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Autore: Blackvirgo    08/11/2017    4 recensioni
Salvatore Gentile non era abituato a essere confuso. La sua vita era sempre corsa su binari netti, perfettamente suddivisa fra il bianco e il nero: fra perdenti e vincitori, fra giusto e sbagliato, fra importante e inutile. E fino a quel momento ciò che non era il calcio, per lui, era sempre stato inutile. Sì, c’erano gli amici, i compagni di squadra. C’erano state delle storie di lunghezza variabile tra il tempo di una scopata e quattro mesi di mazzate nelle palle, ma non c’era mai stato un pensiero così fisso e fastidioso da diventare ossessivo.
[Altri avvisi: italian!ship, linguaggio a tratti scurrile. Niente di drammatico, ma di sicuro non hanno studiato a Oxford!]
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Gino Hernandez, Salvatore Gentile
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Anteros'
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15 ottobre
Chiodo fisso
 
L’alba svegliò Salvatore con un raggio di sole dritto negli occhi. Il difensore imprecò furioso verso quelle maledette tende che non schermavano la luce a sufficienza. Voltò la testa e il suo sguardo venne catturato dal suo compagno di stanza: Gino dormiva a pancia in giù, le braccia sopra la testa a circondare il cuscino, il viso di tre quarti. Salvatore, persa ormai la voglia di dormire, si alzò dal letto silenzioso e gli si avvicinò. Studiò la sua fronte larga, i capelli biondi scompigliati, l’accenno di barba sulle guance e sul mento e dovette fare uno sforzo immane per impedire che le mani accarezzassero quello che finora avevano accarezzato gli occhi. “Che diavolo mi fai fare, Hernandez?” sospirò rivolto a sé stesso, distogliendo rapidamente lo sguardo, lo stomaco attanagliato in una morsa di desiderio e di paura. La sua vicinanza gli annebbiava la ragione e gli accendeva istinti con i quali non si era mai confrontato.
Non era la prima volta che si sentiva attratto da un ragazzo, ma era sicuramente la prima volta che la sua vicinanza – che il suo mero pensiero – gli trasformava i neuroni in mosche ronzanti. Era riuscito a liquidare le poche volte in cui gli era successo con la rassicurante convinzione che è solo una fase, passerà e me ne scorderò. E si era egregiamente consolato con una ragazza. Ma ora voleva Gino, e lui soltanto.
In quei mesi in cui pian piano questo interesse era diventato sempre più morboso aveva provato a distrarsi buttandosi negli allenamenti, facendosi storie – sempre e rigorosamente con ragazze perché anche Hernandez era solo una fase, doveva essere solo una fase –, ma ogni volta che lo aveva rivisto la voglia di stare con lui non aveva fatto che aumentare. Fino a pensare a lui mentre scopava una ragazza, gli occhi chiusi che dipingevano il suo corpo tra le mani e tra le gambe, le labbra serrate perché il suo nome – il suo pensiero – non ne uscisse.
Salvatore si sedette sul proprio letto, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, il mento sul dorso della mano, gli occhi che tornarono a studiare la figura di Gino. Invidiava il suo sonno profondo e sereno. Allungò una mano per scostargli i capelli dal viso, ma la ritrasse subito prima di toccarlo. Erano stati così vicini quella notte… avrebbe potuto baciarlo se solo ne avesse avuto il coraggio. Lo aveva già fatto in un momento in cui erano stati ancora più vicini – Dio, le sue labbra! Roba da perderci il senno e continuare a baciarle per ritrovarlo, –  ma Gino quella sera, che ormai sembrava lontanissima, l’aveva respinto. Certo che lui avrebbe potuto provarci in una maniera un po’ più delicata, invece di lasciarsi guidare in ogni suo movimento da una rabbia cieca. Non ricordava tutti i dettagli, ma sapeva di aver oltrepassato ogni limite. Saresti anche scopabile se non avessi il carattere di merda che ti ritrovi, gli aveva detto una volta il portiere. Ma anche quella frase sembrava stata pronunciata in una vita precedente.
Si alzò dal letto, aprì la porta del bagno, entrò e se la chiuse silenziosamente alle spalle. Aveva bisogno di svegliarsi, di smettere di sognare a occhi aperti: si sentiva peggio di una ragazzina alle prese con la prima cotta. Voleva riprendersi il proprio controllo. Sentiva un bisogno fisico di giocare, di prendere a calci il pallone fino a consumarsi i piedi, di stremarsi fino a non avere più energia per pensare. Aveva bisogno di quell’oblio che si raggiunge solo quando si è sfiniti, di stramazzare a letto e dormire ignaro del resto del mondo. Si spogliò velocemente e si infilò nella doccia. Aprì l’acqua calda e lasciò che gli scorresse addosso e che lo rilassasse più di quanto avesse fatto il breve sonno. Ma il tepore dell’acqua gli fece solo ricordare il corpo di Gino stretto nel suo abbraccio, le sue labbra così vicine… e lui non era neppure stato in grado di approfittarne. Perché lo aveva avuto tra le mani nel suo momento di fragilità e no, non poteva. Salvatore iniziò ad accarezzarsi, lentamente, rivivendo quelle sensazione che ancora sentiva sulla propria pelle. E poi andò oltre, a immaginare di averlo davvero baciato, di averlo portato in camera e spogliato e infilato nel proprio letto. La sua mano si mosse più rapidamente, al ritmo del suo respiro corto, il viso che avvampava mentre dietro le sue palpebre era Gino che lo avvolgeva con il suo corpo, erano di Gino i sospiri sommessi che cercava di soffocare, erano di Gino i gemiti di piacere che lasciarono le sue labbra.
Salvatore strinse forte gli occhi e aspettò che il respiro smettesse di correre e il cuore smettesse di martellargli il petto, ma non c’era modo di togliersi il pensiero dalla testa. Virò il miscelatore sull’acqua fredda: aveva bisogno di tornare alla realtà, perché a forza di perdersi nei sogni aveva paura di non ritrovare più la strada. Rimase in piedi, le braccia abbandonate lungo il corpo, la testa chinata, rivoli di acqua fredda a disegnare il contorno della sua figura. Che cazzo devo fare?, si chiese una volta di più.
***
 17 ottobre
 
