Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Diana LaFenice    14/11/2017    0 recensioni
Al tempo in cui il Medioevo si scambia di posto col Rinascimento, Agostino è soltanto un bambino quando la sua vita cambia per sempre e, con la sua famiglia, si trasferisce a Sirmione per sfuggire alle malelingue sul suo aspetto: a causa di un forte shock parte dei suoi capelli sono diventati bianchi.
Il suo peregrinare finirà quando lo zio lo accoglierà presso di sè a Castel Toblino, ove troverà impiego come giardiniere. Il suo intento, infatti, è quello di ricreare il Giardino dell'Eden proprio lì, nel parco del castello. Ma non sarà facile.
L'amore per i fiori e la natura, che condividerà con molte persone, intrighi, superstizioni, maledizioni, una creatura misteriosa la cui voce angelica che risuona nelle notti della bella stagione, e pericoli di varia natura, fanno da cornice alla vita del giovane giardiniere, all'incredibile storia che vivrà e a una leggenda quasi dimenticata il cui unico ricordo è ormai la spilla su cui aleggia: quella di un giovane amore sbocciato sulle sponde di un lago minacciato dai pericoli del suo tempo e l'espiazione di un cavaliere.
Questa è la Leggenda delle Stelle d'Acqua.
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 4: Farsi ben volere


I
primi tempi a Sirmione furono difficili per la famigliola. Come profetizzato da Guido, i gusti del suo vecchio amico non erano cambiati. E la donna poté così rilassarsi. Ma non completamente. Le persone cominciarono presto a spargere malelingue addosso a loro. E al fatto che Montino avesse ospitato gli stranieri in casa propria. E spesso venivano guardati con diffidenza. Diffidenza che poi mutò in astio quando videro i capelli di Agostino. Il bambino, a differenza dei genitori, riuscì subito a fare amicizia con gli altri bambini del posto. Era successo quando qualche settimana dopo, che gli avevano dato il permesso di andare a vedere le rive del Garda. Sua madre l’accompagnò restando qualche metro più indietro con la serva. Dopotutto non si poteva mai sapere. Ma il bambino si era riempito gli occhi smarriti di ogni dettaglio di quel nuovo posto e poi era sfuggito alle due. Le quali in quel momento stavano acquistando delle mele a una bancarella. Fortuna che era la serva a contrattare perché i mercanti locali non parevano molto inclini a commerciare con quella bella straniera che si accompagnava al figlio iperattivo.
Molti però, domandarono a Simonetta, così si chiamava la donna, chi fosse la sua nuova amica e così la giovane faceva le dovute presentazioni. Molte persone si sciolsero un po’, solo poche continuarono a restare diffidenti. Ma nel complesso nessuno si mostrò troppo scortese nei suoi confronti.
Poi, proprio alla bancarella del fruttivendolo, Agostino non aveva più resistito ed era corso via. E lì sulla spiaggia aveva trovato un gruppo di bambini che giocavano a mosca cieca. Aveva chiesto se poteva unirsi a loro e i piccoli l’avevano accettato. Gli avevano posto qualche domanda ma non erano stati crudeli con lui come aveva sospettato e temuto. Dopotutto non li aveva mai mostrato né a Montino né alla domestica che li assisteva per paura che chiamassero l’Inquisizione. Minaccia sempre costante.
