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Autore: Adeia Di Elferas    14/01/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni stava muovendo lentamente le dita della mano sinistra, piegandole e poi facendole tornare dritte.

Il piccolo gonfiore sul mignolo, però, gli rendeva difficile completare del tutto l'esercizio e, quando vi riusciva, avvertiva sempre una piccola fitta di dolore.

Era solo, nella stanza della guerra, così come ormai veniva chiamata quella saletta in cui sua moglie aveva lasciato ormai in pianta stabile le sue mappe e i suoi appunti che riguardavano il panorama politico e militare dello Stato e dell'Italia in generale.

A breve sarebbero arrivati anche gli altri, per dar vita a una riunione che aveva come fulcro sia la posizione da tenere con Faenza, che nell'ultima settimana aveva ricominciato ad avanzare richieste abbastanza pressanti, sia la condotta che il Medici avrebbe cercato di proporre a Firenze per Ottaviano.

Novembre era nel suo pieno e quella mattina si erano visti i primi fiocchi di neve. Il Popolano aveva sentito dire da un astrologo che seguiva uno degli ambasciatori che vivevano in città, che quello si sarebbe presto trasformato in un inverno rigidissimo, seguito poi da un'estate così torrida da portare una carestia senza precedenti.

Nel suo intimo, Giovanni aveva mandato l'astrologo a quel paese, pensando che fosse solo un uccellaccio del malaugurio.

Quando sentì la maniglia della porta abbassarsi, il Medici era ancora appoggiato al tavolo delle mappe, con la mano in aria e le dita spiegate.

A entrare era stata Caterina. I suoi occhi verdi si posarono per un istante appena sul mignolo ormai un po' storto del marito, ma dalle sue labbra non uscì nemmeno mezza parola a riguardo.

“Sei in anticipo...” gli disse, avvicinandosi a lui e dandogli un rapido bacio.

L'uomo annuì, e spiegò: “Non avevo nulla da fare, così sono arrivato qui prima per ricontrollare un po' di cose...”

“Di quanto credi che potrà essere la condotta per Ottaviano?” chiese la Contessa, mentre, in un gesto quasi automatico, gli sistemava un po' il colletto del giustacuore.

Giovanni, che aveva ricevuto appena il giorno prima un messaggio molto preciso da parte della cognata, assieme a metà circa del suo appannaggio di derivazione francese – 'so che non è molto' aveva scritto Semiramide: 'ma Lorenzo non mi permette di mandarti altri, per il momento' – fece un breve sospiro e disse: “Sto pensando di chiedere non meno di quindicimila fiorini, per una condotta che copra l'intera guerra.”

La Sforza si rabbuiò un momento, poi domandò: “Credi che gli accorderanno un simile prezzo? In fondo, mio figlio non ha mai avuto esperienze militari. Per loro non dà garanzie...”

“Sei tu, la loro garanzia.” tagliò corto il Medici.

La Tigre stava per ribattere, quando un piccolo frullio del bambino che portava in grembo la distrasse. Si portò entrambe le mani al ventre e sulle labbra le si dipinse un breve sorriso.

Il Popolano capì e così, staccandosi dal tavolo a cui era ancora appoggiato, protese anche lui le dita verso la pancia della moglie. Quel giorno la sua donna portava un abito abbastanza succinto da lasciar intravedere molto bene la forma del suo ventre, ma a lui stava bene così. Dopotutto, avevano deciso di non sbandierare la gravidanza, ma nemmeno di nasconderla.

“Sentilo, come si dimena...” sorrise Giovanni, accarezzando con delicatezza la piccola vita che aveva contribuito a generare.

“Ha già lo spirito da guerriero.” concordò Caterina, appoggiando la mano su quella del marito: “E se va avanti così, diventerà il guerriero più famoso di tutti i tempi e anche il più coraggioso. Non ci sarà angolo del mondo in cui non si conoscerà il suo nome.”

“E se fosse femmina?” chiese il fiorentino, che da un po' stava valutando l'idea.

Anche se sia lui, sia la Tigre erano stati convinti fin dall'inizio che si trattasse di un maschio, in realtà non potevano averne la certezza fino al giorno della nascita.

