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Autore: nuvolenere_dna    27/09/2017    10 recensioni
[POV multipli di Freezer, Vegeta e Nappa]
Mi trattengo con tutte le mie forze per non ridere.
Lotti con tutte le tue forze per non gridare.
Lo so, mio dolce bambino... l’oscurità non ha mai fine.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Freezer, Nappa, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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pretty capitolo finale
Pretty When You Cry
 
Epilogo

[Vegeta’s POV]
 
 
L’ululato della tormenta invade i miei timpani, artigli di vetro arpionano il volto e le mani, frustati dalla neve tagliente. Il bianco è ovunque, ricopre e mangia la terra intrisa di ghiaccio, è nelle mie palpebre, nelle pupille divenute fantasmi slavati, accecati dall’oscurità sinistra di quel candore, una melodia inquietante che solletica le mie viscere, è fra le volute del mio mantello di seta, sferzate dal vento, da cui schizzano via innumerevoli gocce d’acqua, disciolte e respinte dal mio movimento.
Affondo nella neve ad ogni passo, in un caleidoscopio muto, senza colori.
La bufera urla, grida, strepita la sua potenza e annienta, scatenata dal cielo scuro, lontano e distante come una nebbia corvina, roboante di tuoni.
Se non sentissi il cuore battere, frenetico come un terremoto nella cassa toracica, assordante pur nel fragore del ghiaccio, giurerei di non essere altro che una propaggine di questa tempesta, una folata gelida e furiosa al tempo stesso, maledetto come la terra sterile, derubato di ogni linfa vitale.
Invece... sono vivo.
Sono vivo.
Ancora vivo.
Sbatto ripetutamente le palpebre irritate per il freddo, cercando di guardare la sagoma del mio petto alzarsi e abbassarsi ritmicamente, le gambe muscolose, gli stivali scuri inghiottiti dal bianco.
Il tempio del mio corpo è stato disonorato, ridotto a un impasto fluttuante, della stessa materia delle tenebre, del nulla, attraversata dal fumo dell’incenso che brucia.
Durante l’esplosione, su Hagalaz, ho sentito le costole sbriciolarsi, polvere nel sangue, spappolate sotto la pelle divenuta nera.
Dopo, nella confusione tumultuante della sala del trono di Freezer, il tempo sembrava essersi fermato, la clessidra trattenuta dalle sue dita bianche: ero ritornato a essere soltanto un giocattolo spezzato, l’ennesimo dei pianeti su cui sfogare vampate di frustrazione, la terra smossa, le strade rovesciate, la vita rimasta che grida in uno stillicidio di morte, inghiottita dalla pressione bulimica dello spazio.
Lavarmi e sfregarmi, scorticarmi con le unghie tutto il corpo non è stato sufficiente a liberarmi del sangue. Torrenti di porpora colavano lungo le mie gambe, sui piedi, disperdersi nell’acqua della doccia, mescolandosi alla terra nera intrisa fra i capelli, ma quel sangue è ancora dentro di me, porpora tiepida che mi corrompe dentro, sporcandomi le ossa. L’acqua bollente che faceva ringhiare le mie cicatrici fresche, come arse dall’interno.
“Tu non sconfiggerai mai Freezer. Mai...”
La voce stridula di quella donna risorge, distorcendosi in un’eco infinita nella mia testa, rimbombando all’altezza del mio petto dove vibra, pulsa e genera spasmi dolorosi.
Sento qualcosa risalirmi la gola, un bolo di tensione e di rabbia che riempie rovente il mio corpo, vorrei soltanto gridare di rabbia, le corde vocali si tendono, compresso nei pochi centimetri del mio corpo, troppo piccolo perché riesca a contenere l’abisso che mi trapassa ogni secondo, sempre più profondamente.
Mi mordo le labbra nel tentativo di non urlare quando, in fondo, nel bianco vorticante, scorgo le forme esili delle sue spalle.
Le sue viscide, subdole, ipocrite spalle, bagnate dal vento algido come se fosse una carezza, il viola che riluce, talmente intenso da essere violento, fosforescente nel candore.
La sua coda si muove appena nella neve, lenta, come se fosse stanca.
