato tante cose: quando fioriva una certa pianta, come trattarla per farla crescere bene, e Oikawa diceva che era divertente vedere un bruto come lui maneggiare con tanta cura creature delicate come i fiori.
Tooru invece, lui no, lui era fatto di fiori, di gigli candidi, di petali morbidi, e si muoveva come loro, eleganti nella brezza, senza piegarsi mai.
Iwaizumi, però, si era ritrovato a provare una tenerezza particolare nei confronti dei fiori più piccoli, soprattutto di quelli rossi. Amava specialmente le kalanchoe, in tutta la loro semplicità, e ne aveva un piccolo vaso in camera, sul davanzale della finestra. Gli trasmetteva una sensazione piacevole vedere qualcosa di così piccolo brillare di rosso fuoco, bruciare in quel colore intenso e vibrante, come se il fiore, dischiudendo i petali, sfidasse la natura con tutta la sua forza.
-Nekomata-san, riguardo a quel favore, è tutto a posto, vero?-
La voce di Oikawa al telefono lo distrasse nuovamente dai suoi pensieri e si girò a guardarlo con un cipiglio.
-Sì, ero sicuro che non ci sarebbero stati problemi a mandare qualche ragazzo.-
Pronunciò quella frase con un’intonazione melliflua e inquietante sotto gli occhi confusi di Iwaizumi.
Non capitava praticamente mai che Oikawa lo tenesse all’oscuro di qualcosa. Hajime non sopportava quella sensazione di non sapere cosa stesse succedendo.
Le richieste di Oikawa assomigliavano più a degli ordini: erano tutti favori restituiti, contattava persone che sapeva non essere nella posizione di poter dire di no, per un motivo o per l’altro. Iniziava a tirare i fili dell’intricata rete che aveva creato con tanta pazienza e zelo, e tutto si muoveva alla perfezione.
Hajime guardò intensamente il ragazzo dai capelli castani, che ora sorrideva con gli occhi socchiusi, il cellulare premuto tra l’orecchio e la spalla mentre continuava ad accorciare gli steli dei narcisi. Non rispose al suo sguardo e quel particolare gli diede un gran fastidio.
-Sì, stazione di Yushima, ricorda bene. Sì, magari anche un po’ prima? Il sole tramonta presto ormai! Ecco, perfetto.- ridacchiò limpido e rassicurante, agitando le cesoie per aria come per scacciare un insetto. -Mi raccomando, che non entri nessuna colomba: solo questo, davvero.-
Stette in silenzio per qualche secondo, ascoltando l’interlocutore, per poi alzare gli occhi al cielo e assumere un’espressione scocciata. -Sì, lo chiami “fare il palo”, lo chiami come vuole. Certo! Grazie mille.-
Iwaizumi guardò la sua mano mentre prendeva il telefono e schiacciava la cornetta rossa.
-Hai bisogno anche di me?- chiese Hajime con una nota amara, pur non sapendo di cosa stesse parlando.
Oikawa appoggiò sul marmo, accanto agli altri, il fiore che aveva in mano.
-Ma io ho sempre bisogno di te, Iwa-chan.- disse con leggerezza, slegandosi il grembiule dietro la schiena e scostando la tenda per entrare nel retro del negozio.
Hajime fece una smorfia e lo seguì, infastidito. -Cosa devi fare?-
Oikawa si arrestò. Si tolse il grembiule, lo appese e si voltò verso l’altro ragazzo con un sospiro paziente. Appoggiò le mani sulle sue braccia e gli lasciò un veloce bacio sulla fronte. Iwaizumi era più basso di lui ci circa cinque centimetri, e spesso Oikawa lo prendeva amorevolmente in giro per questo, ma i suoi muscoli erano decisamente più definiti e non si lasciava mai sfuggire l’occasione di toccarli con un sorriso allusivo, sordo alle proteste di Iwaizumi.
-Grazie per quello che hai fatto in questi mesi con Tobio.- si limitò a dirgli, la voce stranamente profonda, mentre un brivido percorreva la spina dorsale di Hajime. -Ma ora ci penso io.-
Iwaizumi strizzò gli occhi quando ricevette quel debole buffetto sulla guancia, ma non riuscì a compiere nessun altro movimento. Guardò Tooru che si allontanava e saliva le scale per andare, forse, in camera sua, o in bagno a lavarsi.
Hajime non ci mise molto a capire. Non avrebbe dovuto stupirsi.