Salvatore lanciava, di tanto in tanto, occhiate più o meno distratte ai compagni che stavano provando gli schemi di gioco in campo.
Era sicuro che se avesse potuto tornare ad allenarsi, tutto – l’infortunio, l’eliminazione ormai certa dal World Youth, le telefonate di sua madre a cui ormai rispondeva a una su cinque – avrebbe ripreso le giuste proporzioni. Ma il mister e il medico erano stati irremovibili: no, no e ancora no. Non doveva caricare troppo sul ginocchio ancora, figurarsi riprendere ad allenarsi. Gli avevano concesso giusto qualche noioso esercizio di tonificazione e allungamento.
Si avviò lungo il perimetro del campo, sbuffando il suo malumore ad ogni passo. Si fermò davanti a uno dei palloni da allenamento e gli tirò un calcio mandandolo contro la recinzione. Un gesto stupido che aggiunse livore al suo umore già nero. E, come se non bastasse, il pallone tornò indolente verso di lui. Fai di meglio, se ci riesci, sembrava dirgli. Salvatore appoggiò il piede sulla sfera per fermarla. La studiò per un lungo momento, indeciso se accettare o meno quella sciocca sfida, per poi decidere lui stesso quali fossero i termini del confronto: roteò il piede per alzare il pallone in aria, lo lasciò ricadere sulla punta della scarpa e cominciò a palleggiare, ogni pensiero focalizzato sulla palla, sul familiare toc del rimbalzo contro la scarpa, sul suono più attutito che produceva contro la pelle. Era una sfida con sé stesso, un gioco di precisione ed equilibrio. Doveva concentrarsi sul pallone e lasciare che l’istinto tirasse fuori quello che anni di allenamento gli avevano insegnato: piede, ginocchio, ginocchio, testa, petto, piede, ginocchio, piede, piede.
 
Gino terminò l’allenamento con i portieri con una buona sessione di stretching. All’inizio della partitella si sedette a bordo campo, si tolse i guanti e li appoggiò vicino a sé sull’erba – non che quel giorno gli fossero serviti più di tanto, ma allenarsi senza sarebbe stato strano, anche se si trattava di fare solo alcuni passaggi con in piedi. Bevve un sorso d’acqua per poi iniziare a rigirarsi la bottiglietta tra le mani mentre si guardava attorno: il mister non aveva più voce a forza di riprendere, sgridare e punzecchiare i suoi compagni. Si morse il labbro inferiore, scoraggiato: ormai non sapeva più che fare. Il suo sguardo si appoggiò su Salvatore che, solitario, aveva iniziato a palleggiare da un lato, ignorando il resto della squadra. Per un attimo l’immagine di Shingo si sovrappose a quella di Gentile: mai come in quel momento a Gino era balzato all’occhio quanto quei due fossero intimamente diversi. Vedere palleggiare Shingo era divertentissimo: lo vedevi lanciare il pallone in aria, rincorrerlo, riprenderlo e tornare a correre, piroettare, saltare e ancora correre, fino a cadere con una bella risata. Soprattutto quando il pallone, per una strana legge del contrappasso, finiva per rimbalzargli in testa. Salvatore, invece, pareva intrattenere con la sfera un sobrio ed elegante scambio di battute, un dialogo privato in cui nessuno avrebbe mai dovuto intromettersi. Solo che Gino non era stato abbastanza discreto: il difensore attirava il suo sguardo allo stesso modo in cui magnete attira il ferro e quelle occhiate fugaci, che non riusciva a controllare, gli scatenavano un brivido di eccitazione, un vuoto nello stomaco e... Non ora, si disse.
 
Fu come se quello sguardo se lo fosse sentito sulla pelle, Salvatore. Il battito del suo cuore accelerò e il difensore dovette fare due passi a sinistra per recuperare con il ginocchio un lancio sbagliato, girarsi di nuovo a destra per riprendere di testa una palla troppo alta e poi arrendersi e lasciar cadere il pallone quando non arrivò a riprendere per la seconda volta con il piede un lancio che avrebbe voluto essere in alto, ma che aveva fatto in avanti. Perché era sufficiente un solo attimo – una fitta al ginocchio, un pensiero inopportuno, un brivido sulla pelle – e quel gioco di controllo ed equilibrio si incrinava e lui si ritrovava ributtato a forza in quel mondo da cui si era estraniato per trovare un po’ di pace. Abbassò lo sguardo sul pallone – maledetto! – che, ignaro dei suoi turbamenti, continuava a rimbalzare verso il dilemma di cui gli sfuggiva ogni proporzione.
 
Con un colpo di reni Gino portò il peso sui talloni e prese il pallone tra le mani. Gentile si avvicinò a lunghi passi fino a coprirlo con la sua ombra. Aveva un’espressione torva sul viso e l’andatura, seppure quasi non zoppicasse, aveva un che di rigido. Hernandez appoggiò il pallone per terra e vi poggiò sopra una mano, l’altra a proteggere gli occhi dal sole. Il difensore lo fissava dall’alto in basso, gli occhi grigi duri e penetranti come una lama. Era uno di quei momenti di silenzio imbarazzante, di sguardi imperscrutabili. E Gino si era arreso a non capirlo, Gentile. Dopo quella sera sul balcone le cose erano diventate ancora più difficili, se possibile: Gino aveva l’impressione che il difensore lo evitasse, per poi trovarselo vicino nello spogliatoio o a tavola, che gli parlasse a malapena, ma che non gli sfuggisse nulla di quello che diceva. E per lui era decisamente troppo: c’era l’ultima partita del World Youth a cui pensare, non poteva concedersi distrazioni.
“Come va il ginocchio?” Hernandez lo sapeva che era una domanda stupida, ma non sopportava quei silenzi che si espandevano tra di loro come una nebbia tossica.  
Salvatore lo studiò per un lungo momento, gli occhi di ghiaccio, chiedendosi come facesse il suo capitano a stare in equilibrio quando il suo punto di appoggio era una sfera. “Regge.” Indicò con il mento il mister che stava urlando qualcosa ad Alessio. “Che succede là?”
Gino seguì la direzione della sua domanda. “Stanno giocando male e il mister li striglia.”
“Non li sopporto,” commentò Salvatore spazientito, senza distogliere lo sguardo dalla scena.
“Non dovresti essere così severo nei loro confronti,” lo riprese Gino, severo.
“Noi non chiederemmo altro che essere in campo e l’unica cosa che possiamo fare è stare a guardare questo strazio.” Non c’era spazio per la compassione nella testa del difensore. C’era solo la possibilità che gli altri avevano di giocarsi la partita per cui lui avrebbe dato entrambe le ginocchia per essere in campo, mentre la voglia di giocare dei suoi compagni era paragonabile a quella di un condannato che deve raggiungere il patibolo.
“Sono demoralizzati,” li difese Gino. “Ormai siamo fuori dal World Youth, salvo un miracolo. E ai miracoli non ci crede nessuno.”
“Hai anche il coraggio di difenderli?” Gli occhi di Salvatore scintillarono di rabbia.
Gino portò di nuovo lo sguardo sui suoi compagni. “Sto solo cercando di capirli.”
“Non se lo meritano,” ringhiò il difensore. Era stato il loro atteggiamento a deluderlo, in partita e in allenamento. Si comportavano come se tutto fosse già deciso, scritto sulla pietra. Non avrebbero passato il girone comunque, vero, ma almeno salvare la faccia… cazzo!
“È anche colpa nostra se la squadra si è ridotta così.”
“Non credevo che l’avessimo chiesto noi di farci male.” Lo sguardo di Salvatore si fece sempre più torvo.
“Non sono stati solo gli infortuni, Salvo,” riprese Gino. “La squadra negli ultimi ritiri ha sempre funzionato poco. Non siamo riusciti a fare gruppo ed è questo che adesso ci frega.” Il portiere si torturò il labbro con i denti, la voce si abbassò assieme allo sguardo. “E poi ci sono stati alcuni episodi che non hanno aiutato.” Odiava tirare fuori di nuovo la cerimonia di inaugurazione, ma quell’episodio aveva creato una vera e propria frattura all’interno della squadra e Gino non poteva permettersi di non essere obiettivo: Gentile, in quel momento, era un giocatore come gli altri, e lui era il capitano.
Il difensore si guardò le scarpe, adirato. Per quanto tempo ancora avrebbe dovuto portarsi dietro le conseguenze di un momento sconsiderato? E ora anche Gino – che prima lo aveva difeso – glielo rinfacciava? Si alzò in piedi con un movimento brusco che il ginocchio convalescente non gradì e si diresse a lunghi passi verso lo spogliatoio.
***
 