Era stato grazie a loro che aveva scoperto che alcuni audaci facevano il bagno sulle rive del Garda d’estate. Pochi perché molti continuavano a pensare che l’acqua fosse portatrice di malattie e peccato. Non solo perché una leggenda locale voleva che quel Lago l’avesse creato il Diavolo o ci fossero le Guane. Bellissimi spiriti dell’acqua femminili che avevano un piede girato all’indietro. Ma ormai questa credenza stava andando scomparendo. E ormai neanche i sacerdoti ci credevano più o li ammonivano per questo. Anzi, a volte poteva succedere che loro stessi si concedessero una nuotata nel Lago e si unissero ai propri fedeli nelle gare. A volte facevano pure qualche regata. Chi aveva una barca poteva sfidare altre persone e chi vinceva gli veniva pagato un fiasco del vino e tutte le merci più costose alla festa di primavera. Una volta lì, raccontarono i bambini, ci passò una flotta di sei galere e venticinque navi che poi vennero trainate da 2000 buoi sul Baldo. Ma da allora non c’erano più state le guerre. «Però a volte», dissero i bambini con aria di timorosa riverenza, «il Lago si arrabbia e allora è meglio starci lontani perché fa davvero paura». E che sapevano nuotare un po’tutti lì. Era una cosa che imparavano da piccoli proprio grazie a quel posto.
«Agostino!» Lo chiamò improvvisamente la madre, facendo sobbalzare tutti. I quali si volsero verso di lei. Aveva fatto la strada a corsa reggendosi le sottane. E in quel frangente, con le gote arrossate e gli occhi lampeggianti, fece più paura lei del Lago stesso. Il bambino tremò. L’aveva fatta grossa, stavolta. La donna li raggiunse a grandi passi e gli dette uno schiaffo e lo sgridò di fronte a tutti per essere scappato via così. Poi lo trascinò via verso casa, continuando a sgridarlo.
Guido ebbe un po’ meno fortuna di sua moglie. Purtroppo il passare del tempo e la stanchezza l’avevano inacidito, quindi non riuscì a farsi immediatamente apprezzare. Si sentiva come una rondine intrappolata nella stagione sbagliata. Lui dopotutto curava le piante, e lì, a parte godere delle gioie della stagione invernale al Nord, cosa poteva fare?
Col passare dei mesi piano piano tra quest’ultima e Montino si sviluppò una bella amicizia. Il vegliardo, le ricordava una specie di nonno. E sembrava davvero felice di avere loro tre per casa. E viziava tutti e tre. Anche se per il momento con l’inverno ormai giunto era difficile, per non dire impossibile, curare le piante, Guido si era dovuto cercare un altro lavoro. E per il momento lavorava presso l’oste di Sirmione, un vecchio amico di Montino, che lo aveva personalmente raccomandato. Guido temette che Montino avesse resuscitato il lato borghese della sua sposa. Niente in contrario a questo, il problema era che nella situazione in cui erano messi, lui non avrebbe potuto provvedere a lei come ella avrebbe desiderato e meritato. La stanza dove li aveva alloggiati si era riempita di abiti di tutti i tipi e tutte le fogge. Così tanti che a volte la famigliola non riusciva più a ritrovare la mobilia e il letto.
Dalle camore, cioè il capo basilare del guardaroba femminile. Camicie, cioppe o pellande, come le chiamavano lì, cioè una sopravveste maestosa e fluente che conservava la linea trecentesca di aderire garbatamente al seno e ampliarsi a ventaglio nello strascico, segnando la vita. A volte quell’ampiezza di stoffa poteva essere raccolta in pieghe piatte o cannoncini, donando ricchezza all’abito. Le maniche lunghe e ampissime, foderate di seta o pelliccia. Cotte con file di bottoni o magliette in oro e argento e nastri che tutta la chiudevano. Molto aderenti mentre le maniche spesso di colore e stoffe differenti erano alleggerite da tagli che lasciavano uscire a piccoli sbuffi la camicia. Giornee da abbinare alle sopraccitate; sopravvesti assai simili alle guarnacche trecentesca aperte davanti e sui fianchi con maniche staccate o sprovviste di quest’ultima. Tanto Montino era abbastanza ricco per permettersele entrambe. E visto che era quasi arrivato l’inverno erano foderate di pelliccia. E mantelline corte e sfarzose chiamate sbernie. Poi c’erano agoraie, borse, guanti, orologi e gioielli, bottoni, spille, calze solate, caligae, pianelle e calcagnini.