Tobio doveva morire.
Lo sapeva da tempo, era chiaro. Eppure un bruciore insopportabile e per nulla piacevole gli si diffuse nel petto e gli rese difficile respirare per qualche secondo.
Doveva cercare di essere razionale. Era stato come affezionarsi ad un animale da macello: era lui ad essere stato stupido. Con quel “ci penso io”, Tooru gli aveva chiaramente detto di starne fuori, perché era qualcosa che doveva fare da solo, per una questione di principio, di vendetta personale.
Sperò che quel nodo alla gola gli si sciogliesse presto, ma sapeva che era una speranza vana.

Akaashi camminava lungo uno dei corridoi della sede principale della CCG e si assicurò che nessuno gli stesse prestando troppa attenzione. Aveva sceso le scale con aria indifferente, aveva risposto a un paio di sorrisi delle persone che lavoravano lì e che ormai lo conoscevano, per poi indossare il suo cappotto di feltro nero.
Su quello stesso piano si trovavano diversi laboratori per la produzione e la sperimentazione delle quinque. Akaashi non sapeva esattamente nei dettagli come funzionassero, sapeva solo che era necessario il kakuhou di un ghoul e che il tipo di cellule Rc più indicato era quello che produceva un kagune bikaku, in quanto era il più equilibrato per quanto riguardava attacco e difesa.
Entrò in uno dei laboratori vuoti dopo essersi guardato attorno di sfuggita. Camminò di soppiatto tra i tavoli e si avvicinò ad una pistola posata su una di quelle superfici lucide.
La maggior parte dei ragazzi che iniziavano a frequentare l’Accademia rimanevano molto delusi nello scoprire che solo gli investigatori dei ranghi più alti potevano possedere delle quinque. Agli Investigatori di Dipartimento, invece delle quinque, venivano fornite pistole con proiettili speciali, proiettili Q. Erano decisamente meno validi di una quinque, ma comunque in grado di ferire i ghoul, dal momento che qualsiasi altra arma -da fuoco o da taglio che fosse- risultava pressoché inefficace, viste le loro capacità di rigenerazione.
Si guardò alle spalle e prese la pistola e un paio di manciate di proiettili Q, mettendoli nella tracolla e chiudendola in tutta fretta, per poi uscire come se nulla fosse successo e con il cuore in gola.

Era quasi metà dicembre. Erano stati i mesi più intensi della sua vita: gli esperimenti su Bokuto erano continuati senza sosta, ma non stavano dando gli esiti sperati e gran parte degli scienziati e degli investigatori non era di buon umore. Akaashi non condivideva la loro politica, era fortemente scettico e non credeva che insistere avrebbe portato a dei risultati rilevanti. Dosi più potenti, elettroshock più potente, aumentare il limite, ogni volta un po’ di più: probabilmente non era così che avrebbero trovato risposte, ma era così che stavano lavorando.
Aveva pensato di abbandonare quel progetto perché non era più in grado di sopportare il sangue che usciva dalla bocca di Bokuto, o le sue mani che tremavano incontrollabilmente, e le sue lacrime, soprattutto, perché quelle sembravano non avere davvero mai fine.
Andava spesso nella Stanza 3 per parlargli. A volte era impossibile avere una conversazione con lui, altre volte invece gli parlava quasi con tranquillità per qualche minuto, prima che Bokuto iniziasse ad essere nervoso e a dire cose totalmente casuali, di cui Akaashi non riusciva a capire il filo logico. Ogni volta, però, ad Akaashi sembrava di capirlo sempre un po’ di più, e il suo grande e tremante sorriso, così sincero, gli faceva pensare che non fosse affatto tempo sprecato.
C’erano stati momenti orribili. Momenti in cui Bokuto non voleva più rivolgergli la parola: dopotutto, Akaashi era uno di loro. Era con loro, quando gli facevano del male. Era in combutta con loro, non è vero? Faceva il loro gioco. Non li fermava- non poteva! Così gli aveva risposto Akaashi, cercando disperatamente di fargli capire che non era come credeva lui, che voleva aiutarlo in ogni modo gli fosse possibile. Nonostante gli sforzi per fargli capire la sua posizione, Akaashi non poteva tuttavia biasimarlo. Era più che comprensibile che la pensasse così.