“E questa è la formazione di domani,” concluse l’allenatore elencando gli undici titolari che avrebbero disputato la sfida contro il Giappone. La riunione tecnica era finita. “Siete qui per rappresentare il vostro paese e, se domani giocherete come oggi in allenamento non vedo chi potrebbe esserne fiero,” li aveva apostrofati, alzandosi in piedi. Aveva posato uno sguardo severo e preoccupato su ognuno di loro, ma ognuno aveva abbassato gli occhi per non incontrarlo. “Le cose a volte si mettono terribilmente male, ragazzi, ma questo non significa lasciarsi condizionare dagli eventi senza neppure provare a riprenderli in mano,” aggiunse addolcito, ma non meno verace. Li aveva creduti maturi, capaci di gestire le proprie individualità, capaci di essere una squadra. Li aveva creduti già professionisti. E invece erano solo dei ragazzi.
 
Alessio era stato velocissimo a farsi la doccia. C’era un silenzio quasi surreale nello spogliatoio, ora che anche Christian si era deciso lavarsi e aveva smesso di ciarlare per conto suo. Il vice-capitano, le mani in tasca e la felpa allacciata fino al meno, si lasciò andare su una panca, intento a osservare le macchie del pavimento. Aveva cercato Gino con lo sguardo, per sedersi vicino a lui e magari assorbire un po’ della sua fermezza e buttare fuori le sue inquietudini, ma il capitano era uscito dallo spogliatoio dietro il mister e, evidentemente, non era ancora tornato. Probabilmente se lui e Gentile non si fossero infortunati le cose non sarebbero andate in maniera così disastrosa. Non erano una squadra fatta per vincere, con buona pace di quelli che erano pagati per fare prognostici e li avevano dati come favoriti. Ma il problema contingente non erano le doti tecniche o quelle tattiche: era la disposizione d’animo. La squadra si era sfaldata sotto i loro occhi e la crisi in cui li aveva buttati l’infortunio di Gino e Salvatore era diventato un baratro dal quale pareva impossibile risalire. Era già un miracolo che non si stessero sbranando a vicenda.
“Dov’è Gino?” gli chiese Angelo con il borsone già in spalla.
“Probabilmente è andato a dare il tormento al mister perché lo lasci giocare domani,” rispose Alessio, sollevando giusto gli occhi. I capelli scuri ancora umidi lo facevano sembrare un pulcino. Angelo scosse la testa per poi avviarsi verso l’uscita: in quei due giorni Gino si era praticamente messo al suo servizio in allenamento, gli era stato attaccato come la sua ombra, sempre a incoraggiarlo e ad aiutarlo in ogni modo. Per poi chiedere al mister di giocare al suo posto. Sorrise: non sapeva che pensare del suo capitano, ma il modo di fare di Gino era così sincero che non gli poteva voler male.
“Sembra l’unico a essere ansioso di giocare domani,” sospirò Fabio. Sarebbe stato più tranquillo anche lui ad avere Gino a difendere la loro porta. Non che Angelo non fosse altrettanto capace, anzi. Ma Gino era diverso per quello che riusciva a dare loro come squadra. E anche aver accanto Gentile non sarebbe stato male, aggiunse fra sé e sé. Sarà anche spigoloso, ma sa il fatto suo, maremma impestata!
“Non l’unico,” mormorò Salvatore, come a confermare i pensieri del suo compagno di reparto.  
“Solo che tu non manchi a nessuno, Gentile,” lo apostrofò Nicola astioso.
Il libero continuò a sistemare il proprio borsone senza degnarlo di uno sguardo. Fabio gli passò di fianco e gli batté una pacca sulla spalla, proseguendo poi verso l’uscita. Gesto che lasciò Salvatore con le mani mezz’aria, incredulo di ricevere un segno di incoraggiamento.
“A me non dispiacerebbe se foste in campo,” aggiunse Alessio a bassa voce. “I vostri infortuni sono stati un bel casino.”
“Ma lui non si è limitato a far casino solo con l’infortunio,” rincarò Nicola, puntando addosso a Gentile un dito accusatorio. Aveva odiato l’atteggiamento che Salvatore aveva avuto durante quella trasferta sin dal primo momento: aveva messo tutti in imbarazzo alla Cerimonia di Inaugurazione, aveva coinvolto la squadra nelle sue sfide private e poi li aveva mollati nella merda fonda. E durante gli allentamenti era sempre stato pronto a puntualizzare gli errori che loro commettevano con quell’aria da senza di me in campo non sapete neanche giocare, finendo per rendere lo spogliatoio ancora più invivibile. E ora se ne stava a lagnarsi perché lui – poverino! – non avrebbe potuto giocare. “Ogni tanto mi chiedo se sei stronzo di tuo o hai studiato per diventarlo.”
“Che cazzo ne sai tu di me?” replicò Salvatore, fulminando Nicola con lo sguardo.
“So che sei uno sbruffone a cui non frega un cazzo del resto del mondo, ecco cosa so!” Nicola si mise a gambe larghe, i piedi ben piantati a terra e le braccia incrociate. Era incapace di soffocare ancora una volta l’amarezza che aveva dentro. Tanto ormai che differenza fa?
“Smettetela!” Alessio alzò il viso, ma non la voce a sufficienza perché lo sentissero. Si guardò intorno, ma Gino non era ancora rientrato. Era calato di nuovo il silenzio e il rumore attutito dell’acqua che scorreva dalle docce riusciva solo in parte a soffocare le stonature di Christian.