“Anche se fosse femmina, se volesse diventare una guerriera, le darei io le truppe che le servirebbero.” disse subito la Leonessa, sollevando il mento con aria di sfida: “Essere una donna, non sarebbe un limite, se fossero le armi, la sua scelta.”

Giovanni parve pensarci un po'. Oltre a sua moglie, sapeva che c'erano altre donne dedite alla vita militare. Una, aveva sentito parlare di lei anni addietro, era stata Bartolomea Orsini. Peccato, però, che per loro fosse molto più difficile che non per un uomo...

Sentendo il mal celato compiacimento con cui la Sforza ipotizzava un futuro da soldato per il loro piccolo, maschio o femmina che fosse, al fiorentino venne un dubbio: “E se – le chiese, non senza una certa titubanza – che sia maschio o femmina, non volesse comunque prendere la via delle armi?”

Inaspettatamente, Caterina fece una breve risata, divertita dalla serietà con cui suo marito aveva posto quella domanda: “Che diventi ciò che vuole, non mi opporrò, stai tranquillo. Ma sappi solo che avrà anche il sangue degli Sforza, e uno Sforza difficilmente disdegna la spada.”

Il Popolano sospirò e prese la moglie tra le braccia, stringendola come se fosse qualcosa di estremamente prezioso: “Questo l'avevo capito.” assicurò.

La donna la baciò di nuovo, questa volta con più trasporto, e lo fece riappoggiare al tavolo su cui era spiegata una mappa del centro Italia, i segnalini dei vari eserciti già in posizione.

Giovanni l'assecondò, tanto che per poco si dimenticò che a breve sarebbero arrivati tutti i loro Consiglieri di guerra.

Proprio quando la Tigre stava per infilare una mano sotto il giustacuore del marito, delle voci maschili dietro la porta la fecero desistere.

Allontanandosi un po' l'un l'altra, l'ambasciatore e la Contessa si rimisero a posto e, mentre i primi entravano nella sala, si scambiarono uno sguardo complice e scoppiarono a ridere, suscitando solo qualche sguardo incuriosito e qualche espressione stranita nei Consiglieri che cominciavano a disporsi attorno al tavolo.

 

Anche a Pesaro si stavano spargendo voci secondo cui il papa fosse già in ricerca matta e disperata di un nuovo marito per la sua Lucrecia.

Si sosteneva che, una volta fatta la scelta, probabilmente sarebbe finalmente scoppiata la guerra.

Non prima di quel giorno, comunque, perché ogni Stato italiano ormai attendeva che il Santo Padre decidesse da che parte stare, palesando la sua preferenza con quelle nuove nozze.

Il 18 novembre, comunque, al palazzo comitale di Pesaro, i lavori proseguivano sordi e ciechi, incuranti delle malelingue che volevano il papa già certo della validità dell'annullamento.

E i più linguacciuti aggiungevano che, se per una malaugurata mossa di qualche prelato esperto in legge, si fosse trovato un appiglio per non disgiungere Giovanni Sforza e Lucrecia Borja, ci avrebbe pensato il Cardinale Cesare che, o di spada o di veleno, probabilmente avrebbe posto fine in modo 'naturale' all'unione tra i due.

Alla riunione prendevano parte il fratello del conteso, ovvero Gian Galeazzo Sforza, Alessandro da Fano, teologo francescano, Mattia da Ponte Corona, priore dei domenicani, padre Paolo Antonini da Vercelli, anch'egli teologo di fama, Leonardo Dolce da Spoleto, dottore in utroque, Lelio Maddaleni Capodiferro e Ludovico Cardano.

Il notaio che avrebbe scritto il rogito, poi, era lo stesso medesimo che aveva scritto l'atto di procura per Niccolò da Saiano per le nozze con Lucrecia quattro anni prima.

Solo a riunione avviata e nel vivo, arrivò finalmente il signore di Pesaro.

Giovanni era pallido, gli occhi cerchiati, e sembrava sul punto di dare di stomaco. Aveva già informalmente dato il suo consenso e aveva chinato il capo pure con il Moro, scrivendogli che se il papa aveva deciso di farsi giustizia in quel modo infame, alla fine se la sarebbe fatta, che lui fosse complice o meno e che quindi tanto valeva ammettere ciò che non era.