Forse diventare un investigatore non era la sua strada. Aveva pensato a lungo sul da farsi, e la conclusione a cui era giunto risultava, ad un primo impatto, folle e illogica. Akaashi, però, non era una persona incosciente: non era il capriccio di un bambino, il suo, e ciò che lo avrebbe spinto a fare quello che doveva fare aveva più valore di qualsiasi risposta razionale.
 
Scese un’altra rampa di scale e saltò gli ultimi due gradini. Camminò nei corridoi fino a spalancare le porte della Stanza 3.
Bokuto si voltò con uno scatto e lo guardò sorpreso. Aprì la bocca per dire il suo nome ma si bloccò quando vide la pistola nella sua mano.
Akaashi non lo degnò di uno sguardo. Aggiustò il silenziatore, mirò ad una delle quattro telecamere e sparò con una freddezza tale da lasciare Bokuto a bocca aperta, smarrito e spaventato mentre qualche scintilla cadeva dal soffitto. Seguirono altri tre spari, uno ad ogni telecamera. Dopo l’ultimo sparo, Akaashi si accorse che le mani gli tremavano.
Prese un respiro veloce e frugò nella tracolla, estraendone qualche chiave e iniziando a trafficare con uno dei macchinari attaccati alla parete della stanza, infilandole e girandole una ad una.
-Akaashi?- gridò Bokuto, più di una volta, confuso e bisognoso di attenzioni e spiegazioni.
Akaashi inizialmente lo ignorò, poi si girò verso di lui con un gesto improvviso e, spazientito, si appoggiò alla gabbia con entrambe le mani.
-Cosa vuoi fare una volta uscito di qui?- gli chiese Akaashi con la voce bassa, guardandolo dritto in faccia.
Bokuto ricambiò lo sguardo, immobile per qualche secondo, finché il suo cervello non capì cosa stesse facendo. I suoi occhi si fecero grandi e lucidi e il suo volto si accartocciò come un foglio di carta.
-Io voglio solo… trovare il mio amico.- gemette affranto.
Akaashi strinse le labbra e si voltò nuovamente, continuando a maneggiare con impazienza tra pulsanti, password e chiavi. Era stata dura recuperarle tutte, soprattutto perché aveva dovuto farlo il giorno stesso per far sì che i proprietari se ne accorgessero il più tardi possibile. Non gli sembrava vero di avercela fatta.
-Preparati a correre.- lo avvisò con un debole sorriso quando sentì un breve segnale sonoro provenire dal collare di Bokuto. Un paio di luci gialle diventarono verdi e, non appena la gabbia iniziò ad alzarsi, una sensazione di sollievo gli pervase il petto.
Deglutì quando vide Bokuto davanti a sé, senza alcuna barriera a dividerli, ma non era quello il momento di avere paura, o sensi di colpa. Si avvicinò con passi sicuri e afferrò saldamente il suo collare, ormai disattivato, tra i versi spauriti e emozionati del ghoul. Riuscì a toglierglielo dopo qualche imprecazione. Lo lanciò a terra, strinse il polso di Bokuto e si diresse a passo affrettato verso la porta, senza dire altro.
Akaashi mise un piede fuori dalla porta e subito alcuni uomini in fondo al corridoio gli intimarono di fermarsi immediatamente. Non poteva essere altrimenti.
Svoltò senza esitare nel corridoio laterale opposto e iniziò a correre, trascinandosi dietro un Bokuto assolutamente incredulo, tra lo spaventato e il confuso.
Aveva passato sei mesi a guardarlo da oltre la griglia di quella gabbia e, in quel momento, toccarlo davvero gli trasmetteva una strana sensazione: la sua pelle era un po’ ruvida, sentiva chiaramente l’osso del polso sotto le sue dita e più di una volta si voltò a guardarlo e a guardare quell’espressione persa, forse sull’orlo delle lacrime, dalla cui bocca continuava a uscire il suo nome, pronunciato con inclinazioni diverse.
Spalancò una delle porte alla sua sinistra e mezza dozzina di persone in camice bianco si voltarono a guardarlo prima di capire la situazione e iniziare ad urlare frasi sconnesse riguardanti l’esemplare  150410.
Akaashi sapeva di dover passare da lì. Lo sapeva perché dall’altra parte della stanza c’era un’altra porta che dava sul corridoio parallelo ed era la via più veloce per arrivare alle scale. Ma quando vide alcuni investigatori scagliarsi verso di loro, serrò immediatamente la porta. Avrebbero fatto il giro lungo.