Nicola fece un passo verso Salvatore: “Non ti sopporto più, Gentile! Mi stai sull’anima, tu e le tue uscite da prima donna, da io so’ io e voi non siete un cazzo, ok? Mi sta ancora sul gozzo la figura di merda che ci hai fatto fare alla cerimonia di inaugurazione in cui sembravi voler spaccare il mondo! Com’è che avevi detto? Arriveremo imbattuti alla sfida con il Giappone! Con l’unico risultato che nella prima partita ti sei fatto spaccare un ginocchio. Per non dire il culo.”
La rabbia montò nell’animo di Salvatore: “Almeno io ho fatto quello che dovevo fare. Tu cosa aspettavi? Che la palla entrasse da sola nella rete degli avversari?”
Nicola vide l’occasione perché quella maschera di arroganza e superiorità si sgretolasse davanti ai suoi occhi. Piegò le labbra in un ghigno e ridusse gli occhi a due fessure. “Avete fatto passare tre gol e rimproveri noi attaccanti perché ne abbiamo restituiti solo due?”
Salvatore serrò la mandibola. Si sentiva già abbastanza male per conto suo senza che qualcuno glielo rinfacciasse. Lo sapeva che non era stata una delle sue partite migliori: era entrato in campo teso e pieno di aspettative. Ma non si era mai tirato indietro, neppure per un minuto, e i risultati della sua caparbietà se li portava addosso. “Peccato che quella partita è stata giocata per i tre quarti del tempo nella nostra metà campo, dato che siete in grado solo di partire in contropiede, ma non sapete costruire un’azione neanche se ve la disegnano con riga e squadra.”
“Sai una cosa, Gentile? Fai tanto il fenomeno, ma le difese dell’Uruguay e del Messico mi hanno dato molto più filo da torcere di quanto abbia mai fatto tu alla Juve. Forse non sei poi così bravo come vuoi far credere.” Il sorriso e il tono di Nicola avevano varcato il sottile confine tra il sarcasmo e la cattiveria.
“Almeno che io sia bravo qualcuno lo crede, tu lo devi ancora dimostrare,” lo derise il difensore, le dita così strette da mordere i palmi delle mani.
“Ragazzi, piantatela!” Alessio provò a suonare perentorio, ma non riuscì a nascondere una nota lamentosa nella voce. Gino, dove sei? Era un tipo riservato, Nicola, non era da lui comportarsi in maniera così aggressiva. Doveva avere i nervi a fior di pelle. Mentre Gentile ci vive con i nervi a fior di pelle.
“A forza di urlarlo a tutti, qualcuno ci è cascato,” riprese Nicola, sempre più furioso perché doveva farglielo mangiare quel sorrisetto del cazzo, farglielo sparire dalla faccia e godere mentre raccoglieva i denti da terra, uno per uno.
“Perché queste illazioni hanno il retrogusto amaro dell’invidia?” Salvatore aveva ormai perso ogni vestigia di quell’autocontrollo di cui andava tanto fiero.
“Invidia di cosa? Io almeno in campo c’ero,” gli rinfacciò Nicola.
Decisivo, visto il risultato finale.”
“Ragazzi, basta!” li supplicò Alessio, sgomento della brutta piega che aveva preso quella discussione. Si guardò intorno, ma i pochi rimasti nello spogliatoio non parevano aver intenzione di mettersi in mezzo. E Christian che non contava perché ancora sotto la doccia. Sono io a dover fare qualcosa, si disse. Senza Gino, sono io il capitano.
“Senza di te in campo non saremo riusciti a vincere, ma almeno non abbiamo perso.”
“Ti ricordo che facciamo parte della parte della stessa squadra, casomai te ne fossi dimenticato. Si perde o si pareggia anche dalla panchina,” replicò Gentile.
“Cosa sentono le mie orecchie! Hai per caso imparato a contare fino a ventitré? Ce ne hai messo di tempo per andare oltre l’uno...”
“Cosa che sembra tu abbia dimenticato, invece.” Il tono di Gentile grondava sarcasmo. “O forse non ci sei mai arrivato, dato che, usando mani e piedi, si arriva solo a venti.”
Nicola lo spinse con tutto il peso del suo corpo mandando il difensore a rovinare contro la fila degli armadietti dietro di lui. Quindi gli si buttò addosso e iniziò a tempestarlo di pugni senza un obiettivo preciso perché la rabbia era ormai tale da renderlo cieco.
Salvatore, preso alla sprovvista dalla furia del compagno, chinò il capo e incrociò le braccia davanti al viso per difendersi, ogni muscolo del suo corpo contratto, ogni fibra del suo essere in attesa del momento opportuno per contrattaccare.
***
 
Gino chiuse la porta alle sue spalle. Un sospiro trattenuto troppo a lungo lasciò le sue labbra: aveva sperato fino all’ultimo che il mister lo inserisse nella lista dei titolari, ma non l’aveva fatto. Così gli aveva chiesto di giocare per l’ennesima volta. E per l’ennesima volta l’allenatore gli aveva risposto picche. “Non tutte le partite si giocano in campo,” gli aveva detto.
“Ma io non so più cosa devo fare!” Gino aveva allargato le braccia, disperato. Li aveva ascoltati i commenti dei suoi compagni, uno a uno, e alla fine si era dovuto arrendere al fatto che le sue parole non servivano a nulla.  
 