Davanti agli occhi di tutti quei testimoni, lo Sforza prese il necessario per scrivere e firmò, con grande scorno, il documento con cui confermava di non aver mai consumato il matrimonio con Lucrecia Borja perché non ne era mai stato in grado.

A quel modo, pensò Giovanni, riponendo la penna da cui gocciolava ancora un po' di inchiostro scuro, era come commettere un suicidio sociale. Dichiarandosi impotente, le voci che volevano la sua prima moglie, morta di parto, incinta di un altro si sarebbero sparse a macchia d'olio per tutta Italia e a quel punto dove avrebbe trovato una moglie con un buon cognome disposta a sposarlo e dargli un erede per il suo Stato?

“Abbiamo finito?” chiese lo Sforza, avvertendo un mal di testa sempre più pressante.

Il notaio annuì e, mentre gli altri presenti continuavano la loro discussione, gli assicurò: “Questo documento prezioso sarà nelle mani del Cardinale Ascanio vostro parente il prima possibile e si potrà così avviare la pratica...”

“Sia ben chiaro – sottolineò Giovanni, prendendosi una miserissima soddisfazione – che ho firmato contro il mio volere, contro l'amore per la giustizia e la verità, e solo perché gente più potente di me mi ha costretto con la minaccia.”

Il notaio lo guardò senza dire nulla e a quel punto, sistemandosi la berretta che stava scivolando di lato, lo Sforza batté il tacco in terra, irritato, e voltò le spalle alla bella giuria che aveva assistito alla sua capitolazione morale e umana.

 

La casa padronale del Bosco era silenziosa. Tommaso aveva pochissimi servi, il minimo indispensabile per poter gestire la dimora e il giardino vicino.

I suoi fittavoli non erano moltissimi, e nemmeno molto efficienti, ma all'ex Governatore la cosa stava bene così. Aveva passato troppi anni, secondo lui, a preoccuparsi di come andassero gli affari dello Stato per conto d'altri. Adesso che doveva badare ai propri, non gli pareva un gran peccato, un po' di lassismo.

Il denaro che aveva messo da parte – poco – negli anni passati al servizio della Sforza gli bastavano come una sicurezza in caso di crisi improvvisa, per il resto i profitto dei campi erano sufficienti per dargli di che vivere.

Quella tenuta, a conti fatti, era stato un regalo molto bello, da parte della Tigre. Aveva pensato a tutto, in fondo.

Se lui non fosse stato così stupido e accecato dall'amore che provava per lei, se avesse capito che standole vicino si faceva solo del male, avrebbe potuto trasferirsi subito lì assieme a sua moglie e con lei vivere in tranquillità e in pace gli anni che il destino avrebbe concesso loro.

Invece non aveva fatto altro che rovinare la vita a entrambi, incaponendosi con un sentimento che non avrebbe mai portato a nulla, se non alla sofferenza tanto sua quanto di Bianca.

Il suo valletto – che in realtà faceva anche da capo della servitù – picchiettò due volte le nocche della mano contro lo stipite della porta e a un mezzo grugnito del suo padrone gli si avvicinò.

Tommaso era in poltrona, la barba incolta da giorni, i capelli grigi spettinati e gli occhi persi nelle fiamme del camino che gli stava davanti.

In quella fredda notte di fine novembre, al suo valletto parve più simile a uno spettro che non a un uomo ancora nel pieno della maturità.

“Un messaggio per voi, da Forlì.” disse il giovane, porgendo una lettera al Feo.

A quelle parole, Tommaso parve tornare quello di un tempo, ma fu solo per una frazione di secondo.

I suoi occhi si erano riaccesi, la sua schiena era tornata dritta e le sue labbra erano state attraversate da un fremito, mentre la sua mano si protendeva verso la missiva per strapparla dalle dita del suo servo.

“Lasciami solo.” gli ordinò, mentre la sua cupezza tornava a dominarlo.

Appena il valletto se ne andò, Tommaso si sporse verso le fiamme del camino, praticamente l'unica luce della stanza, quella sera, e cercò con fare frenetico lo stemma della Contessa. Invece non trovò altro che una chiusura sbrigativa e informale.