Bokuto si sentiva come se un orologio che era stato fermo per anni fosse tornato a funzionare. Il tempo scorreva, lo spazio mutava e le sue gambe si muovevano, anche se le sentiva un po’ intorpidite, ma il cuore batteva così veloce che pensava che non avrebbe mai più voluto smettere di correre.
Quel posto era un labirinto. Non sapeva come Akaashi facesse ad orientarsi, a svoltare in maniera così decisa, a ricalcolare il percorso ogni volta che qualcuno tentava di bloccare loro la strada.
Stavano ancora correndo verso le scale quando una delle porte laterali si aprì. Uscì un uomo e sbatté contro Akaashi, che finì col rotolare per terra.
La prima espressione che assunse quell’uomo fu di sincera confusione. Poi, in una frazione di secondo, sul suo volto calò il terrore.
Akaashi trattenne il respiro e si sollevò sulle braccia. Era l’investigatore a cui era stato affidato. Faceva parte dell’équipe.
Akaahi guardò Bokuto, davanti a sé.
-Bokuto, no.- mormorò vedendo i suoi occhi farsi grandi e tingersi di rosso e nero. Ma sarebbe stato come tentare di tenere a bada un animale selvatico.
Bokuto riconobbe quell’uomo: c’era sempre, durante gli esperimenti. Associò istantaneamente quel volto a siringhe e iniezioni, e un fischio acuto iniziò a perforargli le orecchie, tanto che dovette strizzare gli occhi per evitare che la testa gli esplodesse.
-Bokuto!- lo richiamò Akaashi, ascoltando con attenzione e paura uno scricchiolio inquietante provenire dalla schiena del ghoul.
Vide la kagune crescere oltre le sue spalle come i rami di un albero. Sembravano ali, ali coperte di piume di cristalli rossi.
L’Investigatore estrasse da sotto il camice una pistola come quella di Akaashi, e il ragazzo smise di respirare per un secondo, giusto il tempo di alzarsi in fretta e furia e assestargli un pugno in pieno viso per poi strappargli la pistola di mano, riponendola poi velocemente nella tasca del proprio cappotto.
L’uomo cadde coprendosi la faccia con un lungo lamento e Akaashi non ebbe il tempo di fermare Bokuto quando questi afferrò il suo supervisore per il collo.
Prima che potesse sollevarlo da terra, Akaashi sussultò e prese saldamente il viso di Bokuto tra le sue mani. Si assicurò di avere tutta la sua attenzione.
-Bokuto, fermati.- lo implorò, le pupille fisse nelle sue, rosse e piccole in mezzo alla sclera nera. -Dobbiamo andarcene, il più velocemente possibile. Subito. Non c’è tempo.-
Akaashi quasi non credeva di essere tanto vicino a un ghoul, al suo viso, alla sua bocca. Avrebbe potuto staccargli una mano con un morso, se avesse voluto. Avrebbe potuto azzannargli la faccia e ucciderlo.
Ma Bokuto non lo fece.
-Tu devi solo seguirmi e correre, correre, correre. Non ti fermare. Non… lasciarti andare.- continuò Akaashi, anche se la voce gli tremava, accarezzando lentamente i suoi zigomi con l’intento di tranquillizzarlo.
A quel punto tutta la sede della CCG probabilmente stava venendo a catturarli, ma Akaashi sapeva che quello era un momento delicato e se avesse sbagliato non ne sarebbero mai usciti vivi. Non poteva semplicemente strattonare Bokuto e obbligarlo ad andare avanti: prima di tutto, doveva farlo calmare. Akaashi non voleva che succedesse nulla di male. Fu lieto di vedere il kagune che si ritirava.
-Va tutto bene. Andiamo.- lo incitò con voce calma, tirandolo piano verso di lui.
Fortunatamente, sembrò funzionare. Bokuto tornò in sé dopo pochi secondi: doveva affidarsi completamente a lui se voleva uscire di lì, anche se sentiva addosso un’irrefrenabile voglia di esplodere. Non sapeva definirla in nessun altro modo.
Lasciò andare il supervisore, sull’orlo dell’incoscienza, e seguì Akaashi.
Gli strinse la mano più forte di prima, guardandosi attorno con aria smarrita e ansiosa. Notare come tutto quanto attorno a lui si muovesse gli faceva uno strano effetto e salire i gradini era terribilmente difficile, tanto che rischiò di inciampare un paio di volte.