Domani c’è l’ultima partita e poi finalmente sarà finita! Non ne è andata dritta una, Gino, una! Lo so che voi non chiedereste altro che giocare, ma alla fine saremo noi a prenderci tutte le critiche e i fischi. A sentire per la milionesima volta che se voi foste stati in campo le cose non sarebbero andate così. E a fare schifo perché ormai non siamo neanche in grado di fare un allenamento decente, figurati una partita!
 
Ogni mossa che faceva sembrava sbagliata: prima l’infortunio, poi la sua insistenza nel voler giocare a tutti i costi di cui qualcuno si era stizzito – che l’arroganza di Gentile sia contagiosa? –  e poi cercare di mettere una pezza anche a questo. Giocare – scendere in campo insieme a loro – ormai era l’unico modo che aveva per far sapere che era parte della squadra. Che era ancora il loro capitano.  
 
Non lo so, Gino. È solo che a volte sembra che ci siate tu e Gentile da un lato e il resto della squadra dall’altro. Lo so bene di cosa siete capaci, ma è come se noialtri fossimo di contorno, buoni solo a prenderci il biasimo. Anche da parte del mister.
 
Avevano perso la voglia di giocarsela. E, come se non bastasse, le animosità fra i vari componenti stavano prendendo il sopravvento su qualunque tipo di spirito di squadra e di buon senso. Gino non si era mai trovato in un frangente tanto critico: era da una vita che giocava a calcio e di situazioni difficili ne aveva vissute tante, ma nulla che avesse a che fare con questa.
 
La partita con il Giappone è domani e non siamo noi quelli che ci sono arrivati imbattuti. Lo so che è un pensiero irrazionale, ma è un peso che non dovremmo portare.
 
L’anno prima erano arrivati secondi all’Europeo, dietro solo a una Germania travolgente contro cui però avevano giocato alla grande. Avevano perso, ma avevano lottato fino alla fine con le unghie e con i denti. E benché la squadra fosse rimasta grosso modo la stessa, l’avventura World Youth, iniziata già dalle amichevoli disputate durante la stagione precedente, non era partita nel migliore dei modi. La squadra si era pian piano persa: molti sembravano più interessati a mettersi in mostra che a fare del proprio meglio. O forse si erano solo montati la testa e avevano creduto di essere migliori di quello che erano in realtà. Gino, l’umiltà, l’aveva imparata in molti modi. Una delle lezioni più significative gliela aveva data Tsubasa in quella malaugurata occasione di alcuni anni prima, in cui il loro allenatore aveva deciso di non disputare l’amichevole di allenamento con il Giappone e il capitano nipponico aveva dribblato tutta la squadra e gli aveva segnato una rete che l’aveva lasciato senza parole. Aveva quindici anni allora, meno sale in zucca e anche meno discernimento, ma quella che per la sua squadra era diventato un’onta da lavare con il sangue, per lui era stata la scoperta che un degno avversario – nonché qualcuno che amava il calcio quanto lui – si poteva nascondere dietro qualunque faccia. Solo un anno dopo un’altra persona gli avrebbe segnato alla stessa maniera un goal nonché l’inizio di una delle amicizie più importanti della sua vita. E, avendo visto giocare l’intera formazione giapponese, non aveva dubbi che anche gli altri non mancassero di determinazione né, tantomeno, di capacità. Erano una bella squadra, pronti a darsi man forte gli uni con gli altri. Cosa che loro, al momento, non erano capaci di fare.
 
“Non sei nelle condizioni di giocare e non avrebbe alcun senso rischiare di aggravare il tuo infortunio per una partita il cui risultato non cambierà lo stato delle cose,” gli aveva ripetuto il mister per l’ennesima volta.
“In una partita c’è più del risultato, mister,” aveva insistito Gino.                                                                     
“Te lo concedo, Gino,” aveva sorriso l’allenatore e per un attimo Gino pensò di averla spuntata. “Ma perché dovrei scegliere l’unico portiere infortunato quando ne ho altri due a disposizione?”
Gino abbassò lo sguardo. “Non è una questione di gioco, mister. È quello che potrei dare in campo che potrebbe fare la differenza.”
Francesco Rocca lo aveva studiato per un lungo momento. “È possibile,” aveva risposto. “Ma questo non mi farà cambiare idea. Sarai anche il capitano, ma non puoi essere l’unico a preoccuparsi dei problemi della squadra e a perderci il sonno per risolverli.” L’allenatore si era avvicinato e gli aveva appoggiato le mani sulle spalle: “Non devi vedere questa esclusione dalla rosa come una punizione perché non lo è. I tuoi compagni devono imparare a prendersi le loro responsabilità. È facile dare la colpa all’infortunio tuo e di Gentile per i loro insuccessi, quando avrebbero dovuto rimboccarsi le maniche e darci dentro. Poi magari non avremmo comunque passato il turno, ma c’è modo e modo di perdere.”
“Un quarto d’ora, mister!” Gino lo guardò con occhi speranzosi. “Solo un quarto d’ora.”
***
 
Gino rientrò lentamente verso gli spogliatoi. Aveva bisogno di una doccia, di togliersi di dosso il sudore e la polvere dell’allenamento e, magari, di togliersi tutti i pensieri dalla testa. Mai come ora invidiava il pensatoio del professor Silente. Afferrò la maniglia della porta con un sospiro quando all’interno sentì un gran baccano. Spalancò la porta e vide gli arti intricati e scomposti di due che si stavano azzuffando. “Che diavolo state facendo?” Scattò come una molla: schivò una panca e si buttò incautamente in mezzo ai due litiganti. “Datemi una mano, cazzo!”, urlò ai presenti cercando di evitare di diventare parte integrante della rissa. Alessio e Marco presero Nicola da sotto le braccia e lo tirarono via mentre si divincolava e continuava a tirare calci e pugni all’aria, soffiando come un gatto arrabbiato, finché non si rese conto che era finita.
Rimasero cristallizzati in quell’attimo in cui la follia della scena divenne palese a tutti quanti, quando arrivò Christian con l’asciugamano legato in vita: “Mi sono perso qualcosa?”
 