Non perdendo le speranze, la spezzo e spiegò il foglio. Tuttavia, il suo entusiasmo si spense subito quando riconobbe la grafia di suo zio, Cesare.

Le prime righe erano di puri convenevoli, con cui il castellano di Ravaldino gli chiedeva come stesse e lo pregava di portare una preghiera sulla tomba di Bianca e Lucrezia anche da parte sua.

Dopodiché la questione si faceva più interessante. Con un giro di parole che a Tommaso diede molto suo nervi, suo zio gli stava facendo capire che il matrimonio tra Caterina e il fiorentino andava più che bene e che quell'uomo pareva avere molto a cuore non solo la Leonessa, ma anche lo Stato e i figli di lei.

'Inoltre, nipote mio, ho da dirti cosa che ritengo tu abbia a sapere – aveva poi scritto – ovvero che, e la conferma m'è giunta ormai da inequivocabile fonte, la nostra signora è in attesa d'un figlio et esto figlio d'altri non è se non del suo marito'.

Tommaso dovette rileggere molte volte quella frase, per riuscire a capire. Il suo cervello si rifiutava categoricamente di accettare quella semplicissima verità.

Anche se sapeva da tempo, ormai, che la Sforza si era risposata, chissà perché non aveva mai preso in considerazione l'ipotesi che, prima o poi, avrebbe potuto trovarsi incinta di nuovo.

Immobile come una pietra, Tommaso strinse tra le mani la lettera ancora per un po'. Costrinse i suoi occhi ad arrivare in fondo, costatando che Cesare non aveva scritto altro di interessante. Dunque, gli aveva mandato quel messaggio solo per fargli sapere che Caterina era gravida.

Colto da una rabbia improvvisa e incoercibile, il Feo strappò la lettera in due e, appallottolando ciascuna metà, la gettò nel fuoco.

Guardò la carta bruciare, arricciarsi e diventare cenere e poi, stremato come non mai, si appoggiò al bordo del camino e cominciò a piangere in silenzio, maledicendo il giorno in cui la sua vita aveva incrociato quella della Tigre di Forlì.

 

Le grida di Anna Maria si sentivano fino dal piano di sotto. Aveva cominciato ormai da ore, eppure non si avevano ancora notizie né sue né del bambino che doveva nascere.

Alfonso, che in quei giorni aveva avuto una recrudescenza del suo male e si era trovato con i primi segni della sua malattia impressi sul volto, si era chiuso nella propria camera e non aveva voluto uscirne per nessun motivo.

Suo padre Ercole, invece, aveva chiamato a sé alcuni religiosi che aveva in grandissima stima e li aveva praticamente obbligati a indire una lunga seduta di preghiera, affinché almeno il piccolo fosse un maschio, in salute, e fosse vivo.

Nella stanza in cui la giovane Sforza era stata messa per partorire, una schiera di serve aiutava la levatrice che, la fronte sudata e l'abito zuppo, benché fosse il 30 novembre, continuava a dare ordini e a controllare lo stato della partoriente.

Anna Maria era poco cosciente da ore. Farneticava, aveva allucinazioni, a tratti sembrava perdere del tutto i sensi e poi si risvegliava con grida terribili.

Non riusciva a collaborare con la levatrice, che le diceva di spingere o di respirare. Gridava, delirava e perdeva i sensi, in un continuo andirivieni di dolore.

La sua schiava, che piangeva senza sosta, le detergeva la fronte, le accarezzava i capelli e, di quando in quando, incurante degli sguardi glaciali della levatrice e di tutte le altre, le dava baci sulle guance e sulle labbra, come a sperare che quei piccoli gesti bastassero a ridarle vigore.

Ercole aveva provato a vietare alla schiava di seguire la sua padrona, più per evitare scandali, che per seria convinzione, ma anche un cuore di pietra come il suo si era lasciato vincere e quando l'aveva vista così atterrita e disperata, l'aveva lasciata libera di correre a dare conforto alla sua Anna Maria.

La levatrice disse in fretta qualche frase a quelle che l'aiutavano e la schiava non comprese che cosa stesse dicendo, ma il modo in cui le altre la fissavano le fece capire che stava capitando qualcosa di grave.

Accompagnato da un bagno di sangue, tra le gambe divaricate della moglie di Alfonso Este, comparve una specie di mostriciattolo informe e macerato.