Una sirena iniziò a risuonare nell’edificio quando giunsero a metà della rampa di scale. Akaashi sobbalzò e accelerò il passo, un improvviso terrore che gli attanagliava lo stomaco. Il piano terra si stava avvicinando, ma aumentavano anche i rumori, le urla severe, i passi svelti: il caos dilagava nell’edificio, ora poteva sentirlo con chiarezza.
-Veloce.- lo sollecitò col cuore in gola una volta giunti in cima alla scale, correndo a perdifiato lungo l’ultimo corridoio e infine attraverso il salone, verso il portone di ingresso che in quel momento sembrava tanto la porta del paradiso. Sentì il fischio di alcuni proiettili, sparati da troppo lontano per essere precisi. Gli ultimi metri furono interminabili. I polmoni bruciavano e il cuore sembrava sull’orlo del collasso.
Sentì delle voci concitate e sempre più vicine: non importava quanto veloce corressero, da lì a poco li avrebbero raggiunti.
Lasciò andare Bokuto e lo spinse fuori dal portone mentre afferrava la pistola con l’altra mano e si voltava indietro, la mascella contratta, rendendosi conto fin troppo bene di ciò che stava per fare. Non c’era altro modo.
Chiuse un occhio e si sentì gelare il sangue nelle vene mentre sparava ai due uomini armati che stavano correndo verso di loro, ed erano ormai troppo vicini per non costituire un pericolo.
Ferì il braccio di uno e la gamba dell’altro e, prima che quest’ultimo cadesse a terra, Akaashi era già uscito dall’edificio.
L’aria fredda di dicembre investì Bokuto e gli fece mancare il respiro. La luce naturale lo abbagliò, ma non poté soffermarsi ad ammirare lo splendore del sole già basso perché Akaashi continuò a farlo correre subito dopo avergli riafferrato il braccio, trascinandolo lungo la strada.
Bokuto spostò lo sguardo dalla sua mano ai suoi capelli neri e un po’ scombinati. Nel petto gli stava germogliano una sensazione che avrebbe potuto elaborare solo con lucidità e calma, e non era quello il momento. Provava una felicità strana, ancora da definire e raffinare, perché ancora non era del tutto conscio del fatto che era davvero libero, e non sarebbe dovuto tornare in nessuna gabbia. Avrebbe voluto sorridere, ma i muscoli della sua faccia sembravano non voler far altro che piegarsi in una smorfia per farlo piangere.
Akaashi lo fece svoltare nella prima curva che trovarono e tirò fuori dalla sua tracolla una felpa appallottolata. Gliela lanciò mentre continuava ad avanzare e Bokuto la afferrò al volo.
Il ragazzo dai capelli grigi prese la mano di Akaashi e fermò la sua corsa.
-Mettila.- disse Akaashi voltandosi verso di lui, probabilmente chiedendosi come facesse Bokuto, vestito con una misera maglietta grigia a maniche corte, a non capire cosa fare con una calda felpa in dicembre.
I suoi pensieri acidi furono spezzati dall’abbraccio che ricevette subito dopo. Spalancò gli occhi e le sue braccia rimasero alzate a mezz’aria per qualche secondo prima di posarsi sulla schiena di Bokuto e stringere tra le dita la stoffa della sua maglia. Akaashi non poteva avere idea di quanto quel gesto significasse per il ghoul.
Per la prima volta dopo cinque anni, Bokuto sperimentava il contatto fisico. Era iniziato quando Akaashi lo aveva preso per il polso per portarlo via. Gli aveva preso la mano. Gli aveva accarezzato il volto. Bokuto si era quasi dimenticato di come fosse, sentire il tocco gentile di qualcuno, un’altra pelle sulla propria. Gli scaldava il cuore, perché gli era mancato, e averlo ritrovato in quel modo era stato sorprendente. Abbracciarlo fu bellissimo e devastante, e si sentiva tremare, e avrebbe voluto piangere tanto era confortante, tiepido e gentile.

Erano due i motivi che avevano spinto Akaashi a compiere quell’azione che, ora che era stata davvero eseguita, gli sembrava ancora più folle: i valori personali, e quel ragazzo. Un ghoul. Un mostro che, con grandi probabilità, lo avrebbe divorato se avesse avuto fame. Ma in quel caso, avrebbe avuto una pistola -anzi, due, no? Non era del tutto in balia di un predatore. Un terribile predatore. Un terribile predatore carnivoro che stava singhiozzando ringraziamenti senza fine con il viso appoggiato contro la sua spalla, come se avesse voluto farsi minuscolo e sparire dentro il suo abbraccio.