Agostino era lì e rideva di fronte alle scenette che la madre e Montino tiravano fuori per farlo divertire.
L’aveva detto tante volte, eppure dirlo non serviva allontanare il problema, per niente. Temeva di essere lasciato in qualche modo da lei. Temeva che se avesse riscoperto quel lato di se stessa il loro matrimonio e il loro amore sarebbe finito. ‹‹Cos’hai papà?›› Domandava il bambino, cercando di interpretare quel nuovo sguardo disperato e frustrato sulla faccia del genitore.
‹‹Niente. Va a giocare››.
Agostino fingeva di obbedire ma invece si nascondeva per poter vedere i genitori. Vide la madre avvicinarsi al padre, che se ne stava appoggiato al davanzale della finestra con un’aria così sofferente che non gli aveva mai visto. ‹‹Amore, cosa succede?›› Domandava la donna, invece, che sopraggiungeva subito dopo, perché non le era sfuggito lo sguardo sofferente del marito. Agostino non seppe mai che cosa succedesse. Ovviamente Montino non riservò premure solo a sua madre, ma anche a lui, che E questo gli era palese sempre più, soprattutto quando la guardava provare gli abiti e i gioielli che Montino faceva arrivare apposta per lei. E che, se fosse stato donna, sicuramente avrebbe indossato anche lui. A volte lo scherzoso Montino ce l’aveva come vezzo, quello di vestirsi da gran dama durante il carnevale. Una volta li aveva beccati mentre Montino si mostrava a lei con il costume da carnevale e la moglie che rideva a crepapelle come non rideva più da molto tempo.
«Hai così poca fiducia in me, marito mio?» Chiese lei quando smise di ridere.
‹‹Non è questo, è che...›› Lui distolse lo sguardo da lei, imbarazzato e forse anche consapevole e colpevole di aver pensato questo della sua consorte. La donna capì e lo abbracciò. Lui ricambiò, esitando, come ogni volta che Guido sapeva di essersi sbagliato e se ne vergognava: ‹‹Io non vado da nessuna parte, ricordi? Io ho scelto te.›› Sussurrò lei, rassicurandolo. Il marito respirò il suo odore e poi disse, con un sorriso che spezzò l’atmosfera: ‹‹Profumi di sapone››.
La moglie rise e gli dette un buffetto scherzoso sul braccio: ‹‹Anche tu, sciocco, ma non vedo l’ora di sapere di nuovo di terra e fiori››.
‹‹Vorresti curare di nuovo i giardini con me?›› Chiese lui guardandola rapito, il tono che gli uscì sembrò quasi quello con cui la chiese in moglie. Ai suoi occhi sarebbe sempre sembrata bellissima come la prima volta che la vide.
Gli occhi di lei brillavano come stelle, mentre teneva le braccia allacciate al suo collo: ‹‹Ora e per sempre.›› E si baciarono ma vennero interrotti da Agostino, che in quel momento li vide e rise. La donna si staccò dalle labbra del marito ed entrambi si volsero verso di lui. ‹‹Davvero riprenderete a curare le piante?››
I due si guardarono prima che il genitore dicesse: ‹‹Sì. Certo. È per questo che siamo qui››.
Il bambino si mise a fare i salti di gioia: ‹‹Sì, insegnerete anche a me?››
‹‹Certamente. Vieni qui, sciocchino.›› Fece la madre tendendo la mano verso di lui e il bambino le si lanciò addosso. E si lasciò coccolare dai genitori. A volte la signora usciva per fare la spesa con le domestiche di Montino e Agostino andava con lei. E la gente stava cominciando a vincere un po’della sua diffidenza nei loro confronti.