Al commento di Christian il tempo ricominciò a scorrere.
“Che diavolo vi è saltato in mente?” la voce di Gino vibrava di rabbia. Salvatore abbassò il viso.
“Che cazzo vuoi, Gino?” Nicola, ormai innocuo, si divincolò dalla presa degli altri due. “Si può sapere che cazzo vuoi?”
“Cosa voglio io?” Il capitano guardava alternativamente tutti i presenti. “Vi rendete conto di cosa avete appena combinato? Se lo venisse a sapere il mister…”
“E sarai tu ad andarglielo a dire?” lo incalzò Nicola astioso.
“Quello che succede nello spogliatoio rimane nello spogliatoio, lo sai bene.” Gino inspirò profondamente. “Domani abbiamo la partita…”
“Chissenefrega, Gino,” rispose Nicola, la voce ormai stridula. “Tanto ormai non cambia niente.”
Erano le stesse parole che gli aveva detto il mister, ma a Gino non sembravano più ragionevoli perché tutti continuavano a ripeterle. Anzi, stavano diventando snervanti.
“Anche voi la pensate così?” Girò lo sguardo sui suoi compagni, uno sguardo deciso che fece abbassare gli occhi a ciascuno di loro. “Veramente per voi la partita di domani non vale niente? Eravamo partiti convinti che le cose sarebbero andate diversamente, ve lo concedo. Ma non riesco a concepire che abbiate mollato così, che non vi importi della maglia che portate, di far parte di qualcosa che è più grande di noi o anche solo di scendere in campo a giocare per divertirvi se non per vincere.”
Erano rimasti tutti fermi ad ascoltare Gino in silenzio, immobili come statue di sale. Era sempre stato pacato e amichevole e nessuno di loro lo aveva mai visto così infuriato. Rimasero immobili mentre Gino si spogliava dei panni sporchi dell’allenamento, mentre trafficava nell’armadietto e nel borsone per prendere le sue cose e nessuno si mosse finché non si diresse a farsi la doccia.
 
Quando rientrò lo spogliatoio era vuoto. Prese un asciugamano e se lo passò sul viso, quindi si strofinò vigorosamente i capelli. Si sentiva vuoto proprio come quella stanza. Non era abituato ad arrabbiarsi e quella sensazione di terra bruciata che gli aveva lasciato dentro gli era completamente estranea. Aveva perso la testa proprio nel momento in cui avrebbe dovuto mantenerla e non era così sicuro che una sfuriata, in quel clima così teso, fosse stata la soluzione migliore.
Si sedette su una panca, l’asciugamano abbandonato tra le sue mani. Sentì un brivido di freddo, così si deterse le goccioline d’acqua che gli erano rimaste caparbiamente attaccate addosso. Quindi lo posò sulla panca. Si sentiva troppo svuotato anche solo per vestirsi o per fare qualunque altra azione. La passività assoluta in quel momento sembrava un’ottima alternativa.
C’era rimasto di sasso quando aveva visto che Salvatore era stato uno degli responsabili dello scontro: non era mai stato il tipo da rissa, né da parteciparvi né da sedarle. Anzi, aveva sempre detto che se qualcuno era così stupido da voler risolvere le cose a cazzotti, tanto valeva che ne prendesse parecchi. Ma nel mondo dei contrari in cui era finito, anche questo aveva senso. Un mondo dei contrari che pareva essere cominciato due notti prima, quando aveva chiuso gli occhi e si era lasciato cullare dalle leggere carezze che Salvo gli aveva posato sulla sua schiena. Mentre erano fuori sul balcone c’era stato un momento in cui aveva temuto – e sperato, cazzo!, perché doveva sperarci? – che lo stesse per baciare. Non avrebbe avuto la volontà di fermarlo e neanche la forza. Anzi, aveva desiderato uno di quei baci dolci e intensi che arrivano a scaldarti l’anima. Poi Salvatore gli aveva guidato il viso sulla sua spalla e lì Gino aveva sospirato perché aveva bisogno di appoggiarsi a qualcuno ed era bellissimo che quel qualcuno fosse proprio lui.
 
Salvatore rimase a fissare Gino dalla porta dello spogliatoio. Aveva preferito rimanere indietro e lasciare detto agli altri che sarebbe tornato a piedi. “E Gino?” aveva chiesto Alessio preoccupato, lo sguardo verso le docce. “Mi assicurerò che torni sano e salvo,” aveva commentato ironico Gentile. Così se ne erano andati e li avevano lasciati soli.
Salvatore non era sicuro che fosse stata una buona idea, la sua. Aveva cercato di evitare di stare da solo con Gino dopo quella notte: non sapeva dove le parole, le azioni e le emozioni lo avrebbero portato. Meglio evitare il confronto. Fino a quel momento almeno. Aveva già visto Gino arrabbiato – e sempre per causa sua – ma mai infuriato come quel pomeriggio. E sapeva di avere le sue colpe: non tanto per come era andata a finire la discussione con Nicola, quanto per i motivi per cui era cominciata.
 