Aveva liberato un ghoul che era stato oggetto di cinque anni di studi ininterrotti. Lo pensò chiaramente, i polmoni in fiamme la corsa.
La gola gli si chiuse per l’ansia e si allontanò lentamente da Bokuto, tenendo le mani sulle sue braccia e guardandolo con aria preoccupata.
-Devi andare.- gli disse serio, prendendo la felpa e aiutandolo ad infilarla.
-Dove?-
Akaashi fissò lo sguardo nel suo.
-Ti ricordi dove abitavi prima che ti prendessero?-
Bokuto si aprì in un ampio sorriso e annuì.
Akaashi rispose debolmente al sorriso e un piccolo batuffolo di fumo uscì dalla sua bocca per il freddo. Non poté fare a meno di pensare che, anche se forse era da masochisti, ne era valsa la pena.
-Tornaci.- gli disse spostandogli un paio di ciocche da davanti agli occhi. Erano di un colore denso e caldo, ambrati, le pagliuzze dorate che sembravano quasi splendere.
Bokuto aggrottò le sopracciglia. -Non vieni anche tu?-
-Tra altri ghoul? Sarebbe un suicidio.- gli spiegò, cercando di non cedere davanti a quello sguardo triste e ignorando che il solo fatto di aver ferito due agenti della CCG era già di per sé una sorta di suicidio.
-Ma tu...?-
Akaashi lo interruppe con decisione.
-Io so cosa fare.- mentì mentre, forse senza accorgersene, faceva scivolare le mani dai capelli alle guance, prendendogli così nuovamente il viso tra le mani. -Ascolta, in questo momento mi sto davvero chiedendo perché ti ho liberato. C'è un ghoul in più in circolazione, ora: non farmene pentire e sparisci prima che io cambi idea.-
Cercò di essere il più duro possibile. Non credeva a una sola parola di quelle che aveva detto, ma Bokuto sì, e lo guardò sconsolato e spaventato.
-Io non pensavo che gli umani potessero essere brave persone.- pensò a voce alta il ragazzo dai capelli grigi. -… Quindi grazie.-
Akaashi strinse le labbra e cercò di mantenere un atteggiamento ferreo. -Vai via.- rispose. -Fallo in fretta e stai attento a non farti prendere.-
Bokuto aprì le labbra e le richiuse, abbacchiato. -Grazie.- ripeté abbassando lo sguardo, come se avesse paura che Akaashi non lo avesse sentito, poco prima. Le mani dell’altro scivolavano via dalle sue guance.
Bokuto pensò di impuntarsi e di restare con lui, ma lo sguardo tagliente di Akaashi sembrava non voler accettare compromessi. Così il ghoul indietreggiò, anche se con fatica, per poi voltargli del tutto la schiena.

Il piano di Akaashi era stato concepito fino a quel punto: le loro strade che si separavano. Era così che doveva essere, tra un ghoul e un umano, per il quieto vivere di entrambi.
Oltre, era il nulla. Aveva organizzato la fuga di Bokuto in ogni minimo dettaglio, ma per qualche motivo aveva deciso che dopo di essa avrebbe improvvisato, forse perché era convinto che non sarebbero sopravvissuti fino a quel punto, e probabilmente era stato un enorme errore.
Ogni opzione che la sua mente partoriva, dal tornare a casa dai suoi genitori fino al consegnarsi spontaneamente alle forze dell’ordine, confluiva inevitabilmente in un unico esito: la reclusione, o qualcosa di ancora peggiore.
Quando Bokuto finalmente sparì dalla sua vista, Akaashi si sentì perso. Si voltò anche lui e iniziò a camminare rapido, stringendo forte la cinghia della tracolla tra le mani, senza destinazione ma col petto in subbuglio.
Dopo qualche passo germogliarono i primi piccoli dubbi, e gli sussurrarono all’orecchio parole maligne. Dopo qualche minuto, Akaashi si accorse di stare annegando tra le urla nel suo cervello, che si accavallavano e si sovrapponevano confusionarie come onde in un mare mosso.