Fu Montino a consigliare alla famigliola di adeguarsi ai costumi del luogo e indisse addirittura una festa per farli conoscere nel vicinato. Accorsero parte della borghesia nei loro abiti variopinti e con le loro chiacchiere e pettegolezzi di paese. E i tre Monselice, agghindati a festa con abiti signorili, non parvero affatto una famiglia di umili giardinieri. Anche se era palese, dal colore bronzeo della pelle della signora, parzialmente nascosto dal belletto. Tantomeno stranieri. Anzi, spesso danzarono anche loro. Fu difficile convincere la signora a intrecciare i capelli in una maniera diversa dal solito turbante che usava quando lavorava. La povera donna era arrugginita coi rapporti sociali, perciò non seppe come intavolare conversazioni con le donne. Invece Guido se la cavò un po’meglio di lei. Venne invitato da Montino a partecipare a una discussione e riuscì a stringere qualche amicizia. Ma se si sarebbero rivelate durature sarebbe stato tutto da scoprire.
Se per caso durante la festa saltò allo scoperto, non successe niente di sconvolgente, soprattutto perché conoscevano già Montino e il suo commercio floreale.
Quella festa non sortì gli esiti sperati da Guido ma Montino lo rassicurò dicendogli che intanto si erano fatti conoscere, e che i risultati sarebbero comparsi col tempo.
Ad Agostino andò decisamente meglio. L’unica cosa che dovette effettivamente cambiare fu il suo taglio di capelli: se avessero visto quella ciocca bianca così facilmente avrebbero cominciato a fare domande. Così gli accorciarono i capelli di modo che restassero abbastanza lunghi per coprirgli le orecchie e incorniciargli il viso. E la vecchia falda venne pettinata e tagliata anch’essa, di modo che potesse sempre tenerla sotto la berretta. Il piccolo aveva protestato un po’ma se ne era fatto una ragione e si era abituato sia alla leggerezza della testa, che al freddo che gli solleticava il collo. La madre che gli aveva tagliato i capelli lo aveva rassicurato con un sorriso: «Stai davvero bene coi capelli corti.» E il piccolo l’aveva guardata con due occhioni colmi di speranza e aveva chiesto conferme che gli erano arrivate sottoforma di un bacio e di un abbraccio.
In compenso riuscì a fare amicizia con molti bambini e così piano piano fece da apripista per i propri genitori. Però tempo per la messa di Natale, i Monselice erano stati, se non altro accettati dalla comunità.
Guido in seguito trovò lavoro come cameriere presso un’osteria e cominciò a portare a casa un po’di soldi nell’attesa che l’inverno finisse. Montino buttò giù un’allegra nota di biasimo ma d’altronde che ci poteva fare per quell’orgoglioso del suo amico? Perciò scosse il capo divertito e buttò giù qualche colpo di tosse. Da Natale si era buscato il raffreddore.
«Occhio a non tirare le cuoia, Montino.» Scherzava sempre Guido, beccandosi le occhiatacce di rimprovero della consorte. Sempre prontamente ignorate. Ma l’anziano replicava a tono dicendo che nessuno nella sua famiglia era mai morto per il raffreddore, tantomeno lui. Infatti guarì con le prime giornate calde.
Soltanto a primavera la famiglia Monselice poté cominciare a lavorare davvero. Montino possedeva davvero le più grandi floricolture di tutti i tempi. Anche se come a tecniche eravamo ancora molto indietro rispetto ai tempi moderni.
Addirittura aveva in mente di ampliare le proprie serre, il suo più ambizioso e grande progetto. E i Monselice gli furono davvero di grande aiuto. Addirittura non immaginava che anche la signora si intendesse di giardinaggio e floricoltura.
Ancora meno si aspettava che stessero insegnando al figlio. Il ragazzino ci metteva impegno e lena anche se ancora non gli avevano permesso di maneggiare armi contundenti al di fuori della zappa e della vanga. O di preparare il terreno. E quando giunse il momento di raccogliere i frutti del proprio lavoro, il risultato fu strepitoso e con la paga generosa ottenuta, poterono trasferirsi in una casetta abbastanza grande per tre persone e Montino dette una mano col trasloco e a comprare la mobilia. La casa aveva annesso un piccolo giardino e delle fioriere con cui adornare il terrazzo. E la famigliola non si lasciò sfuggire quell’occasione. E nel vedere la magnificenza di quel piccolo appezzamento di terra, i vicini chiesero alla famigliola di aiutarli anche con le proprie piante ornamentali. E i Monselice li accontentarono senza pretendere nulla in cambio. In breve tempo la via dove abitavano venne rinominata la via fiorita e la voce sul loro pollice verde si sparse.