Non disse una parola, ma Gino sollevò lo sguardo fino a incrociare il suo. Sostennero lo sguardo l’uno dell’altro per un lungo momento – iridi azzurre e iridi grigie – per poi distoglierlo contemporaneamente. Salvatore deglutì forzosamente: non sapeva cosa dire. Anche Gino rimase in silenzio, i gomiti appoggiati le cosce, gli occhi che fissavano le dita incrociate. Credeva di essere rimasto da solo. E invece…
Salvatore si sedette sulla panca di fronte a lui. “Ho promesso ad Alessio che ti avrei riportato in albergo sano e salvo.” Era una cosa stupida da dire, ma aveva bisogno di rompere il ghiaccio.
Gino non si mosse. “Credo di farcela anche da solo.”
“Su questo non ho dubbi,” ironizzò Salvatore senza muoversi di un millimetro.
Gino sospirò. Se davvero parlare con i compagni era l’unica cosa che gli restava da fare, allora tanto valeva che provasse a dipanare la situazione. “Che è successo prima?”
Salvatore si strinse nelle spalle. “Quell’idiota mi è saltato addosso”.
“E prima ancora?”
“Non sono affari tuoi.”
“Credo proprio di sì, invece. Ma se preferisci parlare con Alessio, ti mando lui.” Gino serrò le mandibole. “In fin dei conti, è lui il capitano ora.”
Lo sguardo di Salvatore gli trapassò gli occhi. “Non dire cazzate. Lui è quello che ora, incidentalmente, porta la fascia.”
Gino sollevò le sopracciglia: “Credevo che per te non facesse differenza.”
“Dipende dal tizio in questione, credo.” Salvatore sorrise suo malgrado. Avrebbe voluto toccarlo, anche solo appoggiargli una mano sulla spalla, ma sentiva come una barriera tra loro due che lo avrebbe respinto in maniera ineluttabile.
“Allora, ti va di parlarne?”
No, si disse Salvatore. Aveva fatto un giro lungo il perimetro del campo e l’aria fresca gli aveva portato consiglio. L’irrequietudine che sentiva dentro aveva radici ben più profonde della lite di quel pomeriggio: fino a quel momento, Salvatore non aveva pensato che la scenata fatta alla Cerimonia di Inaugurazione avesse potuto avere tali conseguenze nello spogliatoio. E quelle cose, che Nicola gli aveva detto, gli avevano fatto troppo male per non essere vere. Aveva sbagliato tutto da quando era partito dall’Italia: ogni singolo pensiero, parola, opera e omissione. Ed era troppo tardi per rimediare.
“Sei l’unico che avrebbe dovuto pretendere seriamente delle spiegazioni per quella sera,” esordì il difensore a voce bassa. Non avevano mai parlato di quello che era successo dopo, ma, anche se Gino sembrava averlo perdonato, probabilmente non aveva dimenticato. Improvvisamente sentì un grandissimo bisogno di scusarsi, anche non era tipo da chiedere scusa, lui. Forse, per una volta, avrebbe anche potuto ingoiare l’orgoglio. Tanto la dignità, con Gino, se l’era già giocata.
“Eri ubriaco,” tagliò corto il numero uno della nazionale. Non voleva ricordare quella sera, voleva chiuderla in un recesso della mente e lasciare che svanisse, come se non fosse mai accaduta.
“Sì, ero ubriaco, ma la colpa non era solo dell’alcol.” Salvatore, spazientito, si sedette di fianco a lui. “È che avevo perso la testa.”
“Come oggi?”
Il difensore annuì. Maledetto Hernandez! Come faceva a tenerlo lontano se averlo vicino era così… così… “Scusa.”
Gino si voltò, le labbra piegate in un sorriso che non arrivava a illuminargli gli occhi. “Dovresti dirlo a Nicola, non a me.”
“Non per oggi.” Un’espressione di genuina sorpresa si dipinse sul volto di Gino, ma Salvatore, gli occhi persi lontano, proseguì imperterrito. “Ho combinato un sacco di casini quella sera e tutti ne sono più o meno risentiti o incazzati e hanno trovato ogni modo per farmelo sapere. Eppure tu, che sei quello con cui più di tutti ho sbagliato, non mi hai mai rinfacciato niente né chiesto spiegazioni.”
“Rimuginare su quanto è successo non cambierà le cose. Eri ubriaco e tanto basta.” Lo sguardo di Gino diventò ancora più cupo, se possibile. “E mi sentivo in colpa per la doccia fredda.”
“Immaginavo,” rispose Salvatore. “Rimboccare le coperte ai compagni di squadra ubriachi non fa parte del mansionario del capitano perfetto.”
Il sorriso di Gino si fece un po’ meno finto. “Non credevo ti fosse rimasta abbastanza lucidità per ricordarlo.”
“Quando mi sono svegliato nel mio letto, non è stato difficile dedurre chi ne fosse responsabile.” Si voltò per osservare meglio il portiere: aveva la faccia stanca, tirata.
“Mi hai fatto preoccupare, sai?” Gino si voltò verso di lui e si sorresse il viso con il palmo della mano. “Eri conciato davvero male.”
“E non eri incazzato per quello che avevo combinato prima?” Per un momento il viso di Gino aveva recuperato l’abituale espressione tranquilla e serena. Suo malgrado, Salvatore sorrise. “In fin dei conti è stata troppo stupida anche per i miei standard di arrogante, saccente e superficiale.”
“Eri ubriaco.” Hernandez continuava a ripeterlo come se fosse un mantra, come se quelle due parole fossero la causa, la giustificazione, la spiegazione, l’assoluto. Non voleva fare spazio per altri motivi che avrebbero creato ancora imbarazzo, illusioni e inevitabili delusioni.
“Non abbastanza, evidentemente,” replicò acido il difensore. Non abbastanza da dimenticare tutto. Anzi, con l’andare dei giorni aveva l’impressione che le immagini diventassero più vivide e le sensazioni più confuse, come se quello che era successo e quello che avrebbe voluto si stessero mischiando nella sua testa, tanto da non saper più distinguere i sogni dai ricordi.
“Si fanno cose stupide da ubriachi,” ripeté Gino. Era troppo per i suoi nervi stremati.
“È questo che è stato per te? Una cosa stupida da ubriachi?” Il tono del difensore si fece improvvisamente serio.
Gino lo guardò con gli occhi sgranati, il cuore – bastardo – a mozzargli il respiro in gola. Per te no?
Gentile si passò la mano sul viso. “È vero: ero ubriaco, irrazionale, arrabbiato, stordito... ma non così rincoglionito da non sapere cosa stavo facendo.” Provò a deglutire, ma la bocca secca non volle collaborare. Salvo schiuse appena le labbra: era ora di parlare e di chiarirsi, era ora che Gino sapesse che non poteva comportarsi così con lui perché lo avrebbe fatto impazzire. Che doveva smettere di avvicinarsi sempre di più se non era disposto a lasciarsi avvicinare a modo suo. Che doveva smettere di fare il buon capitano con lui o di improvvisarsi buon amico perché quello che aveva dentro, Salvo, non l’aveva mai provato né con altri suoi capitani né con altri suoi buoni amici. “Hai detto che ne avremmo parlato alla fine del World Youth, ma ormai non cambia molto, non trovi?”
“Tecnicamente non è ancora finito,” ironizzò Gino. Avrebbe fatto di tutto per rimandare quella discussione, anzi per evitarla. Perché le parole del difensore lo distraevano, lo costringevano a risentire il calore e la tenerezza dell’abbraccio di quella notte, quanto ad un certo punto i loro volti fossero stati a portata di labbra. Gli facevano risentire parole brusche e offensive che tante volte lo avevano ferito. Gli facevano rivivere quei turbamenti e quelle contraddizioni che quella sera avevano messo radici nel suo animo. Gli forniva indizi per una supposizione che no, non poteva essere, ecco. “Lascia perdere, Salvo, davvero.” Il portiere si alzò in piedi, prese una maglietta pulita dal borsone e se la infilò. “Dimentichiamocene.” 
“No.” Salvatore non avrebbe mai potuto dimenticare le sue labbra. E la rabbia, la gelosia, l’imbarazzo, la vergogna, il freddo e quella sensazione di tenerezza che lo aveva avvolto come una coperta. Perché Gino stava rendendo le cose ancora più difficili?
“Perché no?” chiese Gino, serio. Il battito del cuore era accelerato e un fremito si trasmetteva alla sua voce. Aveva paura di sapere e allo stesso tempo la voglia di cedere alla curiosità divorava la sua forza di volontà. Sapeva che tutto era sbagliato: dal fatto che quello fosse Salvatore Gentile al fatto che fosse un compagno di squadra... la tua capacità di innamorarti degli stronzi è impagabile, gli diceva sempre sua sorella. “Cosa è stato per te?”
Il difensore scosse la testa, una risatina nervosa gli piegò le labbra in un ghigno sardonico. Si alzò in piedi di scatto, la figura severa inquietante nella penombra dello spogliatoio. “Sei un chiodo fisso, Hernandez, lo capisci? Un chiodo che non va né avanti né indietro. Ma sei lì e non ti sposti e io non so che cazzo devo farci. Hai capito ora?”
Salvatore uscì dallo spogliatoio con ampie falcate. In fin dei conti Hernandez era grande e vaccinato e sicuramente in grado di tornarsene in albergo da solo.
***
 