Qualche donna presente cacciò un grido, che andò a mescolarsi con le urla di dolore di Anna Maria, e una svenne, con un tonfo sordo.

La Levatrice, prese la cosa tra le mani, e poi cominciò a tamponare come una pazza il sangue che ancora sgorgava dalla giovane partoriente.

La schiava sentiva il cuore battere nel petto tanto in fretta che pareva scoppiare. I suoi occhi erano così pieni di lacrime che vedeva a stento ciò che le stava davanti, tuttavia si accorse ugualmente di come il volto della sua amata Anna Maria stesse diventando pian piano cereo.

Era come se il sangue che continuava a sgorgare incessante la stesse lasciando del tutto vuota ed esangue.

Non gridava più. Le sue labbra erano ormai bianche quanto la pelle. I suoi begli occhi si aprirono un'ultima volta, cercando quelli della sua schiava che, presa dal panico, rispose a quella ricerca con un bacio. Le labbra della sua Anna Maria erano gelate.

Il corpo della donna venne scosso da un paio di tremiti e poi rimase immobile.

Qualcuna delle donne presenti scoppiò a piangere, un paio si abbracciarono. La vecchia levatrice si permise un gesto di stizza, borbottando tra sé cosa in un dialetto strano.

“Quel bambino era morto da giorni...” concluse poi l'anziana, parlando direttamente alla serva più alta in grado, in modo che uscisse a riferire quanto dovuto: “Ha finito per macerare e avvelenarle il sangue. Con ogni buona volontà, non avremmo potuto salvare né il piccolo, né lei.”

Finalmente la schiava comprese quello che era successo. Guardò la sua donna, immobile, fredda e immersa nel suo stesso sangue, con un mostro dalla pelle consunta ancora tra le cosce.

Il dolore fu tanto, nel cuore della ragazzina, che cadde in terra priva di sensi prima ancora di rendersene conto.

 

Caterina stava facendo il filo a una spada, nella sala delle armi. Era mattino molto presto. Dicembre era iniziato appena da un giorno, ma la neve cominciava già a essere alta.

La Sforza aveva lasciato la camera da letto di buon'ora solo perché non riusciva a dormire e non voleva disturbare il marito.

Giovanni in quei giorni stava bene, ma lei si era convinta che più riusciva a riposare bene durante la notte, più la sua buona salute avrebbe retto.

Finito di sistemare la spada, passò a controllare un paio di balestre di cui il maestro d'armi il giorno addietro si era lamentato.

Nella sua pancia, il suo piccolo si muoveva spesso, quando era in quella sala, circondata da lance, scudi e spadoni. Era come se gli piacesse. In realtà la Contessa non credeva che un bambino non ancora nato potesse essere così cosciente di quello che lo circondava, ma, rispetto a tutti gli altri figli che aveva aspettato, con questo le sembrava di avere una connessione tutta particolare.

In un certo senso, era la prima volta che aveva seriamente la coscienza di portare con sé una vita di cui era lei stessa responsabile.

“Ah, sei qui...” la voce di Giovanni arrivò all'improvviso dall'ingresso.

La Sforza sollevò lo sguardo, mentre stava ancora tendendo la corda della balestra con la manovella e gli sorrise: “Credevo dormissi ancora.”

“Infatti, ma il castellano è arrivato davanti alla nostra camera per consegnarti questa...” le disse, avvicinandosi con una lettera in mano.

“Poteva venirmi a cercare, invece di mandare te.” fece la donna, spazientita, lasciando la balestra sul tavolo e prendendo il messaggio.

“Mi sono offerto io, in realtà.” ammise il fiorentino: “Avevo voglia di stare con te e ormai ero sveglio...”

La donna annuì, senza fare commenti e, prima di mettersi a leggere, guardò il sigillo: “E che vogliono gli Este da me?”

Lesse in fretta. Era un messaggio estremamente succinto, scritto da Alfonso Este, che, diceva, voleva informarla personalmente della morte di Anna Maria, in rispetto all'amicizia che li legava e in riconoscenza all'ospitalità che anni prima lei gli aveva fornito.

Caterina si appoggiò un momento al tavolo. Il Medici riconobbe l'allarme nei suoi occhi e, invece di chiederle spiegazioni, si fece dare il messaggio.