I problemi veri arrivarono l’inverno seguente. Già da quell’estate Agostino si era accorto che la mamma mal sopportava l’aria del luogo e tutta quella umidità. Non ricordava quando era successo, probabilmente una domenica, visto che la mamma e il papà l’avevano accompagnato al lago. Poi si erano rintanati all’ombra di un albero e il padre di Agostino si era addormentato come un sasso per la stanchezza.
Agostino aveva giocato tutto il tempo con gli amici, che ormai erano abituati al suo aspetto. Quando era uscito dal lago dopo il bagno con gli amici che gli stavano insegnando a nuotare, e l’aveva vista seduta sotto l’albero ad aspettarlo, e nella penombra gli era parsa verdastra. E lo sguardo assente pareva quello di un cadavere. In quel momento il vento portò alle orecchie di Agostino le parole di una canzone:
Dove ho lasciato le scarpette per il ballo?
Se le hai viste dimmi dove sono, che sono in ritardo…

Al ragazzino lì per lì tornarono in mente le canzoni che aveva sentito alle fiere ma questa era completamente diversa da ognuna di quelle conosciute. Ma quando riconobbe la voce ebbe paura: era la stessa che cantava del serpente nero. E quando la sentiva non succedeva mai niente di buono. Un brivido freddo lo scosse e gli gelò il sangue.
Non posso andare a piedi nudi
«Mamma…» Disse il piccolo, preoccupandosi. La donna lo guardò e gli sorrise, e nel farlo le guance tornarono rosee e gli occhi le si accesero: «Cosa c’è?»
«Niente».
Ma non era vero e quando giunsero i primi freddi la donna si ammalò. Agostino e Guido la tennero a letto e la fecero visitare dal medico, che giunse con la sua maschera riciclata dall’ultima epidemia di peste. Il cappello nero e gli occhiali e l’abito scuro e triste e la borsa coi medicamenti. Ma la malattia che l’aveva colpita non era una semplice influenza: quella era polmonite.
Quell’inverno fu particolarmente rigido e ciò non contribuì affatto a ritemprare la donna che alla mezzanotte di capodanno morì, lasciando soli l’amato marito e il loro adorato figlio. Venne sepolta nel cimitero di Sirmione. Ma al funerale parteciparono solo poche persone.
Ma se per gli occhi di tutti era morta una madre, per Guido e Agostino era morto anche di più. Morendo, la mamma si era portata via anche una parte di papà. E Agostino non si era mai sentito né così solo né così smarrito. Il genitore passava le giornate a fissare il vuoto e le notti a piangere. Aveva lasciato perdere la casa e gli affari. Montino sulle prime gli aveva dato tutto l’appoggio e il conforto necessario per superare questa perdita. Ma non si era azzardato oltre la semplice amicizia. Da quando aveva rivisto Guido non aveva più visto il ragazzino che incontrò anni prima, ma quel figlio che avrebbe voluto avere. Avrebbe potuto adottare molti giovani bisognosi eppure non l’aveva fatto perché sentiva che l’unico che poteva effettivamente aiutare era proprio quell’uomo di trentaquattro anni che adesso sprofondava sempre di più nel dolore. E in Agostino vedeva il nipote che avrebbe avuto. Ma ormai era troppo tardi per adottarli, quindi l’unica cosa che fece fu dedicare qualche ora al giorno ai due e cercare di stare con loro e confortarli. L’unico, in città, che avesse sufficiente confidenza con loro per sbilanciarsi così tanto.