Aveva sabotato un progetto della CCG. Come aveva potuto farlo? Con quale coraggio? Aveva diciassette anni, come aveva fatto a scagliarsi contro un’agenzia federale in quel modo, come faceva ad essere ancora vivo? Lasciare Bokuto da solo era stata la scelta giusta? Non stava bene, non era stabile, né mentalmente né fisicamente. Era sicuro lasciarlo girare così? No che non era sicuro. Né per lui né per gli altri. Era stata una pessima scelta e si chiese cosa l’avesse spinto a prendere una decisione così stupida e pericolosa.
Si bloccò e si voltò indietro, ma ormai era tardi, ormai era lontano, ormai era fatta.
Si portò una mano in faccia, appoggiandosi al muro, e dovette prendere un respiro profondo per ripulire la propria mente da tutti i pensieri catastrofici che lo stavano assalendo.
Alzò lo sguardo per capire dove fosse e fare mente locale. Il sole stava tramontando. La metro di Yushima era vicina.
 
Una volta arrivato il weekend, gran parte degli allievi dell’Accademia a cui era stato assegnato un alloggio, finalmente tornava a casa sua, dalla propria famiglia -soprattutto i ragazzi più giovani.
Era venerdì sera e, poiché ormai era dicembre inoltrato, il cielo si scuriva presto, e andare in metropolitana da soli col buio non era proprio ciò che ogni genitore desiderava per il proprio figlio.
Kageyama si ripeteva questa scusa mentre aspettava che la metro si fermasse, seduto accanto a Hinata. Sarebbero scesi a Yushima insieme, come ormai facevano da mesi, e da lì ognuno sarebbe andato per la sua strada.
Kageyama non parlava molto, ma ci pensava Shouyou a riempire i silenzi imbarazzanti: la sua compagnia sapeva essere anche divertente, oltre che sfiancante.
-Non vedo l’ora che arrivino le vacanze natalizie!- sospirò il ragazzino rosso, appoggiando la testa al vetro dietro di sé e chiudendo gli occhi.
-Ancora una settimana.- commentò Kageyama mentre spostava annoiato lo sguardo sulla folla stipata nel vagone. Alcune persone avevano lo sguardo perso nel vuoto buio oltre i finestrini, altre si fissavano i piedi come se fossero qualcosa di incredibilmente interessante, altri ancora parlavano quietamente tra di loro.
Kageyama tornò guardare davanti a sé, svogliato, ma un attimo dopo si riscosse e si voltò di nuovo verso lo stesso punto di pochi secondi prima. Gli era parso di intravedere qualcosa, tra tutta quella gente. Un movimento strano, un viso strano.
Assottigliò lo sguardo e si sporse un poco in avanti. C’era qualcuno, seduto proprio in fondo al vagone.
Aveva un cappotto marrone scuro, e il cappuccio della felpa che indossava sotto di esso gli copriva la testa. Teneva le gambe incrociate e il viso voltato di lato, come se stesse guardando le rotaie che la metropolitana si lasciava dietro di sé, dal momento che la parte finale del vagone era completamente trasparente. In molti lo facevano, e non ci sarebbe stato nulla di strano, se non fosse stato per il riflesso che Kageyama vide nel vetro, sullo sfondo scuro di quella galleria infinita.
Indossava una maschera. Lasciava scoperta solo la bocca. Nel breve lasso di tempo in cui Kageyama se ne accorse, quelle labbra si erano increspate in un piccolo sorriso.


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Note e chiarimenti
Dopo quasi due mesi, ecco il decimo capitolo -che tra l'altro è un capitolone, sia come contenuto che come lunghezza. Credo sia molto difficile per voi seguire la storia, con questi tempi, quindi mi scuso enormemente per l'ennesima volta!
Il titolo del capitolo sono due versi della poesia "The Mask" di Yeats: la volontà del poeta è quella di scoprire cosa si cela dietro la maschera dorata di una donna, se nasconde amore o inganno, e allo stesso modo i protagonisti del capitolo hanno a che fare con questo metaforico oggetto. Iwaizumi, con Tobio, ha indossato questa maschera per mesi per amore di Tooru, e Bokuto cerca di capire cosa si cela dietro la maschera di Akaashi, ma anche Akaashi cerca di smascherare se stesso, e non è così facile. Infine, la maschera da metafora passa a oggetto concreto: il ghoul mascherato è sul vagone della metropolitana.
Cosa succederà? Vi assicuro che i prossimi capitoli non saranno delle camomille.
Alla prossima e grazie a tutte di continuare a seguire la storia!
   
 
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