Quando l'ebbe letto anche lui, capì che oltre il cordoglio per la sorella – che probabilmente, ipotizzò, non era troppo forte, visto che la stessa Tigre, quando se n'era parlato qualche tempo addietro, aveva ammessa a malincuore di ricordare a stento la faccia di Anna Maria – c'era un altro tipo di sentimento nel suo petto.

“Hai paura?” le chiese, accarezzandole con dolcezza la fronte.

La Leonessa scosse il capo, ma restò in silenzio, chiudendosi in un mutismo che al marito non piacque per niente.

Come poteva darle torto, in fondo? Al suo posto, anche lui sarebbe stato attanagliato dal timore.

Prima sua sorella Bianca, poi la moglie di suo zio, e infine un'altra delle sue sorelle. Tutte giovani in salute e tutte morte di parto. In un paio d'anni, ben tre donne collegate a Caterina erano morte nel tentativo di dare alla luce un figlio, senza che nemmeno lui restasse in vita.

E in più, pensò il Popolano, con una stretta allo stomaco, la Leonessa non era nemmeno più tanto giovane...

“Io sono forte.” fece la Sforza, come se anche lei avesse fatto un ragionamento analogo a quello del marito.

Intrecciò le sue dita con quelle del fiorentino, per dissipare le ombre che avevano fatto capolino anche sul bel viso dell'uomo: “E così è anche il figlio che ho in grembo. È figlio nostro, ricordatelo sempre. Un Medici con il sangue degli Sforza che gli scorre prepotente nelle vene. Non potrebbe esistere al mondo nulla di più testardo e resistente di questo bambino.”

A quella costatazione, Giovanni non trattenne una piccola risata. Lasciò che la moglie lo abbracciasse e poi sospirò.

“Che c'è ancora?” gli chiese la Sforza, che, malgrado le proprie parole, era anch'ella pallida e ancora scossa.

“Mia madre è morta per far nascere me.” le ricordò Giovanni: “Non voglio che succeda la stessa cosa a te.”

“Io ho già partorito sette volte.” gli ricordò Caterina, facendosi più secca: “Sette figli, tutti vivi, e nel giro di un paio di giorni, ero così in forma da riuscire anche a cavalcare per ore intere.”

“Adesso, però, hai quasi trentacinque anni.” sussurrò il Medici.

La Contessa fu sul punto di scrollarlo, ma si rese conto che la preoccupazione che l'aveva preso aveva radici molto profonde e che sarebbe stato sbagliato scaraventarlo.

Tentò quindi di intraprendere una strada a cui non era avvezza. Con fare materno, lo riprese tra le braccia, accarezzandogli lentamente la nuca e lasciando che affondasse il viso nei suoi capelli.

Restarono così a lungo e a un certo punto la Sforza capì che suo marito aveva ceduto alle lacrime, per quanto cercasse di non farlo capire. Per non metterlo in imbarazzo, gli impedì di staccarsi da lei finché non sentì che il suo pianto s'era placato.

“Non sono più giovane – concordò la donna, quando finalmente lasciò libero il marito dalle sue braccia – ma sono un donna forte e far figli non è mai stato difficile, per me. Ti prometto che andrà tutto bene. Ti fidi di me?”

Giovanni annuì, gli occhi chiarissimi ancora arrossati per il pianto.

“Bene. E adesso torniamo un momento in camera. Voglio rispondere ad Alfonso...” soffiò la Sforza, prendendo per mano il Medici e portandolo con sé fuori dall'armeria: “Anche se non la vedevo da anni, Anna Maria era pur sempre mia sorella. E poi voglio capire adesso che cosa succederà. Se ho capito che ha in mente Ercole Este, è probabile che Ferrara ne approfitterà per sottrarsi una volta per tutte a Milano...”

Leggermente sconcertato – come a tratti ancora gli capitava – per la facilità con cui sua moglie era passata da discorsi molto personali come il lutto o la paura, alla fredda politica, Giovanni annuì e la seguì, riuscendo a ritrovare la voce e suggerire: “Se Ferrara si allontanasse da Milano, è probabile che anche Mantova la seguirà presto...”

 

 
   
 
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