Tutti gli altri si limitavano a qualche parola mormorata alle loro spalle, qualche condoglianza di circostanza in chiesa. Luogo che purtroppo Guido sembrava intenzionato a lasciare per ritirarsi completamente in casa.
Agostino dal canto suo cercava di pulire la casa e di occuparsi del loro ospite, qualche volta aveva cercato di trascinare suo padre fuori dalle coperte, che, col passare dei mesi non solo cominciavano a puzzare ma anche a impolverarsi. Ma per quanto implorasse o tirasse gli sembrava di avere a che fare con un altro cadavere. Era contento delle visite di Montino, che pretendeva di essere trattato come un caro parente, nonostante non lo fossero affatto. Lo faceva accomodare nel salotto dove il caminetto acceso spandeva un piacevole calore e gli serviva un po’di cibo e del vino ma la nota dolente arrivava quando doveva chiamare il padre. Ormai si vergognava così tanto che non invitava neanche più gli amici a casa propria a giocare. Ancor più di far vedere che la casa stava andando in rovina. È strano come alcuni luoghi senza la presenza di una persona diventino improvvisamente più tristi e abbandonati. Pronti a collassare su se stessi come se avessero perduto la propria colonna portante. Ecco, questo era quello che era successo a casa Monselice.
E Agostino, per quanto sentisse forte il richiamo dei fiori, non si azzardava a lasciare casa per timore che suo padre lo lasciasse definitivamente.
Montino insisteva sempre perché gli preparasse una sedia nella camera padronale di fianco a Guido, sicché potesse vegliare su quel pover’uomo e parlargli. Solo allora l’orgoglio si ridestava in lui e si accaniva contro il bambino, urlandogli di scomparire immediatamente e di lasciarlo solo. ‹‹Non voglio nessuno. Nessuno!›› Poi urlava, rivolto a nessuno in particolare: ‹‹Vattene via, lasciami in pace››.
Ormai Agostino l’aveva capito perché spesso, quando lo guardava, sembrava che guardasse qualcun altro attraverso di lui. Ma chissà chi vedeva. Non era la mamma, più probabilmente Montino che gli diceva: ‹‹Ascolta. Ascoltami, guardami. Lo so che con la morte di Giulietta›› si chiamava così la moglie defunta; Giulietta Rifredi ‹‹credi di aver perso tutto. Ma non è vero. Tu non sei solo. Non hai davvero perso tutto. Hai ancora una casa, un tetto sulla testa. Hai me e hai ancora Agostino. Quel povero ragazzo ha solo undici anni e non hai idea di quanto soffra vedendoti così. Pensi che sia abbastanza grande per cavartelo da solo? Ti sbagli. Io non lo aiuterò come se fossi suo nonno perché non lo sono e non ne ho il diritto, per quanta compassione mi faccia. È figlio tuo, ci devi pensare tu. Non pensi a tuo figlio? Non senti che ti chiama?›› Una volta Montino gliel’aveva gridato in faccia afferrandolo per la camicia da notte con inusitata forza e l’aveva scrollato. ‹‹Cosa ne sai tu di quello che sto passando, vecchio pazzo?›› Aveva sibilato Guido scostando le sue mani con i polsi. Gli occhi lo fulminavano. Sulle sue labbra a malapena visibili sotto la barba lunga, lottavano anni di insulti contro di lui che solo in nome della loro vecchia amicizia stava trattenendo. ‹‹Vattene e non azzardarti mai più a dirmi come mi sento e quello che devo fare. Lo so da me quello che devo fare››.
‹‹Io lo faccio perché tu non lo fai. Hai consacrato la tua vita a lei, e lo so. Lo posso immaginare. Ma ora non sei più solo. Non puoi permetterti certi comportamenti irresponsabili.›› Fece Montino alzandosi in piedi, con voce delusa.
‹‹Vattene.›› Aveva ripetuto soltanto l’altro, la voce arrochita come se gli stesse raschiando la gola.