La forza di Freezer corrode caustica le mie vene, elettricità pura, oscena e gelida, tutto il mio corpo è teso dalla fibrillazione, formicolante per l’energia in sovraccarico che lo percorre a ripetizione, incontrollata come una bestia che cerca di liberarsi dalle catene.
Se questa è soltanto una briciola della sua potenza, io non avrò mai alcuna speranza contro di lui. Deglutisco, sfibrato dal respiro corto, ansante per la tensione, mentre ogni passo mi avvicina a lui.
La nebbia tumultuante si dirada, mostrandomi in lontananza la figura di Zarbon che indica a dei soldati dove caricare le scorte per il viaggio fino alla galassia di Dagaz.
Almeno tre mesi di viaggio, una battaglia in cui potrei morire come un insetto, dilaniato dalla potenza degli abitanti del pianeta che né l’esercito di Re Cold né quello di Cooler sono riusciti a conquistare. Freezer lo vuole, sbatte capricciosamente i piedi a terra al pensiero di superare il padre e il fratello e probabilmente potrebbe farlo con facilità se solo accettasse di scendere personalmente sul campo di battaglia.
La loro non è altro che una partita a scacchi, dove a vomitare sangue e a morire sono soltanto le pedine.
Ricordo il mio volto riflesso nello specchio, i suoi lineamenti, il suo sguardo, il suo modo di arricciare la bocca nel disgusto, il suo naso dritto. Il mio viso è cambiato, le linee rotonde del bambino sono state irrigidite, battute a sangue e incatenate una metamorfosi crudele, seguite dai miei occhi, sempre più segnati, cupi di fronte all’immensità.
Chiudo le palpebre per un istante e ripenso al silenzio degli astri, immobili, avvolti in una melodia senza tempo, alla navicella biposto in cui io e mio padre viaggiavamo quando mi portava in guerra con lui.
Gli unici momenti di vicinanza che abbiamo mai avuto. Non diceva una parola, le labbra strette in un’espressione severa, osservava il fluire dello spazio aperto, riflesso nei suoi occhi scuri, attraversati da una miriade di stelle ardenti. Non lo vidi mai vulnerabile come in quei rari istanti in cui ritardavo volontariamente l’ibernazione per osservare incuriosito come si discioglieva il suo volto addormentato.
Tutto di quell’uomo, della sua razza, vive in me, le radici incastrate talmente in profondità nel mio sterno che per ucciderlo definitivamente dovrei uccidere anche me stesso.
«Ve-ge-ta.»
Un sussurro si insinua fra la neve, scandendo lascivo il mio nome.
Le sue spalle si contraggono, la coda inizia a sferzare nervosa la neve, scavando come una frusta solchi profondi fino alla terra nera.
Un azzurro liquido, rovente come la lava, cola lungo il mio petto come una lunga lacrima di liberazione: ricordo soltanto quel colore, un blu di zaffiri fosforescente, un turchese dipinto nella pace, nella bellezza dell’universo. Un ceruleo che corteggia l’anima e dischiude le sue porte, come un fiore che si inchina di fronte alla luce.
Ricordo gli occhi maliziosi di quella donna e una sensazione di pace, vivida al punto di tagliarmi le carni, nient’altro, un vuoto che mi riempie di brividi la spina dorsale.
Quello non può essere il paradiso che mi attende alla mia morte. Io non sono altro che un assassino, una pedina del gioco che fa a pezzi le altre pedine per avanzare sul terreno, senza curarsi del rosso luminescente, sparso fra il bianco e il nero in mille cocci.  
Una timida speranza sboccia dentro di me.
Forse un diverso epilogo vedrà solcare i miei passi.
Potrebbe essere l’ultima volta che lo vedo, l’ultima volta in cui ascolto il silenzio degli astri, il frastuono dei meteoriti che si schiantano, il fragore delle stelle che deflagrano, inosservate, penetrate dall’oscurità, l’omertà dei buchi neri che risucchiano tutto ciò che si trova intorno a loro, la solitudine dei pianeti obbedienti, incamminati lungo un’orbita, pieni di fiducia nel continuare ad attraversarla nell’aspettativa che tutto andrà bene.
Continuerò sempre a combattere per la mia vendetta.
Perché... nonostante tutto, io voglio vivere.
 