Salvatore si fermò di fronte alla porta, inspirò a fondo e bussò due colpetti secchi con le nocche.
“Avanti,” si sentì dire dall’altro lato. “Ah, Gentile, sei tu. Entra pure,” lo invitò l’allenatore, indicandogli la sedia libera di fronte a sé.
Salvatore appoggiò i palmi delle mani alla scrivania. “Mister, mi faccia giocare.”
L’allenatore scosse la testa. “Gentile,” sospirò. “Anche se il tuo ginocchio sta meglio, non è una partita in cui sacrificare degli infortunati. Perdere o vincere non cambierà le cose, quindi tanto vale che tu completi il tuo periodo di convalescenza e, al ritorno, riprenda a pieno ritmo gli impegni sportivi con la tua società. La tua presenza in campo non cambierebbe comunque le cose.”
“Mister, per favore.”
L’allenatore studiò l’espressione di disappunto sul volto del difensore per un lungo istante. Appoggiò i gomiti sul tavolo e allineò le dita delle mani, polpastrello contro polpastrello. “Perché vuoi giocare, Gentile? Dammi una buona ragione per farmi cambiare idea.”
Per come la pensava Salvatore, la sfida con Aoi – da sola – sarebbe già stata un’ottima ragione, ma dubitava che il mister avrebbe compreso.
“È per quel conto in sospeso che hai con quel giapponese che gioca nella Primavera dell’Inter? Dovete concludere quella stupida sfida con cui avete quasi fatto finire in rissa la Cerimonia di Inaugurazione?”
Appunto. Gentile scosse il capo deciso. “No!”
“Perché insisti così tanto, allora?” L’allenatore lo squadrò da capo a piedi. “Dammi una buona ragione per farmi cambiare idea, avanti.”
Salvatore serrò i pugni, silenzioso. Non era più solo per la sfida con Shingo. Aveva ancora qualcosa di suo da dare in quel torneo. Anche se non avevano più possibilità di vincere, voleva almeno giocare un’altra volta. “Ho capito dove ho sbagliato.” La voce si era fatta più bassa. “Quella sera, alla Cerimonia di Inaugurazione, con le mie parole e il mio comportamento ho coinvolto tutta la squadra e credo di aver favorito l’instaurarsi di questo malanimo che...” … oggi è esploso. Si passò nervosamente una mano fra i capelli. “Devo fare qualcosa per rimediare.”
Francesco Rocca sollevò le sopracciglia: una così plateale ammissione di colpa da Gentile non se la sarebbe mai aspettata. Non che quel ragazzo non fosse in grado di assumersi le proprie responsabilità, certo, ma questa dichiarazione aveva richiesto un grado di riflessione di cui non lo aveva ritenuto capace. “E credi che giocare questa partita rimetterebbe a posto le cose? Non pensi che i tuoi compagni potrebbero vederlo come il coronamento di un tuo capriccio?”
“Non mi importa.” Salvatore alzò il viso, strafottente, e guardò l’allenatore dritto negli occhi. “Che pensino quello che vogliono. Io vorrei solo condividere con loro l’onere di una partita che danno già persa in partenza e prendermi la mia parte di responsabilità. Vorrei essere lì a combattere perché loro sono rassegnati a non farlo.”
“Sei molto severo con i tuoi compagni.” L’allenatore si passò una mano sulla barba appena accennata. “E sei molto consapevole delle tue capacità che, indubbiamente, sono notevoli, ma non miracolose.” Sorrise, gli occhi accesi da una scintilla d’ironia. “Tuttavia mi porti una contraddizione: vorresti giocare per condividere il fato dei tuoi compagni, ma allo stesso tempo non ti interessa cosa ne pensino. Ti dirò cosa ne penso io, allora: ti senti in colpa e vuoi solo tacitare la tua coscienza.”
“E cosa ci sarebbe di male?” chiese il difensore, più brusco di quanto avrebbe voluto.
“Nulla.” Il mister alzò le spalle. “Solo che mi piace chiamare le cose con il loro nome.”
Salvatore attese in silenzio.
“Che ti succede, Gentile?” Il tono dell’allenatore si era fatto più morbido, preoccupato. “C’è qualche problema al di fuori della squadra?”
Salvatore incrociò le braccia, sulla difensiva. “Perché me lo chiede?”
“Perché una presa di coscienza come questa – che personalmente apprezzo molto – non arriva in modo indolore.”
Salvatore piegò appena le labbra in un sorriso amaro. Che avrebbe dovuto rispondergli? Che si era preso una sbandata per un suo compagno di squadra e la cosa gli aveva fritto il cervello? Che il rapporto con i suoi genitori era allucinante? Che il calcio era l’unica cosa che ancora aveva un senso?
“La prego, mister: questa non è solo una partita.”
“Buona notte, Salvatore”, lo congedò. Lo osservò andarsene lentamente e chiudere la porta con un tantino di veemenza in più del necessario.
Non hai tutti i torti, Gentile, si disse tra sé. Non è mai solo una partita.
***
 

Nota dell'autrice:

Non ci credevate più, vero? Neanch'io. No, non sto scherzando. Riprendere a scrivere dopo 4 anni di completa inattività è stato molto difficile... per fortuna che gran parte del materiale era già pronto, ma anche solo rimetterci le mani è stato un trauma. Comunque siamo qua...e vediamo che succederà!
Grazie a tutti quelli che hanno seguito questa storia in passato e a chi, nonostante tutto, continuerà a seguirla!
Un abbraccio!
   
 
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