‹‹Tornerò domani.›› Dichiarò Montino con gli occhi lucidi. Ma Guido non poteva vederlo perché aveva chinato il capo e ora si fissava le mani sporche in grembo. Pareva il ritratto della miseria. ‹‹Non ci provare.›› Lo avvertì il padre di Agostino.
‹‹Sai che lo farò lo stesso››.
‹‹Non ti farò entrare››.
‹‹Ma se non ti alzi da quel letto››.
‹‹Dirò ad Agostino di non aprire la porta››.
‹‹Ma se non parli con tuo figlio.›› E stavolta l’uomo non gli rispose mentre Montino si chiudeva la porta dietro le spalle. L’uomo sospirò e si accorse del bambino. I capelli che gli erano ricresciuti, osservarlo esitante. ‹‹Non lo sentivo parlare da tanto.›› Disse con gli occhioni grandi.
‹‹Non abbiamo parlato. Quello non è parlare››.
‹‹Vorrei almeno provare anch’io a fare qualcosa per lui. Ma non so cosa. Ogni volta ho paura che...›› La voce gli si spezzò e inghiottì tutto quello che voleva dire. Se lo avesse fatto sentiva che sarebbe scoppiato in lacrime e non si sarebbe più fermato. L’anziano signore dovette reprimere l’istinto di posargli una mano sul capo. Non era da lui essere così compassionevole, lui, che per scelta era dovuto diventare forte. Anche quel bambino avrebbe dovuto diventarlo. Ma sentiva avvicinarsi la propria fine ancora più di prima. E se mai aveva nutrito l’illusione di recuperare la vecchia amicizia con Guido, allora si sbagliava. Il Guido che si ricordava ormai non esisteva più. Al suo posto c’era un uomo divorato dal dolore. Un uomo che lui non conosceva. Ma forse quel ragazzino di undici anni che gli stava davanti poteva ancora fare qualcosa. ‹‹Tuo padre ha perso la bussola.›› Disse soltanto. ‹‹Se c’è un modo per salvarlo io non lo conosco. Ma forse tu sì››.
Il ragazzino batté le palpebre sorpreso: ‹‹Io?›› S’indicò il petto con mano tremante. In qualche modo gi ricordò la conversione di Paolo. Come se gli avesse rivelato chissà quale disegno divino. O lo avesse insignito di una missione di chissà quale importanza. ‹‹Sì. Tu››. ‹‹Come, signore? Come posso essere io?››
‹‹Non lo so. Tu lo conosci bene. Forse meglio di me. Forse ci riuscirai››.
Si aspettò che il ragazzino dicesse qualcos’altro ma non successe. Meglio così. Non avrebbe saputo che dirgli.
L’undicenne si fece pensieroso e, quando il visitatore gli disse di scortarlo alla porta obbedì senza dire una parola. Una volta fuori di lì si strinse nel pastrano e si avviò a casa, pregando Dio che quel ragazzino riuscisse davvero a salvarlo.

Agostino richiuse la porta, ancora turbato. Il tono serio in cui glielo aveva detto sembrava lo stesso che immaginava usasse il Messia per rivolgersi ai propri seguaci. Il cuore gli batteva in modo anomalo. Si sentiva come se a parlare attraverso Montino fosse stato Dio in persona. Bè, se esisteva un modo per - non dico salvarlo, Agostino si sentiva troppo piccolo e impotente per tentare una simile impresa - ma riportarlo da lui, allora l’avrebbe trovato. ‹‹Io lo troverò.›› Disse e nel silenzio di quella stanza, rotto soltanto dallo scoppiettare del fuoco acceso, quelle tre parole parvero un giuramento solenne. Solenne quanto le promesse dei cavalieri che tanto ammirava.


*Nota dell'autrice
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=1540526789374491&set=pcb.1540527116041125&type=3&theater Così ho immaginato Agostino
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Diana LaFenice