[Freezer’s POV]
 
La tormenta mi culla, ipnotica e atroce, sussurrandomi veleno che solo io posso comprendere. Grida, strepita e ulula che l’ho tradita, che le mie mani si sono sporcate di un calore bastardo, lurido, che quel lerciume è ancora vomito nella mia bocca.
Le sue maledizioni si scompongono in volti sinistri, ombre di angoscia disciolte nella nebbia e nel fragore, i cui occhi mi fissano accusatori.  
Sento le vene contorcersi per la stanchezza, le palpebre bruciare, sobillato dal richiamo famelico della neve che brama, licenziosa, di ricongiungersi a me, bisbigliandomi di dimenticare Vegeta, mio padre, Cooler, di abbandonare questo Impero, la vita di razionale dominio e conquista che non si addice per nulla alla mia natura.
Io sono un demone del freddo, la cui carne sorge impastata al ghiaccio, trapassata dalle stalattiti e dal rigore dell’inverno imperituro. Io sono nato per uccidere, per dominare, per annientare, per strappare con gli artigli e con i denti il terrore altrui e cibarmi famelico dei loro cuori roventi, pulsanti, deglutendo mentre la porpora mi cola lungo il mento.
Mi lascio accarezzare dalla polvere di vetro, socchiudendo gli occhi in due fessure.
Mentre una parte della mia energia vitale fluiva dalle mie dita, penetrando come una scossa elettrica il corpo di Vegeta, ho sentito le vene del braccio squarciarsi, come carbonizzate, violentate da un pensiero proibito. Qualcosa nelle profondità delle mie viscere ha vibrato di rabbia, di un’ingiustizia simile alla violazione di un giuramento di sangue. Io non sono nato per donare la vita, soltanto la morte.
I conati di vomito mi hanno ustionato l’esofago mentre ridevo.
Perché l’ho fatto?
Parole non dette vibrano censurate nella mia mente.
Il suono decadente e malinconico della tempesta mi ricorda quello dei singhiozzi di Vegeta, piangeva talmente tanto che il suo volto era diventato violaceo, consumato della disperazione e dell’angoscia. I suoi occhi neri vagavano come spiriti maligni, senza pace, annacquati dalle lacrime che colavano sulle sue guance livide, il volto austero inghiottito dall’abisso, fatto a pezzi come una bambola a cui hanno accoltellato i lineamenti, ricomponendoli in posizioni diverse.
Sorrido nel ripensare a quell’immagine, malizioso, passandomi la lingua sui denti nel rivivere quel piacere, un brivido che mi attraversava la schiena, come un fulmine che cerca la terra, impetuoso e cieco a qualunque altra cosa.
Sento il suo odore di barbaro selvaggio mescolarsi alla neve vorticante, furente, che tenta di dissuadermi ancora riempiendomi i timpani con grida possessive, gli artigli tentano di chiudermi la bocca, trapassandola di spilli.
«Ve-ge-ta.»
La verità è che volevo continuare a guardarlo piangere per sempre.
Cosa c’è di tanto disonorevole?
Si avvicina, suadente, l’ombra gettata dal suo corpo esile che raggiunge lentamente la mia, disperdendosi in essa. La chimera di tenebra è immobile nel bianco, nera come l’abisso, un mostro immobile partorito dall’oscurità di una notte eterna.
«Non pensavo che attribuissi valore alla vita delle puttane.»
È il sibilo tagliente della sua voce, caustica come un manrovescio in pieno volto.
Come osa mancarmi di rispetto?
Contraggo adirato la mandibola, facendola schioccare, mentre il resto del mio volto si scompone in una risata divertita, contemporaneamente stuzzicato dalla sua perspicacia.
Sono io quello che si è piegato veramente.
Come osa sottolineare la mia debolezza?
Crede forse che io non me ne renda conto?
Che non senta il grido della neve, stuprata, che smania la vendetta, che brama soltanto il sangue di cui cibarsi, saziarsi, innamorata della morte, esorcista di ogni scintilla vitale?
Mi volto di scatto e incontro il suo sguardo duro, forgiato nell’adamantio delle profondità della terra corvina, mai sfiorata dalla luce.
Nulla traspare dal suo viso ostile, i lineamenti irrigiditi in una maschera serrata come una cassaforte. Indossa la battle suit delle occasioni diplomatiche, seta lucida che gli fascia il corpo magro e muscoloso, l’eleganza tradita dal suo collo, dove i segni delle mie dita scavano ancora lividi nella sua pelle diafana, profondissimi e scuri.
Mi avvicino repentinamente, respirandogli sul volto, i rubini nelle mie iridi che rifulgono di una luce sinistra, porpora liquida, vermiglia e bruciante come il rosso degli astri che muoiono soli nello spazio vuoto. 
«Di certo tu non attribuisci valore al silenzio.»
Afferro il bavero della battle suit e stringo fra le dita il suo mento, accarezzando con le unghie le ossa fragili della sua mascella, rigenerate dalla mia potenza.
Le mie labbra mordono le sue, succhiandole, tagliandole con i denti affilati, afferrano e squarciano la sua lingua.
Il suo sapore.
Carne e sangue caldo di bestia.
Il sangue dolce e ferroso del mio moccioso.
Un brivido di piacere e di adrenalina mi attraversa elettrico la schiena e mugugno, deliziato, la bocca che si apre in un sorriso nel notare la veemenza di Vegeta nel ritrarsi disgustato, allucinato, portandosi istintivamente una mano alla bocca e sfregandola lentamente con il guanto candido.
Una striscia viola, oleosa, macchia il tessuto candido dei suoi guanti, mescolata allo scarlatto diluito dalla saliva. Nel notare la sua espressione turbata non riesco a impedirmi di deriderlo, tradito da una risata sguaiata, dissonante, che sbrana i miei lineamenti fini.
Lascio andare il bavero della sua uniforme, mentre osservo la bile corrodergli l’esofago. Ancora una volta vorrebbe piangere, gridare, urlare con tutta la forza che ha in corpo, ma obbliga il suo volto a liquefarsi in un ghigno, tradito soltanto dalla mandibola contratta come l’acciaio, gonfia sotto la pelle diafana degli zigomi pronunciati.
Mi sorride, specchio del mio sorriso, materia della stessa oscurità vischiosa e cangiante.
«Torna vivo, Vegeta.» ordino, secco, disperdendo lo sguardo nella tormenta e nello spazio che si estende, incommensurabile, oltre il cielo plumbeo.
«Sono un Saiyan.»
Un barlume di irritazione mi fa vibrare il petto, nauseato al suono di quella parola.
Gode della mia stizza e il suo sorriso si allarga ancora di più, una voragine bastarda si dilata sul suo viso sferzato dalla polvere di vetro. Si volta e si allontana lentamente, mentre mi sforzo di seguire le sue spalle esili e i suoi capelli corvini nel caleidoscopio vorticante, fino a quando non rimane soltanto l’ululato della tempesta, affilato quanto la vergogna che mi taglia la faccia.
Mi lecco le labbra, nostalgico e famelico, masturbandomi con l’ultima goccia del suo sangue, ancora incastonata nell’increspatura della mia bocca.
Traditore
Gridano, assordanti, inesorabili, gli spiriti della neve.
 
 
Fine
 
 
*
 
Ciao a tutti!
Questa volta ho deciso di posticipare lo spazio autore alla fine per salutarvi tutti con affetto, volevo dire un grazie di cuore a tutti quelli che mi hanno letta, inserita nelle preferite, nelle ricordate e nelle seguite, ma soprattutto recensita! Mi avete incoraggiato a proseguire e mi avete fatto molto piacere! Questa è la mia prima “long” che vede una conclusione e sono un po’ emozionata!
Oltretutto... era una storia alquanto particolare e avevo paura di fare un gran pasticcio e di essere radiata dal fandom! *ride*
Che dire, spero che l’epilogo abbia soddisfatto le vostre aspettative... attendo ansiosamente commenti...
Un abbraccione,
Nu :*
  
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